Abbiamo trovato il Tesoro – Lettera Pastorale 2014

Abbiamo trovato il Tesoro.

LETTERA PASTORALE 2014 SULLA EUCARISTIA COME FUOCO DELLA MISSIONE

Ai Presbiteri, ai Diaconi, alle Persone Consacrate, ai Fedeli Laici

Abbiamo trovato il Tesoro
Il cucciolo del cane, del gatto, del cavallo guarda le stelle,
e guaisce, miagola o nitrisce.
Il cucciolo dell’uomo e della donna fissa le stelle,
e fa “ohhh!”, batte le manine e sorride.
Il filosofo scruta il cielo stellato sopra di sé e si chiede:
“Cosa vorrà mai questa legge morale dentro di me?”.
Il poeta mira le stelle, e si sgomenta: “Ed io, che sono?”
Il poeta credente contempla le stelle, e si stupisce:
“E io chi sono, perché Tu ti ricordi di me?”.
Abramo guarda le stelle, e si sente guardato:
“Esci dalla tua terra e va’…”.
Anche i pescatori del lago di Galilea si sentono guardati:
“Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”.
Poco dopo si diranno a vicenda: “Abbiamo trovato il Tesoro”.
Più esattamente si dicono: “Abbiamo trovato il Messia”.
Ma non è “quel” Messia che viene da Nazaret il loro tesoro,
visto che non possono più farne a meno?
“Tesoro”: parola magica, esaltante e struggente.
Appartiene al vocabolario di poeti, pionieri e innamorati.
Ma è anche voce del lessico dei Vangeli e della Bibbia:
è il tesoro trovato nel campo, il tesoro del regno dei cieli,
è la dove batte il tuo cuore, e lo portiamo in fragili vasi di creta,
è la missione che ci è affidata, è la felicità che ci sarà riservata.
Tesoro è Gesù, la sua adorabile umanità, la sua santa eucaristia.
È un tesoro di bellezza, di gioia, di speranza, di libertà.
Noi lo abbiamo trovato perché ci è stato regalato,
non perché ce lo siamo meritato.
Ma ora, che cosa ne stiamo facendo?

 

Care Sorelle, Cari Fratelli,
ho finito di stendere questa Lettera l’ultima domenica del luglio scorso, quando a messa si è letto il vangelo del tesoro nel campo. Al termine ho formulato il titolo e ho scritto questa introduzione. Ora vorrei indicare il contenuto e le finalità della Lettera. Tra poco inizierà il nuovo anno pastorale che per noi – lo ricordo – è il secondo anno dedicato all’eucaristia e ci vede impegnati nella preparazione della missione diocesana, che avrà luogo, a Dio piacendo, il prossimo anno, 2015-16. Ho pensato perciò di proporre delle riflessioni su
– come l’eucaristia trasforma la nostra esistenza (capitolo 1);
– come informa la nostra storia (capitolo 2);
– come ci educa alla missione (capitolo 3).

Dedico questa lettera a quanti hanno trovato il tesoro, perché si decidano – o continuino – a condividerlo. E a quanti non lo hanno ancora trovato, perché non si stanchino di cercarlo.

Ringrazio per l’attenzione e per le gradite risonanze. E tutti benedico di cuore

+ Francesco Lambiasi

CRISTO VITA DELLA MIA VITA

Amati

Cosa fece Gesù l’ultima sera della sua vita terrena nel cenacolo? Prima di venire “tradito” – letteralmente, “consegnato”, cioè dato via, abbandonato, rinnegato – Gesù “si conse­gnò” liberamente e deliberatamente per la salvezza dell’uma­nità, nel segno del pane spezzato e del vino condiviso. Prima che persecutori e carnefici gli strappassero il bene della vita, Gesù ne fece dono volontario, generoso e gratuito: “Prendete, mangiatene, bevetene tutti: questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”. Quando noi nella messa obbediamo al comando del Signore di celebrare il suo memoriale e recitiamo la grande preghiera eucaristica, continuiamo a vedere il pane e il vino sull’altare, ma crediamo che essi – per l’invocazione allo Spirito Santo – sono diventati il corpo e il sangue del Signore. È avvenuta una trasformazione sostanziale: il pane sembra ancora pane – ne ha il colore, il sapore, l’odore – ma non ne ha più la ‘sostanza’, poiché è stato trasformato nel corpo di Cristo, come il vino nel suo sangue.

Ma quella sera nel cenacolo, si è verificata – sempre per l’azione dello Spirito Santo – un’altra trasformazione: questa volta non negli elementi del pane e del vino, ma nel cuore stesso di Gesù. L’odio che sta per aggredirlo viene trasformato in amore che liberamente si dona. Ad una violenza totalmente ingiustificata Gesù reagisce con una dedizione totalmente incondizionata. La possiamo chiamare trasformazione esistenziale, in quanto è avvenuta nell’esistenza stessa di Gesù. Da questa trasformazione esistenziale che avviene in Gesù si sviluppa una energia talmente potente da causare la trasformazione sostanziale del pane che si converte nel suo corpo e del vino che si tramuta nel suo sangue.

Per entrare più a fondo nella logica di Gesù e nella dinamica eucaristica, dobbiamo riprendere i quattro verbi del racconto della cena: prese il pane, rese grazie o benedisse, lo spezzò, lo diede. Ma prima ancora dobbiamo tornare al protagonista di questi verbi: Gesù. Domandiamoci di nuovo: cosa si gioca nel suo cuore, nel momento in cui Giuda, con il suo vile tradimento, sta per dare il via alla passione del Maestro? Gesù sa bene che è giunta la ‘sua’ ora di passare da questo mondo al Padre. È l’ora della fine. Gesù ha obbedito con filiale abbandono alla missione che il Padre gli ha affidato. Ma ora questa missione sta per registrare il fallimento più terribile e catastrofico: una infamante morte in croce. Nell’ultima cena Gesù affronta consapevolmente una situazione tanto avversa. Il suo ministero di dedizione a Dio e ai fratelli, esercitato con la generosità più fedele, sta per essere brutalmente interrotto da un abominevole tradimento: è il delitto più rivoltante e il più refrattario al dinamismo dell’alleanza. Come reagisce il Maestro al complotto ordito contro di lui? Quale sarebbe la reazione da aspettarsi in una circostanza così ingiusta e drammatica?

Una situazione analoga l’aveva già vissuta, secoli addietro, il profeta Geremia: avvisato dal Signore di una lurida congiura tramata contro di lui, Geremia non si fa giustizia da solo, non ricorre alla violenza, ma si appella al tribunale di Dio, da cui invoca una inesorabile vendetta. Il cuore del giovane profeta di Anatot è colmo di livore e scaglia invettive implacabili contro i suoi nemici: chiede a Dio di sterminarli, di rendere le loro donne vedove e senza figli: “Ora, Signore degli eserciti, giusto giudice, che scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa” (Geremia 11,20). Ben diversa la reazione di Gesù. Pure lui si appella al tribunale di Dio, ma non per invocare vendetta. Gesù sa che dal cielo potrebbero arrivargli più di dodici legioni di angeli per difenderlo, ma dal Padre invece implora perdono e misericordia incondizionata: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.

