Senza l’ossigeno della preghiera non si arriva a Pasqua La contemplazione è indispensabile per l’itinerario quaresimale

Omelia tenuta in Cattedrale – Mercoledì delle Ceneri – 25 febbraio 2009

A risorgere si impara. Ma per imparare a risorgere, bisogna, prima ancora, imparare a morire. Questo è il senso della Quaresima: quaranta giorni di allenamento spirituale intensivo – ogni santo giorno, tutti insieme in questa sorta di “palestra del cuore” – per imparare a vivere da cristiani, cioè a fare Pasqua: a morire e a risorgere alla vita del Crocifisso-Risorto. Gli esercizi spirituali da praticare in questo tempo forte ci vengono dettati direttamente da Gesù nel vangelo di oggi: elemosina, preghiera, digiuno. Afferma al riguardo un Padre della Chiesa:

“Queste tre cose – preghiera, digiuno, misericordia (o elemosina) sono una cosa sola, e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutt’e tre insieme, non ne ha nessuna. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuni, abbia misericordia” (s. Pietro Crisologo).


1. In questo trinomio quaresimale la preghiera è l’elemento centrale, non solo letterariamente, in quanto viene citata dall’evangelista dopo l’elemosina e prima del digiuno, ma anche strutturalmente: senza la preghiera il digiuno rischierebbe di essere un esercizio di semplice autoperfezionamento, e la carità scadrebbe a beneficenza puramente filantropica.

Nell’anno pastorale in corso, dedicato dalla Diocesi alla contemplazione del volto del Signore, mi sembra opportuno fissare la nostra attenzione su questo che è l’elemento fondamentale e determinante della vita cristiana, appunto la preghiera.

Nel vangelo appena proclamato Gesù compie una diagnosi spietata di due patologie mortali della preghiera: l’ostentazione esibizionista e il formalismo vuoto e verboso. La prima viene rinfacciata agli “ipocriti” che pregano impettiti nelle sinagoghe o negli angoli delle piazze “per farsi vedere dagli uomini”. L’ipocrita, quando si mette a pregare, finge di cercare Dio, ma in realtà cerca il proprio io. L’ipocrita si serve di tutto, anche di Dio, per apparire davanti agli uomini. La sua preghiera si riduce ad una vergognosa sceneggiata: invece di stare davanti a Dio e rifletterne la gloria, l’ipocrita sta davanti agli uomini per riflettere compiaciuto la vanagloria che gli viene dal rimando della bella figura di sé.

La seconda patologia – il verbalismo – aggredisce la preghiera dei pagani, i quali credono di venire esauditi “a forza di parole”, con un blabla barboso e petulante, che dice solo il penoso vuoto del cuore. A ben guardare, l’una e l’altra patologia riflettono una deformazione idolatrica dell’immagine divina, che non corrisponde alla rivelazione del vero Dio, ma altro non è che una proiezione rovesciata del nostro io. Dio però non si lascia né strumentalizzare né ricattare. Non si vende e non si compra: di Dio non si fa mercato…

2. Ma forse, più che su questi gravi disturbi della preghiera, conviene soffermarsi, in positivo, sulla sua vera qualità “cristiana”. La preghiera del cristiano è veramente ed effettivamente cristiana quando viene fatta con Cristo e come Cristo. Ora ciò che è tipico di Gesù è che egli prega da Figlio: basta registrare i cinque casi in cui i vangeli non si accontentano di darci la semplice notizia generica del fatto che egli pregava, ma ci trasmettono anche il testo stesso della sua preghiera. E si constata che la sua invocazione a Dio è sempre formulata con l’appellativo di “Padre”, anzi con il termine aramaico Abbà, che andrebbe tradotto con “papà, babbo caro”, una espressione che tradisce un tono così familiare e un linguaggio così confidenziale nel parlare con Dio, che non risultano mai documentati nei testi della letteratura dell’antico Israele.

La preghiera di Gesù fa quindi da specchio alla sua coscienza: cioè non solo ci fa conoscere in recto come Gesù pregava, ma in obliquo ci rivela chi egli credeva di essere: il Figlio amato del Padre.

