S. Gaudenzo 2011 – Discorso alle Autorità

                   Distinte Autorità, Illustri Signori, Gentili Signore!

Ancora una volta la festività del santo Patrono della nostra città ci offre la gradita, preziosa occasione per riflettere insieme su problemi e prospettive riguardanti aree di comune interesse, che non possono non vedere noi, titolari di cariche pubbliche – pur nei rispettivi ambiti e ai vari livelli di responsabilità – sensibili e interessati al bene delle persone, famiglie, gruppi e comunità, che siamo chiamati a servire.

Ma prima di entrare in argomento, permettetemi di condividere con voi un pensiero breve, ma ponderato sul valore non solo religioso, ma anche civile della festività patronale. Se è vero che ogni festa non assolve semplicemente una funzione pratica, per altro non trascurabile, come può essere il bisogno di riposo,  di svago o di scambio – si pensi per esempio a una vacanza o a una fiera – ma riveste un pregnante significato simbolico, allora è da ricordare l’alto valore identitario che assume una festa patronale. Mi spiego con un riferimento diretto al nostro patrono. Celebrare san Gaudenzo per noi riminesi significa riconoscere nel fondatore della nostra Chiesa locale non solo un modello di umanità compiuta, ma anche il portatore di un ideale di città a misura d’uomo, una comunità civile, tollerante, solidale, accogliente. Se teniamo presente che Gaudenzo proveniva da Efeso, quindi da un’area di lingua greca, che poi si è fatto cristiano e, dopo aver soggiornato a Roma, è approdato a Rimini, allora nella sua persona e nella sua storia noi vediamo come concentrato un mondo di simboli, di valori, di risorse, le cui radici affondano nei tre colli – il Partenone, il Gòlgota, il Campidoglio – su cui è costruita la nostra civiltà europea. Trasferire la ricorrenza di s. Gaudenzo, come di s. Ambrogio, di s. Petronio, di s. Apollinare, alla domenica seguente, equivale a scolorire quella festività, di fatto a trascurarla: a che pro? quanto effettivamente ci si guadagna? a chi giova oscurare la tradizione da cui veniamo, indebolire le radici della nostra cultura, frammentare il nucleo del patrimonio di un ethos condiviso?

Avrete certamente saputo che in occasione della festa del beato A. Marvelli ho consegnato ai giovani della Diocesi una lettera pastorale, di cui mi è gradito farvi omaggio al termine di questo incontro. Ho pensato di scrivere direttamente ai nostri giovani, perché me li vedo troppo spesso dipinti come disincantati, cinici, delusi, pragmatici, ma che, ogni volta che li incontro, li ritrovo sempre più puliti, più sani, più assetati di felicità, e anche più liberi e più veri di quanto i media e un certo cliché del mondo adulto vorrebbero far credere. Proprio ai nostri giovani riminesi vorrei dedicare la riflessione che in questa edizione della festa patronale, vengo a condividere con voi.

Innanzitutto vorrei dire quello che la nostra Chiesa sta facendo e intende fare con i nostri giovani e per i nostri giovani. La nostra ordinaria attività formativa risulta varia e molteplice, disegnata com’è su un tappeto di incontri di catechesi e attività di oratorio, di gruppi associativi e di volontariato, di campi-scuola, di strutture educative come le molte scuole paritarie di matrice cattolica con circa 1.500 iscritti, di centri di formazione quali l’ENAIP, convitti universitari, il Centro Universitario Diocesano (il C.U.D.), l’Istituto Superiore di Scienze Religiose, il PuntoGiovane di Riccione, senza dimenticare il consistente potenziale educativo rappresentato dal nostro Centro delle Comunicazioni Sociali con ilPonte, RadioIcaro, IcaroRiminiTV, e altro – molto altro – ancora. Inoltre nei mesi scorsi abbiamo dato vita a un convegno sulla sfida educativa – a cui diversi dei presenti hanno partecipato – per impostare il cammino di questo decennio, secondo le indicazioni dei Vescovi italiani.