Ora domandiamoci: perché Gesù si comporta così? Cosa è che gli permette di superare la paura della morte? Cosa gli consente di fare della sua vita e della sua morte un dono d’amore? La risposta è una sola: è l’amore del Padre. Gesù si è sempre sentito amato dal Padre suo. Un Figlio di Dio “orfano” del Padre sarebbe del tutto irriconoscibile. Fin da quando i vangeli registrano il suo primo “pronunciamento” a favore del Padre – quando appena dodicenne si reca, in occasione della Pasqua, a Gerusalemme – ai genitori angosciati per la sua latitanza, risponde sicuro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Luca 2,49). E all’inizio della vita pubblica, quando si fa battezzare da Giovanni nel Giordano, si ode dal cielo la voce: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: tu sei tutta la mia gioia” (Marco 1,11). Una scena ana­loga si ripete sul monte della trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (Marco 9,7).

Una conclusione si impone: Gesù è l’Amato che si è sen­tito sempre, dovunque, comunque amato. Certo, la sua piena, integrale natura umana non gli impedisce di sentire la paura della morte, ma l’amore tenero e tenace del Padre lo trattie­ne dall’acconsentire alla paura e dal farsene paralizzare. È per questo che nel momento stesso in cui formula ritualmente i quattro verbi eucaristici – prendere, benedire, spezzare, dare – li personalizza esistenzialmente, cioè li attribuisce a se stesso, alla sua stessa persona. È come se dicesse: “Mentre prendo questo pane, mi lascio ‘prendere’ da te, Padre mio, per farmi benedire, spezzare, dare”. Ma questa trasformazione esisten­ziale Gesù acconsente che avvenga in lui, perché avvenga anche in noi. Perché anche noi, mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, ci sentiamo gli Amati che si lasciano, a loro volta, prendere dalle sue mani sante e venerabili, si lasciano benedire, spezzare, dare… Così i quattro verbi eucaristici sono rivelatori dello stile messianico di Gesù: non solo ci permettono di capire la sua vita, ma anche la nostra. Di più: ci abilitano a vivere la nostra vita nella stessa luce eucaristica di Gesù. E il suo nome più bello – l’Amato – diventa anche il nostro: noi siamo e ci chiamiamo gli Amati.

Scelti

Siamo esseri scelti.

Forse vi aspettavate che cominciassi con il verbo “prendere”. In effetti, nel rincorrersi dei quattro verbi ‘eucaristici’ il primo è il verbo prendere: “prese il pane”. Ma, riferito alle persone, questo verbo risulta duro e piuttosto freddo.

Quando ha chiamato i pescatori del lago di Galilea, Gesù non li ha presi, come si afferrano oggetti “usa e getta”, ma li ha scelti. Ai suoi discepoli la sera della cena ricorderà: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Anche noi siamo stati “scelti dal Padre in Gesù prima della fondazione del mon­do” (Efesini 1,3). Però per noi anche questo verbo – scegliere – riferito a Dio come soggetto, risulta piuttosto antipatico e urticante. Ci viene da pensare che se Dio sceglie alcuni, è perché ne scarta altri. Non è così. Noi viviamo nella “cultura dello scarto”, ci ricorda papa Francesco. Ma il mio essere stato scelto non significa che gli altri siano stati eliminati. La scelta di Dio non è escludente, ma inclusiva: ingloba tutti e ciascuno, ognuno nella sua assoluta, irripetibile singolarità. È una scelta misericordiosa, non selettiva né competitiva: noi non siamo amati perché preziosi, ma siamo preziosi perché amati. Ai piedi del Sinai Israele si era domandato: “Perché Dio, tra tutti i popoli della terra, ha scelto proprio noi? Eppure non siamo il popolo più forte, più ricco, più colto della terra. Al contrario!”. E Mosè, in nome di Dio, aveva risposto: “Il Signore ha scelto voi, il più piccolo di tutti i popoli, perché vi ama” (Deuteronomio 7,7s).

Anche noi siamo stati scelti, perché siamo stati amati. Quando ci ha creati, Dio ci ha prediletti e preferiti nella sconfinata galleria degli esseri possibili, e ci ha chiamati all’esistenza. Ma non ci ha fabbricati in serie; ci ha creati ognuno “a cera persa”: dopo averci plasmato, ha rotto lo “stampo di cera” e per ognuno usa sempre uno stampo diverso. La creazione non è una interminabile, noiosa clonazione. Ogni figlio di Eva viene al mondo come una persona speciale: prima di me e dopo di me non c’è stato e non ci sarà uno uguale a me. Nel mosaico formato dagli infiniti volti – tutti somiglianti al Figlio suo, ma tutti diversi l’uno dall’altro – io sono un ‘tassello’ unico, originale, irripetibile.

Anche Gesù ci ha amati e ci ama tutti, ma non in modo “general generico”: è morto per tutti e per ciascuno di noi. Lui è fatto così: per costruire la sua Chiesa, non gli basta la roccia di Pietro, né quelle degli apostoli o dei santi, ma prende il primo ciottolo che incontra e lo colloca dove ne ha bisogno. Quel ciottolo sono io: lui mi guarda con infinita tenerezza e si mette a cesellare la mia povera vita, getta via le cianfrusaglie, ma non mi fa fare brutta figura. A me non importa dove mi mette: l’im­portante è trovarmi nelle sue mani, malleabile, utile, per essere collocato là dove lui da sempre mi ha sognato, nel posto prepa­rato proprio per me. Questa è la mia felicità. Anch’io posso dire: “Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20).

Benedetti

Siamo figli benedetti.

Il secondo verbo riferito a Gesù nel contesto della cena, dopo aver detto che “prese il pane”, è il verbo “rese grazie” o “benedisse”. In alcuni quadri che raffigurano l’ultima cena si vede Gesù che traccia un segno di croce sopra il pane, ma non è questo il senso del verbo benedire. A chi o a cosa è rivolta allora la benedizione di Gesù? Dobbiamo ricordare che per noi il verbo benedire fa venire in mente il prete che asperge con l’acqua santa un’auto nuova o il nuovo padiglione di un ospedale oppure segna con una croce una assemblea di fedeli, come per esempio avviene al termine della messa. Ma per gli ebrei la benedizione era la preghiera più alta che ci fosse: veniva rivolta a Dio per cantarne la potenza, per decantarne la bontà, per acclamarne la sconfinata misericordia. Conosciamo il Magnificat: è l’esplosione di una lode incontenibile che scaturisce dal cuore di Maria, nel sentirsi amata, nel vedersi avvolta e tutta impregnata dalla gratuita misericordia di Dio. Ecco, il Magnificat è uno splendido esemplare di benedizione.

