Sacerdoti… “formato-Paolo”

Omelia tenuta in occasione della ordinazione sacerdotaledi Raffaele Masi, Alberto Pronti, Marcello Zammarchi

Rimini. Cattedrale, 28 giugno 2008 – Inizio dell’Anno Paolino

Possiamo esserne certi: questa celebrazione sarà a lungo ricordata non solo per la sovrabbondanza del dono sempre più necessario e sempre più prezioso, fatto alla nostra diocesi, dell’ordinazione sacerdotale di ben tre nuovi presbiteri. Non la dimenticheremo presto una stagione ecclesiale così stracarica di “frutti”, anche per il felice inizio dell’anno paolino, indetto per tutta la Chiesa da papa Benedetto XVI. Tale fortunata, provvidenziale concomitanza ci induce a privilegiare quest’anno – rispetto al pescatore di Betsaida – il riferimento all’apostolo delle genti, per derivare dalla sua storia estremamente singolare e dalla parola inconfondibilmente “sua”, personalissima, quei potenti fasci di luce che illuminano il senso e il profilo del ministero ordinato che stiamo per conferire a voi, carissimi Raffaele, Alberto e Marcello.

Paolo infatti – sosteneva, e del tutto a ragione, Gregorio di Nissa – “ha conosciuto Cristo molto più a fondo di tutti (…). Lo ha imitato con tanta accuratezza da mostrare chiaramente i lineamenti di Cristo e trasformare i sentimenti del proprio cuore in quelli di Cristo, tanto da non sembrare più lui a parlare. Paolo parlava, ma era Cristo che parlava in lui” (PG 46,254).

Lasciamo dunque parlare Paolo, e Cristo in lui.

1.Il punto di partenza per una riflessione di conio “paolino” sul ministero ordinato non può non essere l’avvenimento capitale che spezzò in modo sorprendente e traumatico la vita di Saulo di Tarso. Quel giorno dell’anno 36 d.C. sulla via di Damasco accadde l’imprevedibile: colui che andava braccando i cristiani per metterli a morte, fu lui stesso in realtà atterrato e irresistibilmente “afferrato” dal loro capo, Gesù Cristo. Nel bagliore che lo accecò, Paolo colse due verità in un lampo solo.

In primo luogo l’apostolo si rese conto che Gesù era ancora vivo, sebbene in una forma di esistenza diversa da quella di ogni comune figlio del primo Adamo. La conseguenza che ne trarrà è che Cristo non è un mito del passato e non può mai essere ridotto a oggetto di nostalgica commemorazione né a modello, per quanto esaltante, di irreprensibile condotta morale. L’esperienza irrefragabile dell’incontro del Risorto non solo non farà soffrire a Paolo alcun complesso di inferiorità rispetto ai primi discepoli del Signore, ma lo farà sentire apostolo con tutti i crismi e a tutti gli effetti, al punto da fargli gridare: “Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, il Signore risorto?” (1Cor 9,1). Perciò egli appare costantemente concentrato sull’essenziale della storia di Gesù, si mostra come “fissato” su quel nocciolo duro che è racchiuso nel mistero della Pasqua.

Per parlare di Cristo, Paolo non utilizza mai il linguaggio narrativo e non segue il percorso a ritroso dei quattro evangelisti: tace del tutto sui miracoli, sulle parabole e sulle altre parole riportate nei Vangeli. Insomma non considera Gesù come un taumaturgo né come un maestro. La cristologia paolina è estremamente libera rispetto alle tradizioni preevangeliche, ed è qui che aveva ragione A. Schweitzer nell’affermare che Paolo assicurò per sempre al cristianesimo il diritto di pensare. In ogni caso egli non racconta: riflette. Il Gesù di Paolo non sta dietro a Paolo né davanti ed esterno a lui, ma dentro di lui, è vita della sua vita: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

L’approccio dell’Apostolo al mistero di Cristo non è di tipo storico; è di tipo  “mistico”, nel senso che Gesù gli interessa in quanto essere vivente e vivificante, costantemente presente e intimamente dinamizzante la storia di ogni battezzato. La vita di Cristo non corre appaiata a quella del cristiano come una parallela che, per quanto adiacente, resta all’infinito non sovrapponibile all’altra parallela; è piuttosto come una perpendicolare che investe in pieno l’esistenza del cristiano e trasforma dall’interno e nel profondo la sua personale, irripetibile identità.

