Omelia del Vescovo in occasione della rinnovazione dei voti delle Maestre Pie

Sulle orme dell’Addolorata

Una sosta contemplativa ci viene regalata dalla liturgia di oggi. Dopo la lettura di questo brano (Gv.19,25-27) che ci porta al momento più intenso, più sofferto, al vertice della passione di Gesù sulla croce siamo chiamati a contemplare. Contemplare significa guardare con gli occhi del cuore, ricordando il segreto della volpe del “Piccolo Principe”: “Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Siamo chiamati a contemplare, quindi a comprendere, capire, intercettare il messaggio profondo che queste poche righe ci consegnano. Anche qui siamo chiamati a fare una sorta di restauro dell’immagine di Gesù in croce. L’iconografia bizantina non raffigura mai Gesù solo sulla croce, ma sempre con Maria da un lato e con il discepolo amato dall’altro.

Facciamo mente locale. Ricordiamo che la croce non era un palo verticale, che incrociato a quello orizzontale, sporgeva tanto da terra. Per i crocifissi il palo verticale sporgeva di poco da terra per cui il condannato, con la punta delle dita dei piedi poteva toccare, la terra, quindi non dobbiamo immaginare Maria ai piedi di Gesù, come per secoli e secoli è stata immaginata e tanti l’hanno riprodotta accoccolata proprio ai piedi della croce. No, Maria, come ci dice Giovanni l’evangelista, stava presso la croce. “Stava” significa che stava ritta, in piedi. Era affranta dal dolore ma non era come schiacciata sotto un peso insostenibile. Maria stava presso la croce, il che significa allora che Maria e Gesù si potevano guardare a altezza di occhi. Maria quindi poteva leggere negli occhi del Figlio l’immenso, sconfinato dolore che l’opprimeva, ma poteva vedere soprattutto il grande amore che gli bruciava in cuore. Nel momento in cui Gesù subiva una pena totalmente ingiustificata Gesù ne faceva  occasione per una dedizione d’amore totalmente incondizionata.

Pertanto Maria si è lasciata percuotere dal grido forsennato che per sfida e per scherno veniva rivolto al Figlio crocifisso dai soldati, dai crocifissi a fianco uno a destra e l’altro a sinistra che veniva rivolto dalla folla che passava e dai capi del popolo: “Scendi dalla croce!” Maria avrà fatto suo questo grido,  non per sfida o per scherno, ma forse nel suo cuore avrà pensato: “Figlio mio, tu che hai risuscitato i morti, adesso, scendi dalla croce”.  Ma Maria si deve arrendere perché il Figlio non scende dalla croce. Deve fare suoi i sentimenti del Figlio. “Abbiate in voi, esorta Paolo ai cristiani di Filippi (12,6) gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. E lo Stabat Mater, nella sequenza che abbiamo ascoltato poco fa diceva “Crucifixo condolere”, un verbo che in italiano non abbiamo come in latino. “Condolere” significa dolersi insieme, insieme al Figlio, e abbiamo ascoltato cosa ha significato per Maria, per Gesù quella passione di Cristo che “nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo da morte e per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito”(Eb 5,7). La precedente traduzione intendeva così; “per la sua pietà”. Ma cos’è questa “pietà”? E’ il pieno abbandono di Gesù al Padre. Gesù si sente abbandonato, viene affettivamente abbandonato anche dal Padre perché lui si carica di tutto il dolore del mondo, i peccati dell’umanità e nel momento in cui si sente abbandonato, lui si abbandona.

Pertanto dobbiamo comprendere Maria che a sua volta comprende il Figlio. Ma per fare un altro passo, per approfondire questo mistero della compassione di Maria, possiamo fare un confronto con Abramo. Anche Abramo subisce una tentazione tremenda sul monte Moira. Poteva rinfacciare a Dio la sua promessa: “Ma tu mi hai promesso una discendenza numerosa, mi hai fatto sospirare questo figlio e dopo che me lo hai dato  ora te lo riprendi? Tu Dio ti smentisci allora, allora mi hai deluso, allora mi hai ingannato”. La tentazione di Abramo, è la prova della fede. Ma poi ad Abramo è stata risparmiata la conclusione. No Abramo, non me lo riprendo, tuo Figlio guarda c’è qui questo ariete, offri lui in olocausto, ma tuo figlio riprendilo”. A Maria invece Dio chiede di andare fino in fondo a quel tunnel buio e gelido che lei deve attraversare per intero come lo attraversa il figlio senza fermarsi sulla soglia della morte di Gesù. Forse Maria in quel momento avrà riascoltato la promessa dell’angelo: “Sarai madre, del Figlio di Dio che prenderà il trono di Davide suo padre e il suo regno non avrà mai fine”. Altro ché non avrà fine! Se muore lui allora dove andiamo a finire? Sappiamo che voi avete collaborato molto per l’introduzione qui a Rimini dell’Ora della Madre. Ricorderete le tentazioni di Maria che. Lei è andata avanti sulla strada della fede. Maria e qui viene presentata dall’evangelista Giovanni come la perfetta credente. Lei, diceva S. Leone Magno, ha concepito il suo Figlio nel suo cuore, nel suo grembo, è più grande per averlo accettato, concepito, generato nella fede che nel corpo. E poi c’è il Figlio, comprendere significa condividerlo, mettersi dalla sua parte  perché Maria viene assimilata al Figlio, sono due persone unite  dallo stesso dolore, di più, dallo stesso amore. Maria capisce che il dolore è un po’ come la scorza di questo sacrificio di Gesù. Noi diciamo croce e pensiamo dolore, noi scriviamo dolore, ma dobbiamo pensare all’amore. Ecco il secondo passo di Maria. E il terzo, quello che supera i passi precedenti è quando Maria arriva a condividere il proprio Figlio. E’ accettare di mettersi a servizio dei figli, dei fratelli. E’ quel sentimento di partecipazione al dolore del Figlio rende Maria capace di  condividere i sentimenti di dolore, dei fratelli del Figlio: “Donna, ecco tuo Figlio”.  I Padri della Chiesa hanno interpretato bene questo passo quando dicevano che Giovanni rappresenta tutti noi. Maria deve accettare quel Giovanni che rappresenta anche i crocifissori del Figlio pertanto Maria si lascia espropriare dell’unico bene che le è rimasto: quel Figlio, perché quel Figlio si lascia espropriare della propria vita.