Rientriamo nel cenacolo. È l’ora più drammatica della vita di Gesù. Uno tsunami di dolore sta per abbattersi su di lui e per schiantarlo senza scampo. Ma nonostante tutto Gesù non indietreggia. Non fugge per mettersi in salvo. Non prepara una diplomatica autocritica da sciorinare a bocca rotonda in sede di processo: se lo facesse, gli offrirebbero una uscita di sicurezza, gli farebbero ponti d’oro. No, Gesù resta fedele al progetto del Padre, dal quale si sente immensamente amato e benedetto. Con la sconfinata forza di questa benedizione Gesù affronta la prova e la supera. “Insultato, non rispondeva con insulti; maltrattato, non minacciava vendetta” (1 Lettera di Pietro 2,23). Grazie alla “energia nucleare” e smisuratamente positiva del­la benedizione del Padre, Gesù riesce a neutralizzare la forza ostile e distruttiva della maledizione di Caifa e della sua mafia.

Ritorniamo all’espressione: “rese grazie con la preghiera di benedizione”. È come se Gesù dicesse: “Padre mio, Abbà dolcissimo, Babbo buono e caro, ti rendo grazie per questo pane, che mi dai in segno della tua bontà, e per questo vino, simbolo del tuo amore, che rallegra il cuore dei miei fratelli. Ti lodo e ti benedico, perché nel segno di questo pane e di questo vino posso fare dono della mia vita e della mia morte, posso comunicare a tutti il dono di tutto me stesso, e stabilire così la nuova ed eterna alleanza”. Questo significa prendere (il pane) rendendo grazie. Gesù si prende tra le mani la vita di Figlio di Dio fatto uomo – ma non ritiene un privilegio l’essere come Dio, non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con il Padre, non si ripiega morbosamente su di sé, non si chiude in un mu­tismo amaro e risentito – ma si offre gratuitamente al Padre e si dona generosamente a tutti noi, poveri peccatori. Prendere benedicendo significa ricevere con gratitudine ed entrare in comunione con il Donatore (il Padre) e con i donatari (i fratelli). Nella benedizione ogni goccia di vita ritrova la sua sorgente; ogni briciola di realtà rintraccia la sua matrice e ridiventa segno di uno sconfinato amore.

Viviamo in un mondo appestato dai fumi d’incenso sistematicamente indirizzati a coloro da cui si possono poi incassare, per par condicio, quote cospicue di untuosa adulazione. Viviamo in una società inquinata dagli stomachevoli miasmi di calunnie e denigrazioni, implacabilmente mirate ad oscurare ombrose concorrenze e ingombranti rivalità. Solo chi si sente amato da Dio può benedire anche chi lo maledice e può sentirsi da lui benedetto, anche quando tutte le voci gli si coalizzano contro e tentano di farlo sentire un maledetto, un miserabile scartato ed emarginato.

L’eucaristia è il sacramento della benedizione. In Gesù siamo stati benedetti anche noi. “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo” (Efesini 1,3). Il corpo donato di Gesù, portando su di sé tutta la maledizione del nostro rifiuto, diventa pane spezzato per noi, sorgente esuberante di ogni benedizione.

Spezzati

Siamo esseri spezzati.

Nella vita sperimentiamo dolorose fratture, amari abbandoni, ustioni brucianti. Ciò che più ci fa soffrire – molto più del dolore fisico, delle malattie invalidanti, delle disabilità congenite, degli incidenti traumatici, e perfino molto di più delle povertà dovute a mancanza di pane, casa, lavoro – sono le sofferenze provocate da relazioni spezzate, all’interno di famiglie, nei luoghi di lavoro, tra innamorati, amici, colleghi e addirittura nelle comunità cristiane. Il mondo occidentale è stracolmo di gente che si sente rifiutata, ignorata, lasciata sola. Quanti non si sentono amati da nessuno! E chi di noi non si porta nel cuore le stigmate di queste penose ferite o la ferita ancora più scottante di aver arrecato queste ferite ad altri?

Lo stesso Gesù, venendo in mezzo a noi, si è reso vulnerabile agli assalti dell’odio, si è esposto alle micidiali aggressioni della violenza, all’amarezza del tradimento, all’angoscia dell’abbandono. Anzi “ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” (Matteo 8,17). Ma ha posto tutto questo mare di dolore sotto il segno della benedizione. Non ha evitato lo scandalo della croce, non ha bypassato né negato l’ignominia di una morte marchiata dall’infame giudizio che lo condannava come un reietto e scomunicato. La santa Legge di Dio aveva sentenziato senza appello: “maledetto chi è appeso al legno” (Galati 3,13). Ma Gesù ha allontanato la croce dall’ombra della maledizione e l’ha collocata nel cono di luce della benedizione. Da ostacolo alla pace, ne ha fatto il passaggio per arrivarvi. Da barriera all’amore, ne ha fatto il ponte per approdare all’amore più grande. Ai due di Emmaus dirà che il Messia doveva patire per entrare nella sua gloria (Luca 24,26). Quel verbo doveva non dice una fatale ineluttabilità, ma espri­me una inevitabile conseguenza della scelta, siglata da Gesù, di amare tutti, sempre, comunque, anche fino alla morte in croce.

Noi però da soli non ce la facciamo a porre il nostro “essere spezzati” sotto il segno della benedizione. Quando speri­mentiamo il fallimento, quando soffriamo l’abbandono, quando rischiamo la vicinanza della morte, è più facile dire a noi stessi: “Vedi, la tua vita è maledetta. Avevi sempre pensato di essere un soggetto inutile, indegno, un buono a nulla. Adesso lo sai per certo”. Ma Gesù nell’eucaristia ci salva dal naufragio e ci aiuta a passare all’altra riva, dove perfino il nostro abbondante peccato può essere sovrabbondato dalla sua grazia, dove il nostro male può diventare un bene da condividere con chi soffre più di noi. Possiamo anche noi gridare con san Paolo che niente e nessuno ci potrà separare dall’amore di Cristo: neanche la fame, l’angoscia, la miseria, la spada (Romani 8,35). E se, alla fine, la croce mi avesse purificato e fortificato, se l’amore avesse reso le mie ferite delle feritoie per travasare il balsamo di quella consolazione – con cui sono stato personalmente consolato – sulle ferite anche di una sola sorella o di un solo fratello, se la mia vita fosse servita a lenire la pena anche di una sola persona al mondo, allora l’ultima parola dei miei celeri giorni sarà una sola: benedizione.

Donati

Siamo nati al mondo per essere donati.