Non facciamo fatica a riconoscere quanto un’attività così intensa ed estesa abbia un cospicuo valore sociale aggiunto, in quanto è mirata a formare non solo dei cristiani adulti e maturi, ma anche dei cittadini liberi e forti. Questa attività si può riassumere nell’immagine della Cattedrale, simbolo eloquente del molto che la Chiesa ha da ricevere dai giovani e del molto che ha da offrire loro. E’ importante che la Cattedrale sia e resti idealmente sempre aperta, perché la soglia di ingresso sia transitabile in senso bidirezionale, per dire ai giovani che sono dentro: “andate in Città” e a quelli che sono fuori: “entrate in Chiesa”. Per i giovani, entrare in Chiesa significa riconoscere che le domande del cuore umano e i problemi della convivenza civile hanno una ineliminabile dimensione spirituale e trascendente. L’uomo e Dio non sono in alternativa o in proporzione inversa, ma stanno insieme: se l’uomo perde Dio, perde se stesso; se ritrova se stesso, ritrova Dio. Nello stesso tempo, per i giovani della Città, entrare in Chiesa significa misurarsi con la statura di Cristo – l’uomo nuovo, il più umano che ci sia  – specchiarsi nella sua storia, aprirsi al suo mistero. Significa anche interrogare la Chiesa sul suo messaggio e sulla coerenza della sua testimonianza. Sì, interrogarla criticamente anche sulle sue manchevolezze e su certi comportamenti poco cristiani e poco umani, da parte di chi dovrebbe precedere tutti con l’esempio “perché non venga nascosto l’autentico volto di Dio” (cfr GS 19). D’altra parte, per i giovani “entrare in Città” significa riversarsi nelle strade, come dice il Vangelo, e chiamare ciechi, storpi, sordi, per invitare tutti al banchetto del Regno. Significa, fuor di metafora, vincere la paura che parlare di poveri, di disoccupati, di immigrati senza casa o senza lavoro, di drogati o di depressi, sia fare il verso al linguaggio di moda, prendere la tangente della denuncia demagogica, fare del sociologismo gratuito, tradire Cristo per l’uomo. Entrare nella Città significa piuttosto non chiudersi in sagrestia, ma battersi perché la Città sia più civitas, più civile e abitabile, perché l’uomo sia più uomo, perché i giovani siano più giovani, perché il mondo sia più “mondo”.

Ora permettetemi di riflettere con voi sul rapporto giovani e politica. In genere si dice: i giovani sono disaffezionati dalla politica. Domandiamoci: di chi è la colpa? Se “disaffezionati” è un verbo al passivo, chi è il soggetto attivo e responsabile di questa disaffezione?

La prima cosa da fare per restituire ai giovani i loro sogni e il loro futuro è bonificare la palude da questa malaria che ci sta ammorbando tutti. Infatti la crisi che sta mietendo vittime soprattutto tra i giovani, prima che finanziaria e politica, è una crisi morale. E’ vero: ad inquinare l’aria del cielo di Rimini sono anche le nubi tossiche che vengono dall’area nazionale e internazionale – con lo scandaloso degrado etico, quale si evince dall’andazzo di chi dovrebbe rendere credibile la politica e invece la rende sempre più nauseante per la gente onesta e operosa. Ma chi ci impedisce di attivare noi, qui a Rimini, delle iniziative che in senso metaforico potremmo chiamare “anti-smog”? Penso in concreto al superamento della logica dello scambio, della rendita, e dell’appartenenza. In altre parole, deve cessare quel logoro costume che misura il valore delle persone e delle iniziative sulla base di quanto “portano” in termini di consenso elettorale o sul fatto di essere legate a cordate di “amici”.

Inoltre si dovrà ampliare la funzione dei Comuni nella lotta all’evasione fiscale, che quindi dovrà coordinarsi con l’ agenzia delle entrate e la guardia di finanza al fine di individuare i redditi occultati. Come incentivo, nel recente decreto anticrisi, è previsto che la totalità delle somme recuperate a bilancio sia destinato ai Comuni, tenuto conto che tali introiti saranno considerati al di fuori del calcolo del patto di stabilità interno per gli enti locali. Questa strada ci pare debba essere percorsa con equilibrio e determinazione, non esitando, per paura di perdere consenso elettorale, a intervenire su gruppi e lobby che dell’evasione fiscale hanno fatto un’abitudine consolidata.

