Omelia per l’ordinazione presbiterale di Marco Evangelisti

Sette ragioni per essere preti felici

Quel giorno Gesù la sparò proprio grossa: “Se aveste almeno una fede piccola come un granello di senape, voi potreste dire a questo albero di gelso: Togliti via da questo terreno e vai a piantarti nel mare! Ebbene, se aveste fede, quell’albero farebbe come avete detto voi” (Lc 17,5). Ma l’evangelista Luca non me ne voglia, se io preferisco la versione dei suoi colleghi, gli evangelisti Matteo e Marco, secondo i quali, Gesù l’avrebbe sparata ancora più grossa: una fede, per quanto piccola, può spostare non solo un gelso o un sicomoro, ma addirittura le montagne (Mt 21,21; Mc 11,22). Di qui il detto popolare: “La fede sposta le montagne”. Ma non me ne voglia neanche Maometto, il quale, vedendo che non riusciva a smuovere la montagna, decise di muoversi lui verso di essa. Secondo Gesù, invece, sono proprio le montagne a doversi smuovere: basta un briciolo di fede.

1. Il cristianesimo annuncia la felicità. Il vangelo di Gesù inizia con un grido di gioia: viene il regno di Dio! e beato è chi l’accoglie! Ma anche il vangelo su Gesù si riassume in un esuberante grido di gioia: è risorto! Ma oggi il messaggio cristiano è ancora in grado di mantenere questa promessa di felicità? Non ci tocca spostare le montagne di patologie che appartengono alla dolente litania dell’edonismo, dell’utilitarismo, del pessimismo. Forse i virus da cui dobbiamo proteggere la nostra gioia hanno nomi meno volgari, ma non per questo meno tristi: narcisismo, perfezionismo, vittimismo, che fanno sempre rima con il nemico ‘numero 1’ della gioia: l’egoismo.
Ora, se è vero che la formula o ‘simbolo’ del Credo si può prendere come il manifesto della felicità, basta ripercorrere la professione di fede del credo per ricavarne almeno cinque ragioni (!) più due – per vedere come un prete vi può ritrovare l’indice dei sette capitoli della perfetta letizia.

Prima ragione: Io credo in Dio Padre.
Noi crediamo nel Dio-Amore, in un Dio che è Padre e che ci ha creati per amore, non per il proprio tornaconto, non per “farsi gli affari suoi”, ma per farci felici. Perché Padre, non è un vecchio monarca, relegato in una gelida estraneità. E neppure il grande orologiaio dell’universo, senza sogni né passioni, con un computer al posto del cuore. Ognuno di noi può dire: ci sono, perché sono stato pensato, voluto, amato, chiamato per nome. Per il fatto stesso che vivo e sono stato chiamato a dare una mano, anzi due (!), a suo Figlio per salvare il mondo, è segno che è bello che io viva e che sia pastore del suo popolo. E questo Padre che “in una notte nera, su una pietra nera, vede una formica nera e la ama”… Questo Padre, che si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, che conta perfino i capelli del mio capo, si dimenticherà forse di me, portavoce di suo Figlio? Questo Dio Creatore, che fa funzionare stelle e galassie, non farà funzionare anche la mia vita di prete? Se crediamo in un Dio Padre onnipotente e misericordioso, che può fare infinitamente di più di quanto io o te possiamo augurarci per la nostra felicità, allora ascoltami: Beato te, caro Marco se, per grazia di Dio, non cederai mai alla paura di abbandonarti al suo amore.

Seconda ragione: Io credo in Gesù Cristo.
Noi crediamo in Gesù Cristo, che è morto per noi: per “noi”. Ma non in senso cumulativo – “tutti e… nessuno (!)” – bensì distributivo: per tutti e per ciascuno. Poiché l’amore è personale o non è, ognuno di noi può dire con s. Paolo: “(Gesù) mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Se “a tutti i figli d’Eva /nel suo dolor pensò” (Manzoni), possiamo affermare che dall’alto della croce, il mio Redentore mi ha guardato e si è offerto per la mia salvezza, cioè per la mia felicità. Ed è risorto: per trasformare ogni possibile atomo del mio possibile dolore in un atomo d’amore; per cambiare la fine della mia vita in una vita senza più fine. Perciò noi crediamo che non esiste male per quanto grave e insopportabile, non esiste situazione per quanto pesante e negativa che non possa essere riscattata dal bene di una gioia infinitamente più grande. Beato te, caro don Marco, se non dimenticherai mai che”tutto concorre al bene per quelli che sono stati chiamati (…) ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” il bel Pastore (cf Rm 8,28-29).