Non veniamo scelti, benedetti, spezzati semplicemente per noi stessi, ma per essere misericordiosamente donati. È il quarto verbo rivelatore dell’identità dell’Amato, Gesù: “Prese il pane (…) e lo diede”. Gesù dando il pane, si dà, E si da perché è ben consapevole di essere il Figlio che è tutto donato dal Padre: riceve tutto da lui – la natura divina, la gloria, l’amore, il potere di dare la vita, di salvare e di giudicare – e tutto ridona al Padre. Da solo non può fare nulla, se non ciò che il Padre gli dona di fare. Gesù è “il-tutto-dono”. È venuto in mezzo a noi per offrire la sua vita: le parole che ha ricevuto dal Padre, le opere che il Padre gli ha dato da compiere, niente ha tratte­nuto per sé. E alla fine ci ha fatto dono anche della sua morte: ha partecipato ai Dodici il suo sangue che stava per essere versato: “per loro e per tutti noi”. Senza il brivido della meraviglia di fronte a questa “economia del dono”, se non ci lasciamo afferrare dal tremito dell’adorazione, senza l’incanto dello stupore, si fa difficile l’incontro con Gesù, e diventa un rebus complicato anche il dialogo con Dio. Al massimo, con il Signore ci potrà essere un rapporto mercantile, una transazione mercenaria, basata sulle contrattazioni della domanda e dell’offerta, soprattutto nei momenti della paura e dello smacco. Ma non esperienza di abbandono, non slancio di fiducia, e tanto meno, vertigine d’amore.

L’eucaristia abilita anche noi a farci dono nella vita e nella morte. Nella vita: possiamo donare tutto, possiamo condividere beni materiali e soprattutto beni spirituali: amicizia, pazienza, bontà, gioia, speranza.

Se è vero che è tanto triste e spento il cielo di chi vive solo per se stesso, è altrettanto vero che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Ma l’eucaristia ci aiuta a fare dono anche della nostra morte un dono. In questi anni ho avuto modo di venire in contatto con morti veramente cristiane e belle, molto belle. Racconto brevemente l’ultima: il “santo viaggio” di suor Ornella, una giovane suora riminese, delle suore “Francescane di s. Onofrio”. Era malata da vari anni, ma ha sempre vissuto il suo calvario totalmente decentrata da se stessa, tenendo sempre lo sguardo fisso sul suo Sposo. Non si faceva in tempo a chiederle: “come stai?”, che già si era interessata di te. Quando si è aggravata, ha continuato a donare il suo sorriso e la sua preghiera a tutti.

Un giorno mi ha detto: “il Signore è stato buono con me. Se mi avesse preso dopo un incidente mortale o dopo una ma­lattia fulminante, non avrei avuto il tempo per prepararmi. Con me invece ha preso tempo e non sono io che mi devo prepara­re all’incontro. Ci sta pensando lui”. Prima di entrare in agonia ha consegnato a tutti il suo ultimo messaggio. Diceva: “Questa notte ho fatto fatica a dormire. Ma Gesù mi ha fatto compa­gnia. Mi ripeteva in continuazione: io ti ho scelta e ti ho prediletta”. La morte non è stata la fine di una vita splendida, ma l’inizio di un’altra ancora più splendida. Questo significa morire da vivi, non vivere da morti.

 

COME VIVI TORNATI DAI MORTI

Dall’ostilità all’ospitalità

L’eucaristia trasforma la nostra vita e la plasma, la in-forma dandole una nuova forma, quella della vita di Cristo. Ci è così dato di vivere “come vivi tornati dai morti” (Romani 6,13). Per entrare in questo mistero d’amore, dobbiamo sempre ripartire dall’evento del cenacolo. Nell’ultima sera della sua vita, Gesù era perfettamente consapevole di quale sarebbe stata la conseguenza fatale dell’ignobile tradimento di Giuda Iscariota: una morte raccapricciante sulla croce. Nonostante questa luci­da previsione, Gesù non prende la strada della fuga. Non cade in un vittimismo lamentoso e sprezzante, non si scaglia contro chi stava per tradirlo, contro i discepoli che stavano per abbandonarlo. Ma “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Giovanni 13,1). Quel semplice gesto dell’offrire ai commensali il pane e il vino come segni tangibili e traspa­renti del proprio corpo e del proprio sangue racconta senza possibilità di equivoco una offerta di sé, totale e irreversibile.

Così facendo, Gesù si espone coscientemente e liberamente alle sofferenze atroci e alle infamanti umiliazioni che dovrà subire. Le assume in anticipo e ne fa l’occasione di un amore senza misure, di un perdono senza riserve, di una dedizione senza condizioni. Abbandonato e vigliaccamente tradito, Gesù si dona “a fondo perduto” e si abbandona a persecutori e carnefici, in una consegna irreversibile, senza calcoli e senza rimpianti, senza tentennamenti e senza compromessi. Assume preventivamente l’elemento di rottura – il tradimento, il fallimento, la morte – per trasformarlo in adeguato strumento di alleanza. Le parole che pronuncia sulla coppa di vino rosso lo esprimono con chiarezza abbagliante: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. Ecco quanto ‘passa’ nel cuore di Gesù: il sangue infetto della cattiveria universale viene lavato e riossigenato dal suo amore smisurato, per essere poi restituito come sangue sano e risanante alle arterie del corpo dell’intera umanità, contaminata dalla pandemia dell’egoismo e del peccato. San Paolo esprime una sorpresa quasi incredula di fronte a tanto spreco di bontà: “Nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. (…) Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5,7-9). E nella Lettera agli Efesini ci viene spiegato come abbia fatto Cristo a riconciliare con Dio Padre degli esseri umani a lui spietatamente ostili: “ha distrutto in se stesso l’inimicizia” (2,14). Cioè, non ha distrutto i nemici fuori di sé, ha distrutto l’inimicizia dentro di sé, per accogliere e ospitare in sé i suoi irriducibili avversari. Eppure avrebbe po­tuto domandare al Padre più di dodici legioni di angeli per im­mobilizzare i suoi persecutori, ma non l’ha fatto, anzi ha invo­cato per loro il perdono. Ecco dunque cosa avviene nella santa cena: a una ostilità tanto incomprensibilmente arbitraria, Gesù reagisce con una ospitalità altrettanto incredibilmente gratuita.

Quando celebriamo l’eucaristia e riceviamo la santa comunione, accogliamo in noi lo stesso dinamismo di amore che Gesù ha manifestato nell’ultima cena. La comunione ci rende capaci di prendere occasione dalle ingiustizie e dalle offese, da tutto ciò che è contrario all’amore, per ottenere la vittoria dell’amore, in intima comunione con Cristo. Pertanto l’eucaristia diventa per noi scuola e laboratorio, palestra e noviziato dove veniamo formati e allenati a transitare dall’isolamento alla condivisione, dall’esclusione alla convivialità, dalla lontananza alla prossimità. In breve, l’eucaristia ci abilita a passare dall’ostilità all’ospitalità. Come non ricordare che Gesù ha aperto l’ultima cena con la lavanda dei piedi ai discepoli, ossia proprio con quel gesto che era considerato il primo da riserva­re all’ospite quando entrava in casa? Ma la conclusione che il Maestro ne tira è scioccante: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14).

