“Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?” La Pasqua è un evento, un messaggio, un canto

Omelia Veglia di Pasqua ‘08

Un evento, un messaggio, un canto: questo è la Pasqua. E per dire tutto questo, bastano letteralmente tre parole. Rispettivamente, per dire l’evento, una paroletta greca, che presto vedremo; e per formulare l’adesione al messaggio e modulare il canto, due parolette ebraiche, che conosciamo bene.

1. La Pasqua è innanzitutto un evento. Tutta l’avventura cristiana comincia con una notizia resa pubblica in Gerusalemme la mattina di Pasqua dell’anno 30. Quella notizia, da quando ha cominciato a “rotolare” giù dalla collina del Golgotha alle prime ore di quel “primo giorno” della settimana, continua a fare il giro del mondo, rimbalzando di anno in anno, da un capo all’altro del nostro pianeta. Quella notizia riguarda un fatto sbalorditivo e inquietante, avvenuto presumibilmente nella notte tra l’8 e il 9 aprile dell’anno 30 dell’era cristiana, e si concentra in una sola paroletta della lingua più parlata di allora, la lingua greca. E’ un verbo al passivo: eghérthe, cioè: “è stato risuscitato”, “è risorto”. Il soggetto di questo verbo è un certo Gesù, morto due giorni prima su una croce fuori delle mura di Gerusalemme, e significa che quel Gesù di Nazaret, a differenza dei fondatori delle grandi religioni e dei grandi personaggi della storia, non può essere iscritto nel registro dei defunti, in quanto è tuttora in vita, e deve essere perciò rigorosamente computato nell’anagrafe dei vivi. Ma poiché, a differenza di Lazzaro – il quale dopo essere risorto, è ri-morto! – Cristo vive per sempre, si richiede per lui un registro speciale, perché – caso unico in tutta la storia – risorgendo da morte, si è reso reperibile sotto qualsiasi latitudine, per tutta l’estensione del tempo: ieri, oggi e sempre.

E’ da notare che questo annuncio appartiene alla serie delle affermazioni non negoziabili, perché può essere solo o riconosciuto o rifiutato. Non si tratta infatti dell’enunciato di una dottrina, di una ideologia o di una vaga utopia: riguarda appunto un fatto, che, in quanto tale, o lo si accetta o lo si nega. Non sono possibili trattative né mediazioni diplomatiche.

Si racconta che al tempo della propaganda antireligiosa, in Russia, un commissario del popolo aveva presentato brillantemente le ragioni del successo inarrestabile della scienza. Si celebrava il primo viaggio spaziale. Era il momento di gloria del primo cosmonauta, Yuri Gagarin. Ritornato sulla terra, aveva affermato di avere avuto un bel cercare in cielo: Dio non l’aveva proprio visto, da nessuna parte. Il commissario tirò la conclusione proclamando con tono trionfale la sconfitta irreversibile della religione. Il salone era gremito di gente. La riunione era ormai alla fine. Il commissario, compiaciuto e gongolante, chiese a bruciapelo: “Ci sono delle domande?”.

Dal fondo della sala un vecchietto che aveva seguito il discorso molto attentamente, disse con voce sommessa: Christòs anèsti, “Cristo è risorto”. Il suo vicino ripeté un po’ più forte: Christòs anesti. Un altro si alzò e lo proclamò ancora più forte; poi un altro e un altro ancora. Infine tutti si alzarono gridando: Cristòs alethòs anèsti., “Cristo è veramente risorto”. Il commissario dovette battere in ritirata, confuso e disarmato.

Al di là di tutte le questioni e le discussioni, c’è un fatto. Per la sua formulazione non c’è bisogno né di chissà quali e quante parole complicate, né di chissà quali cervelli raffinati. Anche la persona più semplice, sprovvista di lauree specialistiche o di prestigiosi titoli accademici, basta che si renda conto di che cosa sia “vita” e di che cosa sia “morte”, arriva a cogliere la comprensibilità del contenuto elementare che si afferma nel seguente enunciato: Gesù è risorto. Quanti l’accettano come vera, si definiscono per ciò stesso cristiani, senza possibilità di confusione con i non cristiani.


2. La Pasqua è un messaggio. Per cogliere la ricaduta di questo annuncio, proviamo a trasferirci idealmente a Gerusalemme il giorno di Pentecoste dello stesso anno, sette settimane dopo i “fatti di Pasqua”. Pietro, a nome degli apostoli, ha appena finito di proclamare: “Quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha risuscitato e noi ne siamo testimoni”. La reazione del pubblico è più di scherno che di sconcerto: “Roba da matti! Questi discepoli del Nazareno sono tutti ubriachi” (cfr At 2).