Si dovrà superare anche la subcultura della rendita per attivare il circuito virtuoso di una impresa non più imitativa ma innovativa: è, questo, uno dei modi per rivolgersi ai giovani della nostra città sollecitandone la creatività, l’impegno e l’intelligenza. Essere innovativi vuol dire infatti battere strade nuove, facendo crescere la società. E come non vedere nei giovani i principali attori di quella innovazione di cui sentiamo così fortemente il bisogno?

Tra le questioni che richiedono attenta e costante vigilanza, insieme ad energici provvedimenti preventivi e, laddove necessario, repressivi, è certamente l’ormai dimostrata presenza pluriennale nel nostro territorio di organizzazioni criminali di stampo mafioso. Le notizie di cronaca giudiziaria recentemente emerse ci dicono di questa inquietante presenza, che attenta al tessuto sano dell’economia locale precludendone un reale sviluppo e, cosa altrettanto grave, minacciando di avvelenare il cuore e la mente della nostra comunità con l’ideologia violenta del denaro e del potere fini a se stessi e del disprezzo assoluto per la vita umana. Ritenere che un tale fenomeno non possa realmente attecchire nel nostro territorio rischia di essere una pericolosa sottovalutazione delle capacità adattative della piovra e del potere di corruzione di cui questa dispone grazie alle ingenti risorse finanziarie di cui è proprietaria, e che risultano estremamente appetibili in tempi di crisi economica e morale.

In positivo, il tema “giovani e politica” implica, a mio avviso, due scelte irrinunciabili: fare politica con i giovani e fare politiche per i giovani. E’ urgente promuovere una politica con i giovani, senza slogan e al di là delle appartenenze partitiche. Papa Benedetto non si stanca di ripetere – l’ha fatto ancora domenica scorsa a Reggio Calabria – che l’Italia ha bisogno di  «una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte, ma il bene comune». Fare la politica con i giovani non significa buttare nel mezzo nomi nuovi, quando le idee e soprattutto i giochi e i sistemi di potere restano gli stessi. Non dimentichiamo mai che Rimini è ripartita dopo la guerra con politici come Alberto Marvelli, l’Italia con padri costituenti appena ventenni. Fare politica con i giovani non significa però cadere in giovanilismi facili e irresponsabili: i giovani sono sempre più svegli di quanto noi adulti pensiamo, e si rendono ben conto se dietro le nostre parole c’è una volontà reale di ascoltarli, di confrontarsi e mettersi davvero in gioco per le loro giuste esigenze, per le loro proposte e dunque per la loro vita. Coinvolgere i giovani nella politica significa valorizzarli e sostenerli nella vita quotidiana: perché – lo sappiamo – si fa politica dal basso, sul luogo di lavoro, nel modo di vivere la famiglia, le relazioni, l’accoglienza del povero e del diverso. In tutti questi ambiti, le idee e le esperienze dei giovani possono aiutarci. Quanti di loro, ad esempio, impegnati regolarmente nel volontariato, smentiscono l’idea di “bamboccioni” che se ne fanno certi adulti.

Ma i giovani oggi, come sempre, hanno bisogno di modelli. Mi mette tristezza sentire in bocca a ragazzi che manifestano in questo autunno caldo (non solo in senso meteorologico) – anche se per motivi giusti – slogan vecchi di decenni, ereditati da ideologie – dell’una come dell’altra parte politica – che non esistono più nel mondo reale, sconfitte dai fatti e dalla storia. Ancora, pensiamo a cosa è successo quando è morto Steve Jobs: le sue parole, le sue idee sono rimbalzate da una parte all’altra del pianeta, grazie anche ai giovani, che le hanno postate su Facebook o su Twitter. Non entro nel merito di questa figura, che ha sicuramente rivoluzionato il mondo della tecnologia negli ultimi 30 anni. Questi fenomeni, però, la dicono lunga su quanto i giovani sentano il bisogno di guide ideali e vicine. Figure che purtroppo mancano nel panorama politico e culturale del nostro Paese. O se ci sono, non hanno spazio.

Il mondo adulto nel suo insieme, quello della politica, dell’economia, dell’educazione e della società civile, deve avere il coraggio di proporre ai giovani mete alte, un ideale di vita buona, che ponga al centro il valore integrale della persona umana e l’impegno disinteressato per il bene comune. Questa proposta per essere credibile richiede però di essere, più che predicata, praticata con scelte personali e collettive serie e coerenti.