Lavarci gli uni i piedi degli altri. La prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di coerenza, dobbia­mo esprimerla all’interno delle nostre comunità: “a cominciare dai fratelli nella fede” (Galati 6,10). Spendersi per i poveri, va bene. Lavare i piedi di quanti sono emarginati da tutti i banchetti della vita, va meglio. Ma prima ancora dei disabili, dei barboni, dei nomadi, dei profughi, di coloro che ordinariamen­te sono parcheggiati fuori del palazzo o all’ombra del tempio, vengono coloro che condividono con noi l’area e l’aria del ‘ce­nacolo’. La Chiesa non può portare ‘fuori’ l’eucaristia, nella città, se prima non la vive ‘dentro’ le sue pareti. Non c’è una eucaristia dentro, e una lavanda dei piedi fuori. Che cosa signi­fica allora quell’inequivocabile pronome di reciprocità: “gli uni gli altri”? Che, ad esempio, il vescovo difficilmente potrà essere portatore di un ‘primo annuncio’ del vangelo, se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri sacerdoti e a lasciarsi lavare i piedi da ognuno dei confratelli. Anzi, c’è di più o di peggio. È l’intera comunità cristiana che accusa deficit vistosi di credibilità se nel suo grembo serpeg­gia la divisione, dilaga il campanilismo, tracima la faziosità, ci si osteggia in tifoserie contrapposte, si sprofonda nel letargo dell’indifferenza reciproca, a tal punto che i piedi ognuno se li deve lavare per conto suo.

Anche le nostre comunità civili – quartieri, rioni, frazioni, paesi, città – hanno bisogno di passare senza tregua dall’ostilità all’ospitalità: non possiamo esimerci dall’imboccare lo svincolo che fa transitare ogni cittadino dall’io al noi. Le nostre città sono diventate più aride, frammentate e divise. La caduta della solidarietà, e spesso, troppo spesso, un egoismo brutale e vorace e un feroce antagonismo marcano ostentatamente la stagione in corso. Ci ritroviamo più vecchi e depressi, più soli, impauriti e aggressivi. L’ostilità, radicata in un cuore ribelle a Dio, è il cancro che produce metastasi negli affetti e nelle relazioni: aggredisce le famiglie, si insedia negli ambienti sociali e politici, si coagula in sistemi ingiusti e brutali. Il preoccupante sfilacciamento del vincolo civile trova la sua adeguata terapia solo nel rafforzamento del legame morale, pena l’inesorabile declino della società. Vogliamo individuare il termometro infallibile per misurare il grado di civiltà della nostra città? È la preferenza che si dà al bene comune rispetto agli interessi privati.

Ecco il “capitale sociale” rappresentato dall’eucaristia: costruire una città civile e abitabile, sulla base dei grandi valori della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità. In questo inizio di millennio si impone una seconda ricostruzione delle nostre città, dopo la prima, avvenuta a seguito della devastante distruzione dell’ultima guerra mondiale. Oggi è l’anima umana della città che deve rinascere. In questo risorgimento morale, i cristiani laici sono sorretti da una certezza incrollabile: che l’eucaristia non è fatta per mandarci in estasi, ma per metterci in crisi. Tra parentesi: perché l’atmosfera culturale dominante continua a giudicare il Cristianesimo come un placebo per spiriti deboli? Eppure l’eucaristia ci fa trovare il calice pieno del sangue di Cristo, non di camomilla. Allora come non andare in crisi quando vediamo accendersi, dentro e fuori di noi, violente forze negative, che si potrebbero chiamare letteralmente ‘anti­eucaristiche’ in quanto effettivamente anti-umane? Ne richiamiamo alcune, in triste, schematica elencazione: la ‘liquefazione’ della prossimità, che promette una libertà senza orizzonti e senza impegni, in cambio di una solitudine senza memorie e senza speranze; la “dittatura del relativismo” e la riacutiz­zazione di un laicismo surriscaldato, che fatica a riconoscere il dna cristiano di una sana, serena laicità; la demonizzazione del diverso e dell’avversario politico, quali nemici da abbattere; l’assuefazione al dolore altrui, che rende indifferenti di fronte a tragedie colossali, come il naufragio dei tantissimi profughi – tra i 20mila e i 30mila – ingoiati dal mare di Lampedusa; la paura del futuro e dello straniero, due virus micidiali che vanno quasi sempre in complotto…

Ma “noi che andiamo a messa” ci lasceremo guidare dalla stella polare del bene comune?

Dalla violenza alla benevolenza

Perché il sangue nell’eucaristia? Non grava su una presenza tanto drammatica un inquietante sospetto di crudeltà? Non si ritorna così a quella miscela esplosiva, data dall’ambigua commistione tra religione e violenza, tra sacro e sangue?

La risposta è appesa alla croce. Se teniamo fisso lo sguardo su Gesù, lo vediamo trionfare sulla violenza non tentando di contrastarla o di azzerarla con una violenza più grande, ma smascherandola e denunciandone tutta la scandalosa ingiu­stizia, mettendone a nudo la crudeltà orripilante, l’indecente malvagità. Mai la violenza mostra il suo repellente ghigno beffardo come quando si abbatte con raccapricciante ferocia su un innocente disarmato, qual è il martire. A differenza del kamikaze, che si uccide per uccidere, il martire si lascia uccidere per dare la vita, non per sopprimerla negli altri, perché “chi di spada ferisce, di spada perisce” (Matteo 26,53). Bisogna quindi onestamente riconoscere che mai la violenza viene irreparabilmente sconfitta come quando la vittima può vincere la prepotenza del carnefice con la forza disarmata e disarmante della non-violenza e con la gratuita, coraggiosa benevolenza del perdono. Infatti il Figlio in croce non invoca la vendetta da parte del Padre, ma lo supplica con grido accorato: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.

A questo punto, però, l’obiezione di tanta gente contro la croce si ritorce contro il Padre: come conciliare la sua misericordiosa bontà con la morte straziante del Figlio crocifisso? In che senso si può e si deve parlare di sacrificio offerto al Padre? Ancora una volta la risposta è appesa alla croce. La morte di Gesù non è sacrificale nel senso che esisterebbe un patto di sangue tra Gesù e il Padre suo, come se questi esigesse la morte del Figlio per vendicare la propria giustizia offesa e il Figlio si immolasse per soddisfare un padre incollerito e assetato di sangue. In realtà Gesù muore proprio per non sottomettersi alla violenza e per non farsi ricattare da essa.

E il Padre cosa fa? non vendica il sangue del Figlio incenerendo i suoi carnefici, ma perdonandoli. Ecco in che senso il Padre “si compiace” del sacrificio del Figlio: non nel senso pagano di una divinità ‘neroniana’ che si rallegra sadicamente del sangue di una povera creatura innocente, nel qual caso sarebbe piuttosto un padre… mostro! Dio non tratta Gesù da “capro espiatorio”, ma da agnello pasquale, il cui sangue non era certo destinato a ‘placare’ un dio adirato, ma a segnare i suoi eletti, e quindi a salvarli. Spiega san Bernardo: “Dio Padre non aveva sete del sangue del Figlio, ma della nostra salvezza”. Questo è piaciuto al Padre: non tanto la sofferenza di Gesù, quanto piuttosto il suo amore nel sopportare l’acerbo dolore della croce. Il Padre non si compiace di una violenza totalmente ingiustifi­cata, inflitta al Figlio, quanto invece della benevolenza, totalmente incondizionata, della sua risposta d’amore. Ecco in che senso il sacrificio del Figlio è gradito al Padre: in quanto non dice rinuncia da parte dell’uomo a favore di Dio, ma dice vita impegnata da parte di Dio a favore dell’uomo.