Da qui scaturisce un messaggio molto importante per noi: nell’esperienza della preghiera ciò che più conta non è quello che si dice, ma quello che si è. Sant’Agostino affermava che il problema fondamentale nella preghiera non è quid ores (le parole che hai sulle labbra), ma qualis ores (come sei nel tuo cuore quando preghi).

Si innesta qui l’insegnamento di s. Paolo, che nell’anno a lui dedicato, non possiamo assolutamente trascurare. Nella Lettera ai Romani l’apostolo ci ricorda che noi non abbiamo ricevuto “uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (cfr Rm 8,15). Ecco il grande dono di Gesù crocifisso e risorto: ci ha donato il suo stesso Spirito, il quale fa morire in noi l’uomo vecchio, schiavo dell’egoismo, pieno di paure e tenacemente aggrappato ai propri interessi, e risuscita in noi l’uomo nuovo, l’uomo con una identità nuova, l’identità di figlio di Dio. Venendo in noi, lo Spirito Santo non si limita ad insegnarci come bisogna pregare, ma prega in noi e ci fa pregare non solo con e come Cristo, ma in Cristo. Non ci viene dato un comando di pregare, una dura fredda legge, ma ci è partecipata la grazia della preghiera, e così possiamo fare nostra la stessa identica preghiera del Figlio: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6).


“Quando ci insegna a gridare Abbà lo Spirito Santo – scriveva un autore antico – si comporta come una madre che insegna al proprio bambino a dire ‘papà’ e ripete tale nome con lui, finché lo porta all’abitudine di chiamare il papà anche nel sonno” (Diadoco di Fotica).


La preghiera cristiana non è altro che il “linguaggio del figlio”, il “modo di parlare” di un bambino al suo papà.  In un altro passo del vangelo Gesù ci provoca ad una fiducia cieca nei confronti di Dio Padre:


“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto… Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano” (Mt 7,7-11).


Nel passo parallelo, s. Luca sostituisce le “cose buone” con “lo Spirito Santo”: è lui il primo dono che il Padre ci fa e che contiene tutte le “cose buone” di cui noi abbiamo veramente bisogno. Qualcuno si meraviglia come mai nel Padre Nostro non viene nominato lo Spirito Santo, e nell’antichità ci fu persino chi cercò di colmare questa lacuna, aggiungendo dopo l’invocazione per il pane quotidiano, le parole che si leggono in alcuni codici: “Venga a noi lo Spirito Santo e ci purifichi”. Ma è più semplice pensare che lo Spirito Santo non è tra le cose chieste perché è colui che le chiede.

In conclusione vorrei ritornare al tema della conversione e del cuore filiale creato in noi dallo Spirito Santo. C’è un passo nel vangelo di Matteo – ed è l’unico in tutti i vangeli – in cui Gesù fa coincidere la conversione con il diventare bambini: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Come si vede, Gesù non dice di “ritornare bambini”, poiché non vuole da noi una sorta di regressione infantilistica, del resto improbabile, anzi impossibile, ma ci chiede di “diventare bambini”, cioè di rapportarci nei confronti di Dio per quello che lui è – Padre-Abbà – e per quello che noi siamo: figli, da lui tenacemente e teneramente amati.

Ecco un bell’esercizio spirituale da fare in questa Quaresima: pregare come bambini, come figli piccoli, che si sanno e si sentono amati, e perciò nutrono nei confronti del Padre i sentimenti di figli grati e felici: stupore, gratitudine, fiducia, felicità.

In tal modo sperimenteremo perché Pasqua è la festa della nostra rinascita: perché riattiva in noi quel cuore filiale che ha cominciato a pulsare in ognuno di noi cristiani il giorno del nostro battesimo.

Possiamo allora fare nostra una tipica preghiera pasquale, che converrà esercitarci a ripetere durante questa Quaresima dell’anno della contemplazione:

“Padre Santo, che nel battesimo ci hai resi figli della luce, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della tua verità”.