Vorrei ora passare ad un’altra considerazione. Snocciolare numeri è una pratica arida e può risultare sterile se non consideriamo i volti e le storie che ci sono dietro e danno “carne” a questi numeri. Però, è un fatto che negli ultimi tre anni è aumentato in modo esponenziale il numero di giovani riminesi emigrati all’estero in cerca di fortuna. Molti di loro hanno una laurea. Perché vanno via? Sicuramente perché qui non trovano il lavoro. Ma anche perché le loro idee non trovano spazio in questo territorio. Gli ultimi dati Istat parlano di un 10% di disoccupati tra i 25 e i 34 anni in provincia a fine 2010, percentuale che si è quasi raddoppiata in 6 anni. Una tendenza simile riguarda la fascia d’età più bassa (15-24 anni), anche se in quel caso la percentuale di disoccupati è più del doppio. D’altra parte, quest’anno la nostra università accoglierà il 20% di matricole in più rispetto all’anno passato. Questo significa che nonostante la crisi, i giovani continuano a sperare e a sognare il futuro. Alla nostra comunità spetta accogliere quelli che vengono da fuori. A questo proposito, è da accogliere con estremo favore il recente accordo tra università, comune e agenzia delle entrate contro gli affitti in nero agli studenti. Ed è nostro compito sforzarci perché sia il nostro territorio a offrire opportunità di lavoro per i nostri giovani. La prima fonte di ricchezza economica per Rimini è il turismo? Allora, attiviamoci perché in quel campo si aprano maggiori e nuove opportunità. Nel film “The social network” (sulla storia del fondatore di Facebook), il rettore di Harvard dice che «i migliori studenti di Harvard non sono quelli che quando escono di qui trovano lavoro, ma quelli che quando escono si inventano un lavoro». E allora, diamo vita a una concreta sinergia tra scuola e mondo del lavoro, tra università, amministrazioni e imprese, perché ci sia davvero spazio a Rimini per questa creatività. Ne consegue una partecipazione che, ben al di là della condivisione dei frutti del lavoro, dovrebbe comportare un’autentica dimensione comunitaria a livello di progetti, di iniziative e di responsabilità. I giovani devono pensare, ideare, osare. Gli adulti devono dare loro spazio e risorse per realizzarli. Apriamo a Rimini un laboratorio di idee, di progetti, di realizzazioni virtuose. Diamo credito, anche finanziario, alle loro proposte. «La bassa crescita dell’Italia negli ultimi anni è anche riflesso delle sempre più scarse opportunità offerte alle giovani generazioni di contribuire allo sviluppo economico e sociale con la loro capacità innovativa, la loro conoscenza, il loro entusiasmo», ha detto pochi giorni fa l’ormai ex-governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.

                  Non posso tralasciare qui un cenno alla questione università di Rimini. Inscritto nell’alveo fondamentale della conoscenza e della cultura, senza delle quali un popolo, una comunità civile, non hanno possibilità di crescita, il tema del Polo Scientifico Didattico di Rimini e delle sue prospettive di sviluppo rappresenta un punto di attenzione cruciale per la nostra città. La Diocesi stessa, cogliendone tutto il rilievo, ha negli anni stabilito, attraverso le proprie articolazioni, un positivo rapporto con la sede universitaria. Il radicamento sul territorio, il potenziamento della ricerca, l’auspicata presenza di qualificati dipartimenti, la proficua integrazione con il tessuto culturale locale, le esigenze di studenti e docenti costituiscono alcuni dei più importanti punti di lavoro su cui Rimini è chiamata a rispondere in maniera corale. Non si tratta di difendere un vessillo, ma di affermare – rendendone possibile la continuità e l’incremento – la presenza attiva e reale di uno strumento che definirei essenziale per la formazione dei giovani. Tutti sappiamo quanto complessi siano i problemi da affrontare e i percorsi da compiere; sono sicuro che un impegno convinto e comune potrà consentire di individuare soluzioni adeguate per una evoluzione positiva dell’insediamento universitario riminese.