Oggi il problema della violenza ci assilla, ci spaventa, ci scandalizza. Noi cristiani reagiamo inorriditi nel vedere quanta violenza abbia imbrattato perfino i campi che dovevano esse­re oasi incontaminate di non-violenza, come lo sport, il gioco, l’arte, l’amore. Il mite papa Francesco ha alzato la voce contro tante forme di violenza che stanno insanguinando il mondo: “la tratta delle persone, la logica della carriera e del denaro, una corruzione tentacolare fino ai livelli più alti, un’evasione fiscale egoista, una vergognosa pedofilia, prostituzione, sfruttamenti, mafie, violenze contro donne e bambini, lavoro che rende schiavi, disoccupazione, capitalismo selvaggio, una politica che si preoccupa più delle banche che delle persone…”.

Ma “noi-che-andiamo-a-messa” ci limiteremo ad applaudire Francesco oppure diventeremo sul serio efficaci “costruttori di pace”?

Dall’ingratitudine alla gratuità

In una società così poco socievole, che sembra sempre più un arcipelago di tanti isolotti, angusti e tristi, quanti sono i nostri ‘io’ – tutti narcisisticamente occupati a fotografarsi ognuno con il proprio selfie – il manifesto che ci riproduce alla più alta definizione si potrebbe riassumere nello slogan: autonomia ingrata. È vero, amaramente vero: ai nostri giorni la lontananza interiore tra le persone sale in proporzione diretta alla loro vicinanza esteriore. La gratitudine, invece, è figlia legittima dello stupore e della sorpresa: uno stupore incontenibile, ‘coniugato’ – letteralmente, legato in coppia – con l’inimmaginabile sorpresa di trovarsi di fronte a un dono eccedente, immeritato, imprevedibile.

È la ‘lezione’ dell’eucaristia, che significa rendimento-di-grazie. Ricordiamo come la grande preghiera eucaristica co­minci con un sussulto di gratitudine: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo…”. Certo, noi poveri mortali ci rendiamo ben conto che i nostri inni di lode non possono ingrandire la già infinita grandezza di Dio. Il quale non ha affatto bisogno di un supplemento di lode, ma è per un dono del suo amore che ci chiama a rendergli grazie. Dio trova la sua gloria non nel riscuoterla da noi, ma nel liquidarci la sua, a interesse zero. Dio è un Padre che si esalta esaltando i suoi figli.

Così ha fatto Gesù: nella sera in cui veniva tradito, ha preso il pane e ha reso grazie, letteralmente: ha sciolto al Padre il suo più splendido canto di lode, perché in quella circostanza tremenda l’amore che il Padre gli infondeva permetteva al Figlio amato di trasformare un odio del tutto arbitrario in una abnegazione integralmente gratuita. In breve, con il dono dello Spirito d’amore Gesù ha trasformato un grande, sconfinato dolore in un amore infinitamente più grande.

Questo facciamo noi cristiani, quando celebriamo l’eucaristia. Senza dubbio, si possono vedere le cose e le persone in un modo superficiale: quando le si guarda unicamente per possederle o per goderne egoisticamente; quando la morbosa voglia di riuscire a dominarle diviene fonte di ansie sfibranti e di angosciosi affanni. L’eucaristia ci insegna a guardare tutte le creature con lo sguardo limpido di Gesù, ci guida a contemplarle con gli occhi purificati di Francesco d’Assisi, ci insegna e ci impegna a considerarle come parole divine nel cuore stesso delle cose: a vedere il sole, il vento e il fuoco come fratelli, e la luna, le stelle, l’acqua e perfino la morte come sorelle.

La gratitudine, a sua volta, genera la gratuità. Il ricevere, infatti, precede sempre il fare e l’accogliere anticipa il dare. Ma la gratuità non è riducibile alla semplice e pur benemerita filantropia. Mentre la filantropia trova la sua forza nella cosa donata, nella sua oggettiva entità, nel quantum regalato – tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – la gratuità invece genera reciprocità, mettendo chi riceve nelle condizioni concrete di ricambiare il dono. Mentre nel regalo ti do per ricevere – è la logica dello scambio dei regali – nel dono gratuito invece ti do perché tu possa a tua volta donare ai più poveri di me e di te. La filantropia, quello che fa, lo fa per gli altri; la carità lo fa con gli altri. La filantropia rischia di creare dipendenza; la carità provoca vicinanza. Perché il dono non umili l’altro, devo dargli non solo qualcosa di mio, ma qualcosa di me, e il dono è completo quando dono completamente me stesso.

Nell’eucaristia si verifica il massimo della gratitudine e il massimo della gratuità. Gesù non mi dona semplicemente la sua sapienza, la sua bontà, la sua forza, ma mi dona tutto se stesso, perfino la sua fragilità, inscritta nella sua carne. Si verifica così la perfetta coincidenza tra il dono e il donatore, e si realizza la piena, reciproca unità tra il donatore e ciascuno dei molti donatari.

Pensiamo al segno del pane, trasparente immagine di gratuità: la sua fragrante presenza nelle nostre case richiama l’aspirazione alla pace, rimanda il sapore della tenerezza che vorremmo sperimentare nella quotidianità. Spezzare il pane rivela gioia di condivisione, proclama l’interiore certezza che spinge a superare distanze e difficoltà nelle relazioni reciproche e nelle situazioni più faticose. Poterlo spezzare ogni giorno è speranza di esistere non dell’effimero, ma della vera sostanza, che rende interiormente libera e perennemente buona e bella la nostra esperienza di vita. Introdurre lo spirito dell’eu­caristia nella nostra esistenza vuol dire porre il mistero che contiene al centro del nostro essere e del nostro operare, come energia generante un modo di vivere che ne sia autentico riflesso. Il nostro pellegrinare quotidiano fra le cose assume, allora, una continuità di lode, celebrata in tutto ciò che siamo, facciamo, proviamo, anche nella sofferenza, nella contrarietà e nella contraddizione. Il primato del dono – anziché del piacere o del tornaconto – ispira e favorisce l’obbedienza all’indicativo­imperativo di Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10,8).

Ma “noi che andiamo a messa”, abbiamo gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù?

 

EDUCATI ALLA MISSIONE

I valori irrinunciabili dell’eucaristia

In questo decennio dedicato dai vescovi italiani all’impegno educativo e nell’anno dedicato dalla nostra diocesi alla preparazione della missione straordinaria che – ripeto – si svolgerà, a Dio piacendo, nel 2015-2016, vorrei condividere alcuni spunti sul potenziale pedagogico e formativo della liturgia eucaristica e sulla sua straripante forza missionaria.

