Quando la fede è vera

La casa costruita sulla roccia e quella sulla sabbia

Incoerenza e ipocrisia sono più che due disturbi passeggeri per una fede di sana e robusta costituzione: ne costituiscono piuttosto le due patologie mortali. L’incoerenza è “dire” di credere, ma non “fare” di conseguenza. L’ipocrisia è fingere di credere, ma poi è fare esattamente il contrario. L’incoerente non è necessariamente un malvagio: è un debole che vorrebbe seguire la strada dell’ideale, ma la trova troppo ripida per le sue gambe. Può essere anche un sentimentale, che ha aderito alla fede sull’onda dell’entusiasmo, ma poi si ritrova a dover fare i conti con le seduzioni degli idoli lungo il cammino, con le preoccupazioni della vita, o con le tante difficoltà che si frappongono sempre tra il dire e il fare. L’ipocrita è, come dice l’etimologia, un “attore”: riduce la fede ad una maschera e la religione a spettacolo, e fa questo non necessariamente per ingannare gli altri; più spesso si comporta così per il malsano gusto di apparire e di mettersi in vetrina. La fede comincia quando si comincia a guarire da queste due brutte malattie, che sono ad alto rischio per la sua sopravvivenza.

1. Quella di Gesù è una lezione in due tempi. Nel primo, il Signore dice che si possono compiere opere religiose – come fare profezie stupefacenti, celebrare liturgie fastose, operare prodigi strabilianti – e non avere il cuore “a posto”. Praticamente invocare continuamente Dio e camminare in direzione opposta alla sua legge. Agire nel nome del Signore, ma non fare la sua volontà. Frequentare il tempio di Dio e non amare i suoi figli. Addirittura sbraitare per difendere i suoi interessi  – vedi i farisei – e sbracciarsi per amore della sua legge, ma non osservare la sua legge dell’amore. La sentenza di Gesù è senza appello: nel giorno del giudizio ognuno mieterà ciò che ha seminato: chi non ha compiuto la volontà del Padre, in pratica chi non avrà osservato la legge dell’amore sarà bollato come “operatore di iniquità” e dovrà sentirsi rivolte le parole più dure di Cristo in tutto il vangelo: “Non vi ho mai conosciuti!”.

La seconda lezione è più che un semplice ripasso della prima: è una sua illustrazione coinvolgente e provocante, attraverso la parabola delle due case. Ci sono due modi possibili di accettare la parola del Signore, come ci sono due modi per costruire una casa. Il primo costruttore della parabola edifica la casa sulla roccia: ne risulta una costruzione solida, resistente all’urto di piogge torrenziali e di venti impetuosi. Il secondo invece costruisce su un terreno friabile: la casa non potrà resistere alla forza di calamità naturali e inesorabilmente crollerà. A questi costruttori il brano evangelico paragona due diverse tipologie di discepoli: c’è chi ascolta le parole del Signore e le mette in pratica; c’è chi ascolta, ma non fa.

2. La vera fede – ci dice il Signore – non coincide con l’illusione religiosa, non può ridursi a grandi paroloni e neanche ai brividi emotivi, effimeri e instabili, di chi invoca: Signore, Signore! Credere non è semplicemente dire preghiere e neppure solo ascoltare le sante Scritture. Credere, secondo Gesù, è fare: “fare la volontà del Padre”. Nella parabola evangelica delle due case il contrasto non è tra chi ascolta e chi non ascolta, ma tra chi ascolta e mette in pratica e chi ascolta e non mette in pratica.

La breve parabola mette in contrasto due figure: il discepolo saggio e il discepolo sciocco. Ciò che fa la differenza non è l’ascolto, ma la pratica. Si tratta quindi di due figure interne alla comunità cristiana: se così non fosse, allora si sarebbe potuto concludere che la casa sulla sabbia è il mondo e quella costruita sulla roccia è la comunità cristiana.

Ma non è così. E’ dentro la stessa comunità cristiana che ci sta chi si accontenta o addirittura si vanta di aver ascoltato la parola di Dio, di avere ormai imparato tutto della religione: ma questo è il sintomo sicuro di una degenerazione preoccupante della fede. Un cristiano – e perché no? una comunità cristiana – che si limita al semplice ascolto, è in fin di vita. Il motivo è presto detto: la fede non è un argomento da trattare come in un talk-show; è un’esperienza di sequela, e dunque è una questione di amore. E la Chiesa non è un’accademia di sapienti né un palcoscenico per commedianti. Dunque non è possibile il compromesso: o ci si decide a “mettere in pratica” la parola del Signore o si comincia a giocare al rimando e al ribasso, e prima o poi tutto inesorabilmente crollerà.

Ma cosa vuol dire “mettere in pratica”? In realtà l’evangelista usa anche qui il verbo fare, come l’ha già usato più su nell’espressione “fare la volontà del Padre”. Cosa significa allora “fare” la parola del Signore? Questo verbo molto caro a Matteo (5,19.46; 7,12.24; 12,33) non indica pratiche esteriori o sentimenti intimi, ma azioni che impegnano tutta la persona: cuore, mente, mani.

Come si vede, la parabola è molto più che una semplice e innocua presentazione del vero identikit del discepolo. Al contrario essa esercita una energica provocazione sugli ascoltatori. Dopo aver ascoltato il discorso della montagna non si può più far finta di niente: non si sfugge alla morsa del confronto con l’uno o l’altro costruttore. Occorre specchiarsi in questi due modelli e prendere coscienza di ciò che effettivamente si è: solo uditori della Parola o anche umili e fedeli “facitori”? Ogni cristiano, ogni comunità cristiana è provocata a uscire dalle sue illusioni.

Il modello più alto di questo “fare la volontà o le parole del Signore” è Maria che, all’annuncio dell’angelo, si è arresa con tutto il suo io, umano e femminile, alla parola del Signore. A lei chiediamo la docilità per ascoltare la parola di Dio e la piena disponibilità ad osservarla, perché anche di noi avvenga secondo la sua parola e anche nella nostra vita la Parola si faccia carne.

24 gennaio 2008, San Francesco di Sales