Un’altra delicata e complessa questione che merita almeno un passaggio da parte mia, è la questione Carim. Nell’attuale situazione economica riminese non si può tacere il rilievo del rapporto tra mondo produttivo e mondo del credito. In tale contesto, la fase di temporanea difficoltà attraversata dal maggiore istituto bancario locale contribuisce ad acuire le preoccupazioni per le prospettive di sviluppo economico e finanziario della comunità e del territorio riminese. Come non auspicare, allora, che la Città e la Provincia – nelle loro componenti economiche, culturali, sociali ed istituzionali – sappiano mettere in comune tutte le loro migliori energie, in ausilio della Fondazione Cassa di Risparmio, per difendere e accompagnare fuori dalle criticità contingenti gli strumenti che, storicamente, si sono rivelati più utili per aiutare la crescita di famiglie, operatori, imprese del territorio riminese? È un metodo di mutualità che appartiene alla migliore tradizione di questa terra e che dobbiamo sempre più riscoprire ed alimentare per attraversare e superare le difficoltà di questa stagione.

Chi vi parla si rende conto di quanto pesino sulla possibilità di iniziativa e di promozione degli Enti locali i tagli nei fondi governativi, previsti dalla manovra finanziaria. Eppure siamo consapevoli che la difficoltà nel reperire risorse non può essere invocata come giustificazione per l’inazione e la mancata assunzione delle proprie responsabilità, né può giustificare il venire meno del dovere di un’amministrazione attenta al bene comune e capace di scelte coraggiose ed oneste. Proprio le situazioni di difficoltà possono, anzi, debbono diventare, l’occasione per superare sprechi ed inefficienze, puntare all’essenziale investendo su ciò che davvero conta, intraprendere con determinazione quella nuova e promettente via dell’amministrazione condivisa che vede nella sussidiarietà circolare (cioè la triangolazione tra enti pubblici, business community e organizzazioni della società civile sia per la co-progettazione sia per la co-produzione dei servizi di qualità sociale) una promettente e nuova pista di lavoro culturale e politico. Questo è importante non solo perché in periodi di crisi la flessibilità della società civile e la sua capacità di mobilitare risorse aggiuntive permettono di dare una risposta a bisogni che altrimenti rimarrebbero inevasi, ma soprattutto perché vediamo che solo una mobilitazione corale ed una comunitaria assunzione di responsabilità ci consentirà di superare le difficoltà e guardare al futuro con fiducia.

In tal senso, il recente Piano Strategico del Comune di Rimini rappresenta un esempio riuscito di forum deliberativo, al quale hanno attivamente partecipato e contribuito numerosi rappresentanti della società civile, delle aggregazioni laicali cattoliche e delle diverse associazioni di volontariato, nel tentativo di garantire con coerenza l’elaborazione di orientamenti e proposte, offrire un contributo specifico alla costruzione del bene comune, favorendo una cultura della riconciliazione e della solidarietà. Tale lavoro va continuato e salutiamo con favore il nuovo impulso dato al Piano in questi mesi, augurandoci che quanto prima si passi alla “fase 2”, quella delle decisioni concrete e attuative.

 

Noi adulti, spesso con nostalgia, disincanto, delusione e forse anche rassegnazione, diciamo che i giovani sono il futuro, Chiediamo loro di sognare anche per noi. Buttarsi, osare, puntare verso l’orizzonte per superarlo dovrebbe essere nel loro Dna. La realtà, però, sempre più spesso taglia le gambe a  questi sogni. Perché “col diploma non vai da nessuna parte”, si dice. “Perché dopo 13 anni di scuola, 5 di università, specializzazioni e abilitazioni, al massimo troverai chi è disponibile a farti fare uno stage gratuito, senza possibilità di assunzione”. Le gambe a questi sogni dobbiamo allora mettercele anche noi. Dare fiducia: incoraggiare, consigliare. Perché i giovani hanno bisogno di guide: a livello umano e professionale oltre che spirituale. Oggi c’è bisogno di coraggio, anche se molte scelte sono dominate dalla paura: paura di sbagliare, paura delle conseguenze, paura più in generale di un futuro incerto e poco roseo. Un cantautore molto amato dai giovani, Jovanotti, nell’ultimo singolo scrive: “Ho due chiavi per la stessa porta. Per aprire al coraggio e alla paura”.

Che nella nostra Città si chiuda la porta alla paura e si apra alla speranza e al coraggio!

Rimini, 14 ottobre 2011

+ Francesco Lambiasi