Scorrendo la filiera dei vari momenti che strutturano la celebrazione della messa, possiamo evidenziare la risorsa educativa dell’eucaristia a questi sette grandi valori, assolutamente “imprescindibili”: accoglienza, dialogo, sacrificio, pace, comunione, servizio, missione. A quest’ultimo vorrei dedicare una attenzione particolare.

L’eucaristia educa all’accoglienza

Il primo segno della comunità cristiana, il più palpabile, il più eloquente – ma anche il più complesso e delicato, visto il rischio del formalismo – è l’assemblea di coloro che vengono a celebrare l’eucaristia. Per agevolare la concreta espressività di questo segno, una comunità matura mette in atto un caldo e invitante ‘servizio-accoglienza’, fuori dal tempio o anche sulla soglia, svolto da persone che hanno il dono di stabilire contatti, un servizio fatto di modi affabili, di gesti cordiali, di delicata attenzione nei confronti di persone anziane, di eventuali ospiti come i turisti, di mamme e papà con bambini, di persone diversamente abili. Anche il sacerdote può fruttuosamente dedicarsi a questo primo spontaneo accostamento. Il presidente, infatti, è ‘colui-che-raduna’. Si realizza così la raccomandazione di san Paolo: “Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo accolse voi per la gloria del Padre” (Romani 15,7). Ma poiché il peccato è causa di ogni divisione, i convenuti avvertono che la comunio­ne con Cristo è offuscata e compromessa dai loro tradimenti. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza della conversione e della riconciliazione che si esprimono nell’atto penitenziale. E il rapporto infranto si ricompone. Il distante diventa vicino e il vicino diventa prossimo.

L’eucaristia educa al dialogo

Segue la liturgia della Parola: Dio parla al suo popolo con la proclamazione delle sante Scritture e il popolo risponde con la professione di fede e con la preghiera universale. Il dialogo che si compie nel rito è poi chiamato a prolungarsi in tutta la vita. Sul dialogo papa Francesco ritorna spesso nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium. Ne richiamo alcuni passaggi più provocanti. “No alla guerra tra di noi!” (98). “Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!” (101). “L’unità è superiore al conflitto” (228). “No ad una pace negoziata, sì ad una diversità riconciliata” (230). “Mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, di divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?” (100). “Quando siamo noi che pretendiamo la diversità e ci rinchiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, provochiamo la divisione e, d’altra parte, quando siamo noi che vogliamo costruire l’unità con i nostri piani umani, finiamo per imporre l’uniformità” (131).

L’eucaristia educa al sacrificio

Il dinamismo della celebrazione, che muove dalla convoca­zione e raduna l’assemblea, si sviluppa nel dialogo e raggiunge il suo vertice nella liturgia eucaristica. Essa riproduce la cena, ma contiene la pasqua: Cristo stesso, nell’atto di donarsi per amore. Quella di Gesù infatti non è stata solo una pre-esistenza (la vita presso il Padre, prima dell’incarnazione), ma una vera pro-esistenza: una vita completamente donata e spesa per gli altri. Questo mistero tocca il suo apice nella pasqua e nel se­gno eucaristico che la attualizza. Partecipare ad essa non è un puro rito da ripetere, ma una donazione da vivere. Così noi partecipiamo al “sacrificio” di Cristo. Il giusto per eccellenza ha conosciuto l’abbandono, la tortura, una morte ignominiosa.

Ma di una vita che gli veniva violentemente strappata, Gesù ne ha fatto una vita liberamente donata. Nel pasto eucaristico ha voluto che questa realtà fosse riaffermata ogni giorno, in un mondo di violenza. Non si tratta di versare altro sangue; non è certo il caso di martoriare alcun corpo, né il proprio né quello di altri, ma di tendere con tutte le energie a fare della vita una “eucaristia”, un memoriale gratuito di quanto è stato donato, e che deve trasparire veracemente, con volontà generosa e con spirito di autentico servizio, nelle nostre parole e nei nostri gesti, perché tutta la nostra vita diventi un sacrificio di lode gradito a Dio.

L’eucaristia educa alla pace

I riti di comunione si aprono con la preghiera del Padre No­stro, comprendono l’abbraccio di pace e la frazione del pane: un pane spezzato e diviso, quando viene condiviso, fa l’unità in un solo corpo. Ma non è possibile la pace senza la promozione della giustizia. Non facciamoci illusioni: rischiamo di perpetua­re lo scandalo della Chiesa di Corinto: “quando siete a tavola, uno ha fame, l’altro è ubriaco” (1 Lettera ai Corinzi 11,21). Oggi lo scandalo è che sono cristiani, almeno di origine, quel 20% dell’umanità che tiene nelle sue mani l’80% delle risorse della terra. Che ne abbiamo fatto dell’eucaristia? Agli inizi della Chie­sa, i pagani restavano scossi vedendo come si amavano coloro che ricevevano il pane di vita: non certo in modo teorico o con patetiche effusioni di buoni sentimenti. Il mondo ha di nuovo bisogno della nostra testimonianza: che si tocchi con mano che l’eucaristia ci porta a vivere la giustizia e l’amore come le uniche vie di una pace vera.

L’eucaristia educa alla comunione

Nell’amore che si dona troviamo il principio di unità del mondo: il superamento di ogni egoismo, l’abbattimento di ogni separazione, l’azzeramento di ogni più dura contrapposizione. All’eucaristia finisce l’opera del Padre, che fin da principio vuole l’alleanza con tutta l’umanità: che si realizzi finalmente il regno di Dio! All’eucaristia finisce l’opera del Figlio, che vuole essere con noi per sempre, tutti i giorni, anche nei giorni del buio e della nebbia, anche nelle ore del dolore e del tormento, perfino nell’ora della nostra morte. A vivere – se si riesce a vivere! – in tutta pienezza l’eucaristia, si è già nel regno. Un santo così pregava: “Signore, quel giorno che raggiungessi una vera, perfetta comunione con te e con i miei fratelli, in tutta la sua comprensione e capacità di trasformazione, portami con te, perché sarei già nel tuo regno”. Ma quando uno può dire di avere “fatto” una perfetta comunione? All’eucaristia finisce l’opera dello Spirito Santo: “Poiché mangiamo lo stesso pane, noi formiamo lo stesso corpo”. Per questo nell’invocazione allo Spirito Santo dopo la consacrazione, preghiamo che “per la comunione al corpo di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. Il fine della storia è che tutto il genere umano si componga nell’amore, a cominciare dalla Chiesa che è il sacramento, la premessa e la promessa dell’unità di tutti figli di Dio che sono dispersi.