La seconda verità che Paolo deve avere immediatamente “metabolizzato” dall’incontro sulla via di Damasco era che Gesù si identificava strettamente  con i cristiani che lui continuava a perseguitare. In tutt’e tre le redazioni dello stesso episodio raccontato negli Atti degli apostoli ritorna alla lettera la stessa domanda: del Nazareno: “Perché mi perseguiti?”, domanda che uno scrittore normalmente molto sorvegliato come Luca non avrebbe registrato con tanta insistenza se non perché vi intercettava il DNA della futura ecclesiologia paolina. In breve quel giorno alle porte di Damasco Saulo di Tarso ha fatto un’esperienza doppiamente sconvolgente: ha visto Cristo e ha intravisto la Chiesa. Perciò non potrà mai dire e non dirà mai: “Cristo sì, Chiesa no”. Il legame tra il Cristo e la Chiesa è talmente tenace e indissolubile che, se si volesse spezzare, si dovrebbe operare una vivisezione dell’uno e unico organismo vivente, qual è il corpo mistico di Cristo. Questa è la parola di Paolo, la parola di Dio.

2. Arrivati a questo tornante del nostro percorso, ci domandiamo: come percepisce Paolo il suo ministero apostolico? Tra le svariate immagini e i tanti termini dell’ampio ventaglio linguistico da lui adottato, ne scegliamo un paio, piuttosto inusuali nelle sue stesse lettere, ma quanto mai determinanti per definire il profilo del ministero.

Il primo termine è leitourgos, “liturgo”, tradotto dalla CEI con “ministro”. Verso la fine della Lettera ai cristiani di Roma, parlando della missione da lui svolta presso i pagani, s. Paolo scrive testualmente di aver ricevuto da parte di Dio la grazia

“di essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo” (Rm 15,16).

L’affermazione ha dello stupefacente, perché risente di un vocabolario specificamente cultuale, che l’Apostolo usa molto di rado, con scrupolosa circospezione. Comunque, l’autocoscienza che vi traspare è quella di chi si percepisce come un “ministro-leitourgos” che esercita un sacerdozio (ierorgounta) mirato a fare dei pagani una offerta sacra, un sacrificio spirituale a Dio. Paolo quindi considera se stesso come il sacerdote che comunica ai convertiti lo Spirito Santo e rende così la loro vita una offerta degna di Dio e a lui gradita. E’ interessante notare che Paolo non usi mai, per qualificarsi, il titolo di hiereus-sacerdote, termine per lui ambiguo e sospetto, perché derivante dal linguaggio tecnico della liturgia del tempio. L’Apostolo non vuole quindi accreditarsi come un sacerdote dell’antico testamento, ma come “ministro” della nuova ed eterna alleanza. Infatti il sacerdozio del NT non consiste nel mettere a bruciare il cadavere di un animale sul fuoco dell’altare, come nel culto di Aronne. La vera liturgia si attua in un servizio che nessun sacerdote del tempio si era mai sognato e mai si era impegnato ad esercitare: l’evangelizzazione. Ecco il culto spirituale, che trasforma l’esistenza concreta di uomini viventi in offerta santa e gradita a Dio. In sintesi, se la liturgia coincide con l’evangelizzazione, Paolo è vero sacerdote in tanto in quanto è vero missionario.

Un’altra parola-immagine del lessico paolino riguardante il ministero sacro è presa invece dal linguaggio profano: ambasciatore. La troviamo nella II Lettera ai Corinzi. Paolo sta contemplando lo stupendo affresco della storia della salvezza, che si presenta al suo sguardo ammirato e commosso come un grandioso progetto di riconciliazione, predisposto da Dio Padre e realizzato in Cristo e nella sua croce, suprema epifania di un amore senza riserve. A questo punto l’Apostolo si accredita come affidatario della “parola della riconciliazione”:

“Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,16).

