Giovani e gioia, secondo s. Paolo

Basilica Cattedrale, Intervento conclusivo al termine dell’anno paolino, 28 giugno 2009

Al termine di questo anno paolino, mentre rinnoviamo vivissima gratitudine al S. Padre per la preziosa opportunità offertaci, mi è caro formulare qualche breve pensiero sul tema: “giovani e gioia, secondo s. Paolo”. Vorrei dedicare questa breve riflessione in particolare ai nostri giovani, che in questi giorni stanno sostenendo gli esami di maturità.

Parto da una constatazione amara: quanto è triste vedere dei giovani… tristi. La rabbia, la depressione, la non-voglia di vivere sono sempre cose brutte, ma quando le leggo sul volto pulito di tanti bravi ragazzi, ancora di più mi stringono il cuore. Tante volte debbo soffocare un grido in gola: “Mondo cinico e perfido, che uccidi così la gioia di vivere di questi giovani! Li adeschi con promesse effimere e miraggi luccicanti, e poi li lasci sprofondare nella frustrazione più buia e desolante”. Certo, in questo contesto non possiamo non condividere il dolore più volte espresso dal S. Padre per gli scandali gravemente diseducativi, causati da alcuni ministri della Chiesa. E che dire quando si legge di responsabili della cosa pubblica, che pure rivendicano il marchio di “cattolici doc”, addirittura vantare comportamenti, che non corrispondono certo all’ideale e allo stile richiamato qualche giorno fa da un nutrito gruppo di parlamentari cattolici, appartenenti a diversi schieramenti: “Il Paese ci chiede di dare un esempio morale credibile, vivendo in prima persona i valori in cui crediamo”.

In un libro recente sui giovani e sul loro male di vivere, viene presentata una diagnosi impietosa: l’origine del malessere giovanile non sarebbe psicologica, ma culturale. “Perciò inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini”. Qual è allora la terapia proposta dall’autore? Sarebbe il ritorno al paganesimo e alla sua arte di vivere, che consiste “nel riconoscere le proprie capacità e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura”.

Questa “ricetta” fa pensare: non è forse una proposta narcisista di autosalvezza, come veniva presentata dall’epicureismo? e non è stato proprio il paganesimo a mostrarsi generalmente scettico sulla verità del messaggio di Epicuro? E’ quanto risulta dal diffuso sentire popolare, quale è testimoniato, per esempio, dall’epitaffio di un sarcofago romano di età imperiale, in cui è lo stesso defunto che parla e dice: “Finalmente sono evaso (dal carcere della vita) e me ne sono fuggito. Speranza e fortuna, vi saluto. Non ho più nulla da fare con voi. Prendete in giro qualche altro”.

Ma cosa avrebbe da dire al riguardo Saulo di Tarso, lui che aveva di fronte un mondo, quello greco-romano, impregnato di epicureismo fino al midollo? In quella sorta di “quinto vangelo” qual è la Lettera ai Romani, il verdetto stilato dall’apostolo si presenta documentato e inoppugnabile: sia il mondo pagano come quello giudaico appaiono come mondi malati e tristi, ambedue segnati da “tribolazione e angoscia” (Rm 2,9).

In positivo, il vocabolario della felicità e della gioia è largamente presente in s. Paolo. Nel Dizionario di Paolo e delle sue Lettere, edito dalla San Paolo, si documenta come “su 326 casi in cui ricorre la terminologia della gioia, 131 si trovano in Paolo, ossia il quaranta per cento”.

Senza forzature san Paolo può essere considerato il teologo della gioia, così come è indubbiamente il teologo della grazia. Ecco la password per accedere al sito segreto della felicità: grazia. Secondo Paolo, il cristiano è una persona che è “in Cristo”. Essere cristiani significa essere personalmente uniti al Cristo risorto; significa pensare con la sua mente, amare e pregare con il suo cuore, lavorare con le sue mani e camminare con i suoi piedi. E questo “non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia” (Rm 9,16: è la terza citazione biblica che ricorre nelle primissime righe della Storia di un’anima, di s. Teresa di Lisieux!).

Ecco la grazia: è l’essere amati personalmente, gratuitamente, irrevocabilmente da Dio Padre che ci ha donato tutto il suo amore, fino alla follia della croce, e risuscitando il Figlio ci ha fatto dono del suo Spirito.

“Tutto è grazia”, scriveva il curato di campagna, di G. Bernanos, ma in queste tre parolette c’è tutto s. Paolo e il suo “vangelo della felicità”. Se il Padre è “per noi, chi sarà contro di noi?”. Se “ha dato il Figlio per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” E “se lo Spirito di Cristo abita in noi”, allora “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura”.

Queste citazioni si ritrovano pari pari nel capitolo 8 della Lettera ai Romani. Ad esse si potrebbe agganciare una litania interminabile di espressioni e testimonianze dei campioni della grazia (e perciò) della gioia, come i santi. Mi limito al nostro Alberto Marvelli: “La giovinezza e la gioia sono compagne inseparabili, e Cristo è l’autore e il donatore di tutt’e due”. San Paolo avrebbe sottoscritto ad occhi chiusi.

Che l’Apostolo delle genti continui a pungolarci con la spina del suo vangelo.

+ FRANCESCO LAMBIASI