L’eucaristia educa al servizio

L’evangelista Giovanni non racconta l’istituzione dell’eu­caristia, ma ricorda quel gesto che ne esprime il cuore: la la­vanda dei piedi. Una dimenticanza polemica? Di fatto questo gesto svolge nella trama del quarto vangelo un ruolo analogo a quello dell’eucaristia nei sinottici. Il Gesù che depone le vesti e indossa il grembiule del servo è lo stesso Gesù che si spoglia della sua gloria e si “veste” delle apparenze del pane e del vino per abbracciare l’umano dolore e trasfigurarlo nell’amore più grande. Quello di Gesù è un gesto toccante e sconvolgente, che non finisce di commuovere e di provocare. Da una parte il Maestro viene, per dire così, “fotografato” in una istantanea di lucida e piena consapevolezza della sua origine, della sua dignità e del suo ritorno al Padre. D’altro canto, è proprio la sottolineatura della ineguagliabile dignità del Maestro a mette­re ancora più in risalto la novità insolita e sconcertante del suo gesto. La nostra vocazione è una chiamata all’amore. Ora, se l’amore senza servizio è una farsa, il servizio senza amore è una schiavitù, un vile, avvilente servilismo. Con il pane di Cri­sto, anche noi possiamo servire, come ha fatto lui. Come lui e per lui, anche noi possiamo amare. Possiamo amare servendo. Possiamo servire amando.

Il settimo grande valore eucaristico è la missione. Ritengo opportuno dedicarvi un’attenzione particolare.

L’eucaristia educa alla missione

La celebrazione si conclude con il congedo. Questo rito non è un banale avvertimento che tutto è finito: è piuttosto l’invito a iniziare un’altra celebrazione in cui è impegnata tutta la vita. È l’invio in missione, per portare a tutti la grande, bella notizia della morte e risurrezione di Cristo. La missione non è una cosa da fare, ma un modo di essere, lo stesso modo di essere di Cristo, il missionario del Padre. Tutta l’azione pastorale deve essere eucaristica: deve educare all’accoglienza, al dialogo, al sacrificio, alla comunione, alla pace, al servizio, alla missione.

Ed è proprio della missione che ora vorrei parlarvi. Lo faccio con un riferimento esplicito e insistente alla Evangelii Gaudium, rileggendola in modo trasversale e ricavandone questi dieci punti, che disegnano una sorta di mappa dell’evangelizzazione nel mondo attuale.

  1. Il messaggio da annunciare è il nucleo fondamentale del vangelo: “è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto” (35). Per formulare questo cuore del vangelo, papa Francesco cita Benedetto XVI: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva” (7).
  2. Il fine della missione è portare a tutti l’annuncio della salvezza che Dio ci offre come opera della sua misericordia (112). Per rispondere a tale chiamata, la Chiesa deve perseguire una “riforma in uscita missionaria”. Questa riforma spirituale e pastorale implica per la Chiesa anche una riforma strutturale, facendo in modo che “le sue strutture diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di ‘uscita’ e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia” (27).
  3. Il soggetto della missione è tutto il popolo di Dio (cap. III), e in esso: le parrocchie (28), comunità di base, movimenti e associazioni (29), ogni Chiesa particolare con il suo vescovo (30-31). Quindi tutti i discepoli di Cristo sono missionari di tutto il vangelo per tutti gli uomini (111-113).
  4. Lo stile dei missionari è contrassegnato dalla gioia (1; 6), dall’allegria (109), dall’ardore e dalla passione per Gesù Cristo e per il popolo (268), dall’amore per la gente (272), da dolcezza e rispetto (271), dal piacere spirituale di essere popolo (268), dalla condivisione della vita con tutti (269). In altre parole “una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno” (266). Occorre comunque ricordare che “la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione” (14).
  5. Il metodo dell’evangelizzazione è espresso in cinque verbi: prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare, festeggiare (24). Occorre che il vangelo venga annunciato con “fatti di vangelo”, ossia con la testimonianza di una vita credente e credibile (128), senza mai dimenticare “l’esplicita proclamazione che Gesù è il Signore” (110), secondo la limpida lezione del Concilio: “Non basta che il popolo cristiano svolga l’apostolato con l’esempio: esso è costituito ed è presente per annunciare il Cristo con la parola e con l’opera” (AG 15). Fondamentale resta il dialogo personale (128).
  6. Le tentazioni dei missionari sono molteplici: l’individualismo, una crisi d’identità, un calo del fervore (78), un relativismo pratico che consiste nell’agire come se Dio non esistesse (80), l’accidia pastorale (82), il pessimismo sterile (84), la mondanità spirituale (93-97), la guerra tra di noi (98-101).
  7. Le scelte irrinunciabili sono una serie di : alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo (87-92), alla forza missionaria (109), alla speranza (86), all’essere comunità (91), all’ideale dell’amore fraterno (101).
  8. Le sfide ineludibili sono rappresentate soprattutto dai poveri (197-201), i laici (102), in particolare le donne (103s) e i giovani (105ss).
  9. Gli ambiti della missione sono tre (14): l’ambito della pastorale ordinaria, che comprende sia i fedeli che frequentano regolarmente, sia i credenti che non partecipano frequentemente al culto. Il secondo ambito comprende le persone battezzate che però non vivono le esigenze del battesimo. Infine la missione si rivolge a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato.
  10. I mezzi per una evangelizzazione feconda ed efficace sono la grazia di Dio (12), la parola del Signore (22), l’appartenenza alla Chiesa (23), l’eucaristia (264), la preghiera (281ss), la pietà popolare (122ss) e in particolare la pietà mariana (284ss).

Preghiera a Maria
stella della nuova evangelizzazione

Maria, discepola del Signore,
ricordaci che non siamo annunciatori credibili del Vangelo,
se prima non ne siamo stati ascoltatori umili e disponibili.

Maria, madre della Verità fatta carne,
ottienici di non ridurre mai la fede a un ammasso di idee,
perché le idee non hanno bisogno di alcuna madre.

Maria, sostegno della nostra fede,
inquietaci quando dimentichiamo che credere in Gesù
non è privilegio da rivendicare, ma dono da condividere.

Maria, vergine orante nel cenacolo,
aiutaci ad essere sempre cordialmente uniti nell’essenziale,
ma capaci di convergere anche nell’opinabile.

Maria, madre della pace,
sostienici nel disarmare la vendetta con il perdono,
nel ribattere all’odio con l’amore,
perché la tenerezza sconfigga ogni bruta violenza.

Maria, donna vera,
soccorrici quando ci scordiamo noi per primi
o non ricordiamo più a sorelle e fratelli
che non c’è vita più umana di una vita pienamente cristiana.

Maria, aiuto dei cristiani,
dacci una mano per vincere il male con il bene,
per reagire alla paura con la fortezza,
alla tristezza con la perfetta letizia.

Maria, maestra spirituale,
concedici di non considerare nulla come tesoro più caro
dell’amore dolce e tenace del tuo Figlio Gesù,
morto e risorto per la nostra appagante felicità.

Amen.

Rimini, 27 luglio 2014, Domenica del Tesoro nel campo

 + Francesco Lambiasi

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