Anche qui ci concediamo una velocissima annotazione filologica: per dire “fungiamo da ambasciatori”, il testo greco riporta il verbo presbeuo, che viene dalla stessa radice da cui deriva la parola “presbitero”. In sostanza l’ambasceria, che viene affidata a Paolo, fa di lui il legale rappresentante di Cristo per svolgere il ministero sacro della riconciliazione, e lo rende inviato speciale per annunciare l’amnistia universale che Dio Padre nella economia della grazia ha stabilito nel sangue di Cristo.

3. Ci resta ora un’ultima domanda: da dove ricava Paolo l’energia inesauribile per affrontare le fatiche e i rischi del ministero? Chi fa andare avanti l’apostolo sulle rotte impervie della missione? Che cosa lo rende sempre più appassionato e ardente, sempre così audace e fedele, di una fedeltà inossidabile, nonostante le insidie, le persecuzioni, i fallimenti, le prove? La risposta ce la dà lui stesso con una espressione breve e bruciante: “L’amore di Cristo ci spinge” (2Cor 5,14). L’amore di Cristo: quel “di” merita di essere evidenziato. Significa da Cristo e per Cristo. E’ insieme l’amore che discende da Cristo a noi, perché “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (cfr Ef 5,25) ed è l’amore che sale dal nostro cuore a lui, in forma di benedizione ascendente:

“Sia benedetto Dio, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano qualsiasi genere di afflizione” (2Cor 1,3s).

Ecco chi siamo noi pastori e presbiteri, sorelle e fratelli carissimi: siamo degli “amati-innamorati”. Ecco chi state per diventare e lo sarete in eterno, cari diaconi: sacerdoti amati da Cristo, innamorati di Cristo. Per l’imposizione delle mani del vescovo i presbiteri diventano ministri e “liturghi” che nella santa eucaristia offrono, da sacerdoti, Cristo come vittima sull’altare, ma nella vita, al contrario, riservano a Cristo la parte del sacerdote, e a se stessi quella di vittima. Vittime però senza vittimismo, perché noi non siamo dei “facchini” stressati e scontenti, per usare una immagine di don Oreste. Siamo dei plenipotenziari del ministero del perdono, che si sanno perennemente amati perché anche noi siamo peccatori puntualmente e gratuitamente perdonati.

Carissimi, Alberto, Marcello, Raffaele, dovrei ora rivolgervi tutta una serie di esortazioni e di raccomandazioni. Ma mi limito a un semplice rinvio: andate a rileggere il testamento spirituale di s. Paolo ai presbiteri di Efeso (At 20). Tenetelo costantemente presente, e sconfiggerete il “baco del millennio”, il narcisismo.

In conclusione, vi prego: non dimenticate mai che siete stati ordinati in questo primo giorno dell’anno paolino. Perciò vi supplico: guardate ogni giorno all’apostolo Paolo, leggetelo, pregatelo, seguitelo, e sarete sacerdoti secondo il suo modello, pastori veramente… “formato-Paolo”.

E sarete preti felici, innamorati e felici di essere preti: non vi pentirete mai di quello che oggi promettete; non vi annoierete mai di quello che da domani farete; non resterete mai delusi di come il Signore vi tratterà, fino all’ultimo giorno del vostro pellegrinaggio.

Prego la Madre del sommo ed eterno Sacerdote, prego S. Gaudenzo e tutti i santi presbiteri della nostra diocesi che ci hanno preceduto nella liturgia celeste, dal primo fino all’indimenticabile don Oreste, e con le sue parole vi auguro di “lasciarvi strapazzare per il bene delle anime”.

E la vostra gioia sarà piena. E nessuno vi potrà più togliere la vostra gioia…

+ Francesco Lambiasi