Ora vengo a voi, care sorelle. Penso che davvero sia bella questa data per dare continuazione alla vostra promessa, dei vostri voti.  Allora ho chiesto di poter accendere ad alcune scintille del fuoco che ha acceso la vostra Fondatrice, la Beata Elisabetta Renzi. Tutti, chi per un verso, chi per un altro sentiamo il peso delle nostre croci e tutti abbiamo il bisogno di cercare il conforto in Cruce Domini nostri Jesu Christi, nella croce del nostro Signore Gesù Cristo, nel quale solo c’è salvezza, vita e risurrezione nostra. Dobbiamo sempre ricordare che Gesù non ci ha salvato tanto per il dolore che ha sofferto, il Padre non ha condannato il figlio a morte, non lo ha mandato a patire e a morire. Lo ha mandato a salvarci. Ma se il Figlio sceglie la strada dell’amore, la strada della non violenza, la del perdono, di fronte all’odio, alla vendetta, è chiaro poi che va incontro alla morte, come è avvenuto per tanti martiri, anche per tanti martiri nostri contemporanei come quella suora che è stata uccisa in Mozambico. Ecco nella Beata Elisabetta c’è questa luce della risurrezione che illumina la croce.

Aggiunge Madre Elisabetta: “Certamente dovremo ancora molto e sempre patire, ma senza il venerdì santo non vi è giorno di Pasqua”. E mi colpisce anche quel brano in cui la Beata Elisabetta parla della perfetta letizia, in termini originali. Rallegratevi, rallegriamoci! “Senza il crucifigge, – sempre la Beata Elisabetta – non vi è l’alleluia. L’alleluia sta di casa al di là del calvario”. Noi siamo i credenti della Pasqua, Pasqua non è solo morte di Gesù ma è soprattutto la risurrezione. Questo allora ci fa profeti di speranza.

E’ vero che i giorni nostri sono difficili. In una lettera agli studenti ho parlato di giorni, di anni, di tempi sfidanti. Dobbiamo accogliere noi insegnanti questa sfida. Noi siamo i profeti della speranza. Voi dovete essere profetesse della speranza.

Ecco questa luce di risurrezione illumina anche quelle ore buie che ci possono stare nella nostra vita. Voi avete fatto questa professione più o meno tanti anni fa e avrete già affrontato il dolore, e forse  vi sembra che Dio abbia smentito le sue promesse. Vi ha fatto la promessa di fecondità e forse siete state chiamate a qualche svolta nel vostro cammino di fede, a sentire il morso del dolore quando vi è stato chiesto di rinunciare anche al bene che avete operato, magari in quella casa, in quel posto di responsabilità. Vi è stato chiesto di lasciarvi espropriare da quei beni, da quelle consolazioni, da quei segni di stima, di affetto delle persone perché quel trasferimento vi è costato tanto. Ecco allora il Venerdì Santo! Ma a distanza, di tempo penso che voi abbiate potuto sperimentare la luce che non si spegne mai, non si deve mai spegnere la luce della fede.

Maria è la perfetta credente. Voi rinnovate i vostri voti di povertà, castità e obbedienza ma perché ci credete. Prima della povertà, castità e obbedienza, vengono le grandi virtù del cristiano, la fede, la speranza e la carità. La fede che viene ripetuta dal Concilio è l’atteggiamento col quale la persona umana si consegna, si abbandona a Dio totalmente e liberamente. Mi permetto di dire che forse ci andava aggiunto innanzitutto un terzo avverbio oltre a “totalmente, liberamente” anche “lietamente”. Anche se ci si limitasse solo a questo calcolo, ovviamente da fare non solo con la voce della gola ma con la vita, penso che la vostra vita davvero non sarà, non sarebbe inutile ma sarebbe davvero consolante per voi e per gli altri e sarebbe feconda. “La sterile ha partorito sette volte, e la ricca di figli è sfiorita”, recita un salmo.

Io vi auguro, sorelle carissime questa fecondità. Che la vostra sia una consegna, questa sera, totale, libera e lieta.

Rimini, Chiesa delle Maestre Pie  15 settembre 2022

+ Francesco Lambiasi

 

15/09/2022