In effetti la risurrezione di Gesù fa la differenza: la fede cristiana sta o cade con la verità o meno di questo evento. Se la risurrezione è vera, allora cambia tutto: basta ripercorrere il tracciato storico-salvifico delle sette letture che ci sono state proclamate.

Allora è vero che Dio non è un Giove volubile e vorace, ma è il Padre infinitamente buono che ha creato il mondo per effondere il suo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della sua gloria.

Allora è vero che Dio è sempre affidabile, anche quando si presenta come diverso da quello che ci si aspetta, perché alla fine risponde sempre al nostro insopprimibile desiderio di vita: vedi il sacrificio di Isacco.

Allora è vero che Dio non è come il faraone che ci fa schiavi, ma è il grande liberatore che, pur di liberare il suo popolo, gli apre il mare davanti, per farlo giungere alla terra promessa.

Allora è vero che Dio non ha paura di superarsi e si mostra capace anche di realizzare un nuovo esodo: vedi il ritorno di Israele dall’esilio di Babilonia.

Allora Dio si rivela come l’amore infinito, che invita senza mai stancarsi il suo popolo alle acque della salvezza.

Allora Dio dona ai suoi figli la vera sapienza, ed è capace di assicurare un risorgimento spirituale al suo popolo…

Ma tutto questo sta a dire che il mondo non può essere un immenso orfanotrofio, dove vivono accalcati e incomunicabili sei miliardi di solitari.

Allora la vita non è una vacanza tragicomica, che finisce irreparabilmente nel modo più catastrofico, in uno squallido cimitero…

La parola per dire l’adesione della fede a questo mistero pasquale di luce e di vita è una sola e la conosciamo bene: amen. Significa: sì, io credo che Dio è amore, che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.


3. La sorprendente e lieta notizia della risurrezione di Cristo non suscita solo l’adesione della fede più convinta e tenace, ma fiorisce anche nel canto. E’ il canto che si concentra in una parola ebraica, alleluia, che in realtà risulta a sua volta composta di due parolette: hallelu-Jah, che significano: lodate il Signore. Noi potremmo tradurre: W il Signore!

Alleluia è grido di gioia. Il suo contesto originario è l’esodo: dopo il momento più drammatico dell’epopea d’Israele, con il passaggio del mare e la distruzione dell’esercito del faraone, la tensione collettiva si scioglie nel canto della liberazione, intonato da Mosè a gola spiegata: “Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere”. Mentre sulla spiaggia appena raggiunta, Maria al massimo dell’esaltazione volteggia come una rondine e tutte le figlie d’Israele intrecciano danze vertiginose, al ritmo impazzito dei tamburelli, il popolo dà finalmente libero sfogo al tripudio a lungo represso: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere”.

Ma lo scenario più adeguato per il canto dell’alleluia è la Pasqua: c’è un evento più prodigioso, imprevedibile e insuperabile, più divino e più storico – nel senso di evento reale e inesauribilmente efficace – della risurrezione di Cristo? “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”: quella pietra ribaltata dice che l’amore di Dio per noi è arrivato “sino alla fine”; che non c’è stazione della nostra dolente via crucis che Gesù non abbia conosciuto prima di noi e proprio per noi. Quel grido: “Non è qui; è risorto” dice che se Dio è venuto a spartire il nostro dolore, ora vuole condividere la sua gioia di essere nostro Padre e Salvatore. La sua gloria è la nostra salvezza. Dunque: lode al Signore!

L’alleluia non si può recitare: si può solo cantare. Vedi le melodie gregoriane, dalle forme più sobrie alle raffinate volute della liturgia pasquale. Oppure il grandioso, travolgente alleluia di Haendel. Il canto esplode dallo stupore, in presenza di Dio-Amore; esprime uno sguardo aperto e rapito, si sviluppa nel giubilo incontenibile per le meraviglie operate dalla sua misericordia.

In fondo è vero che è la fede a fare la differenza: tra il vedere e il non vedere il Risorto eternamente presente e operante in mezzo a noi. L’esistenza del cristiano si gioca tutta qui: nel vivere la vita come un con-vivere con il Signore. E’ la spiritualità della Pasqua, un evento che non ci sottrae la presenza del Risorto, ma ce ne agevola l’incontro e lo fa contemporaneo di ogni avvenimento, interlocutore di ogni esistenza, fedele compagno di ogni cammino.

E non sarà proprio l’alleluia il canto dei risorti? Ma intanto è anche il canto dei pellegrini. Come esortava Agostino: “O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Canta e cammina”.