Terza ragione: Io credo nello Spirito Santo.
Noi crediamo nello Spirito Santo, il tenerissimo e fortissimo Consolatore, che ci consola in ogni nostra tribolazione, e anche quando non ci salva dal dolore, ci salva però sempre nel dolore. Anche quando non strappa il dolore da noi, strappa però sempre noi dal dolore. E’ lo Spirito di Gesù, che non ci fa mai sentire né schiavi né stranieri né orfani, ma ci fa provare la gioia stessa di Gesù il quale “esultava di gioia per virtù dello Spirito santo” (cf Lc 10,21) e come lui ci fa gridare di gioia: “Abbà, Padre!”. Beato te, caro d. Marco, perché il Paraclito, con l’ordinazione sacerdotale, ci associa “in cooperativa” alla sua opera di diffusa, efficace consolazione. Perciò, beato te, se ti lascerai sempre consolare dallo Spirito del Risorto, e con lui diventerai “con-consolatore” di tanta povera gente, che rischia di naufragare nell’oceano del dolore.

Quarta ragione: Io credo la Chiesa.
Noi crediamo la Chiesa, perché in essa si realizza il miracolo della Pentecoste: il miracolo di vivere con un cuore solo e un’anima sola. Con una carità che non è invidiosa, non tiene conto del male ricevuto, si compiace della verità, tutto crede e tutto sopporta. Nella Chiesa non si spegne mai il nostro Alleluia stupito e commosso per le grandi meraviglie operate dallo Spirito nella storia, ma non si smorza neanche il Te Deum umile e fiducioso per le continue sorprese della sua grazia nel presente e nel futuro. Beato te, carissimo Marco, perché la tua vita, man mano che scorrerà in avanti, se guardata con lo specchietto retrovisore della fede, ti apparirà di tratto in tratto come un piccolo grande capolavoro in corso d’opera. Potrai allora dire mille volte grazie per quanto il Signore ha già operato e mille ed una volta grazie per quanto ancora certamente farà.

Quinta ragione. Io credo la risurrezione della carne.
Noi crediamo la risurrezione della carne: sappiamo di essere già passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Noi crediamo la vita eterna: la fede nel paradiso rivela che i nostri sforzi di crescita, i nostri slanci di bene, i nostri semi di pace non andranno perduti. L’esistenza della beatitudine eterna ci dice che vale la pena di vivere e lottare per l’amore sempre, anche in un mondo in cui l’odio e il male sembrano invincibili. Che ha senso amare la terra, assumerne i pesi, lavorare per renderla migliore. Beato te, carissimo Marco, se ti rallegrerai sempre, visto che siamo chiamati a rallegrarci per sempre.

Sesta ragione. Preti felici è possibile: tu li hai incontrati.
Uno è il tuo primo parroco, Don Sergio Matteini, che ti ha battezzato. Nel suo testamento olografo, datato Rimini, 29 agosto 2015, ha lasciato scritto: “Nella mia vita tutto è stato un intreccio di doni, che ho ricevuto da Dio, dalla mia famiglia, dai miei vescovi, dai confratelli e dalle comunità cristiane in cui sono stato mandato”. Nei suoi ultimi giorni, Don Sergio ha confidato a molti, compreso il sottoscritto: “Nella mia vita sono stato troppo amato dal Signore”. E nell’ultima lettera che mi hai scritto tu, carissimo Marco, mi dicevi: “Devo anche ringraziare molto i preti della mia parrocchia, che allora erano: don Giancarlo Del Bianco e don Stefano Sargolini. Li devo ringraziare perché erano felici di ciò che vivevano e mi hanno saputo testimoniare la Gioia con la G maiuscola, attraverso la loro vita e il loro essere preti. Sono stati infatti per me una bellissima testimonianza di una vita spesa per Gesù, per la Chiesa, per la comunità, per gli altri, per il prossimo e per i fratelli”.

2. Ma c’è un’ultima sacrosanta ragione per essere preti felici. La prendo dalla finale spiazzante del vangelo di oggi. Gesù ci ha detto: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare. Stiamo sereni: Gesù non vuole dire che lui ci considera servi inutili, ma piuttosto che ci stima come servi che non mirano al proprio utile, al proprio tornaconto. E’ un messaggio di gratuità. Beato te, carissimo don Marco, se alla fine della tua vita, potrai dire, fissando gli occhi negli occhi del tuo e nostro dolcissimo, buon Pastore: “Grazie, Signore , che mi hai concesso di assomigliare, senza invidia, alla tua sorprendente e stupefacente gratuità. Così, con il tuo aiuto, ho fatto dono gratuito dei miei beni, del mio tempo, delle mie energie. Ed ora sono commosso e confuso per la pienezza di vita che mi fai ritrovare nelle mie mani. Non l’ho meritata. Ed è giusto che sia così: perché è infinitamente più bello sentirsi amati che venire pagati e ripagati”.

Rimini, Basilica Cattedrale – 2 ottobre 2022

+ Francesco Lambiasi

02/10/2022