Il bel Pastore innamorato

Le beatitudini dei pastori felici

Omelia tenuta dal Vescovo per l’ordinazione presbiterale di Simone Franchin, Stefano Battarra, Andrea Scognamiglio

E’ uno spaccato di cielo questo vangelo del buon Pastore: ci mostra non solo quello che Gesù ha fatto nella sua vita terrena. Ci svela anche quello che ancora non si è stancato di fare in cielo, dove Dio e i beati festeggiano allegramente per ogni pecorella smarrita e finalmente ritrovata. Sarà sempre ancora dal cielo che Gesù “apparirà” come “il Pastore supremo” (1Pt 5,4). Pertanto la metafora che continua a contrassegnare l’attività di Gesù nella gloria non è più rappresentata dalla figura del buon Seminatore che sparge sulla terra il seme del vangelo, né è raccontata dall’immagine del Maestro che insegna ai suoi affezionati discepoli come è fatto il regno di Dio e come fare per entrarvi. Ma è appunto l’immagine del “Pastore grande delle pecore” (Eb 13,20) che – come ricordiamo nella liturgia esequiale – si carica sulle spalle ogni sorella o fratello scomparso alla nostra vista, e se li traghetta sulla sponda dell’aldilà. Così, per tutta l’eternità beata, l’Agnello sarà il pastore degli eletti, li condurrà ai pascoli del cielo e “li guiderà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,17).

1. Carissimi Simone, Stefano e Andrea: c’è stato un giorno nel vostro cammino, a prima vista un giorno come tanti altri, ma quel giorno lui passò, e passando vi chiamò. E voi vi siete lasciati sedurre dalla sua voce e non avete più potuto fare a meno di seguirlo. Avete cambiato strada, non perché quella precedente fosse brutta o cieca, ma perché siete rimasti affascinati dal Pastore bello: bello perché innamorato e felice. E felice perché generoso, perché coraggioso, e soprattutto perché misericordioso. Perciò quando vi ho chiesto quale brano di vangelo volevate scegliere per la vostra ordinazione, mi avete positivamente sorpreso: al posto del brano previsto dalle rubriche, avete selezionato all’unanimità il vangelo appena proclamato: perché nell’immagine tenera e ardita del buon Pastore vedete specchiato il vostro sogno di vita.
Avete scelto bene. Gesù è davvero un pastore speciale. Non solo conosce le pecore una ad una, ed esse lo riconoscono all’eco della sua voce o al segnale del suo fischio inconfondibile. Non solo cammina alla testa del gregge e lo difende dalle losche trame dei ladri e dagli artigli dei lupi. Non solo garantisce la vita del gregge, facendolo riposare su pascoli di erbe fresche. Non solo va in cerca dell’agnellino smarrito e, senza obbligarlo a rifare a piedi la strada del ritorno a furia di nerbate, se lo carica sulle spalle e lo riconduce dolcemente all’ovile. Questo lo possono fare e magari lo fanno anche altri pastori, anche se, certamente, solo Gesù lo fa con una generosità incondizionata e una sviscerata tenerezza senza pari.
Ma c’è un tratto esclusivo e inconfondibile che fa di Gesù non semplicemente la testa di serie dei vari pastori, ma un insuperabile pastore “fuori-serie”. Eccolo: Gesù ama talmente le sue pecorelle da offrire la vita per salvarle. Impegna e spende senza risparmio la sua vita perché considera ogni pecora – l’una e le novantanove – più importante di se stesso. Perciò è il Pastore- pastore: unico, singolare, irripetibile. Basta paragonarlo con la tenebrosa controfigura del mercenario. Il pastore buono pensa alle pecore e sacrifica se stesso. Il mercenario, invece, quello che guarda solo ai soldi, pensa a se stesso e sfrutta le pecore. A differenza del mercenario, Cristo pastore non ricerca altro interesse, non rincorre altra ambizione, non persegue altro vantaggio che quello di guidare, nutrire, proteggere le sue pecorelle: “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). E tutto questo al prezzo più alto, quello del sangue, superando così perfino la gratuità più squisita del più buono dei pastori di questa terra: chi di essi infatti, per quanto generoso, coraggioso e misericordioso, arriva al punto da mettere a repentaglio la propria vita, pur di salvare anche una sola pecorella del gregge? Ecco perché quella del pastore è la metafora preferita da Gesù: è in un certo senso il suo selfie più fedele e riuscito.

2. Cari Fratelli, care Sorelle, se Gesù è il nostro Pastore, “noi siamo il suo popolo e il gregge del suo pascolo”. Ma per poterci guidare visibilmente, il Signore ha selezionato alcuni membri del suo popolo, e li contrassegna con lo stesso sigillo del crisma, con cui caratterizza tutti i battezzati, facendone il suo popolo profetico, regale e sacerdotale. Ma i suoi collaboratori più stretti li timbra in modo così diverso, per essenza e gradazione, che questi vengono assimilati a lui, non solo in quanto lui è l’Agnello, ma in quanto è il Pastore dei pastori del popolo di Dio. Per questi cristiani-pastori il crisma è un dono e un marchio d.o.c. che li fa stare non solo nella Chiesa, ma di più: di fronte alla Chiesa. Stare di fronte. Dio mio, c’è una posizione più scomoda nella Chiesa?          Permettetemi perciò di indugiare alquanto sul mistero che si va dipanando sotto i nostri occhi, e per questo utilizzo una splendida espressione di s. Agostino, il quale, presentandosi al popolo con la corona dei suoi presbiteri diceva così: “Noi pascoliamo voi, e con voi veniamo pascolati – Pascimus vobis et pascimur vobiscum”. O come scriveva in un altro passo: “Siamo cristiani con voi, e per voi siamo pastori”.

3. Ma ora lasciatemi proclamare le beatitudini che stamattina, quando mi sono messo in adorazione, sentivo che il bel Pastore mi sussurrava in cuore per voi tre, carissimi Simone, Andrea e Stefano. Ve le condivido così come mi sono arrivate, senza preoccuparmi di ordinarle secondo uno schema prefabbricato. Le formulo in prima persona plurale, perché ci riguardano tutti: me vescovo e tutti noi presbiteri.
Beati noi, se non ci slegheremo mai dalla stretta forte e dolce del buon Pastore. Perché lui è fatto così: ti abbraccia, ma non ti soffoca; ti stringe a sé, ma non ti strozza. Gesù non toglie nulla e dona tutto.
Beati noi, se saremo pastori-pontieri, a immagine del Pastore-pontefice, il grande “costruttore di ponti”. Che insieme a lui noi possiamo abbattere muri e barriere di divisione, e lanciare ponti di collegamento, da una solitudine all’altra, per passare dall’arcipelago dei tanti io al noi di un solo cuore. Ma non costruiamo mai davanti alla nostra porta un ponte levatoio che si abbassa per preferenze clandestine, e si alza per preclusioni immotivate, per anomale antipatie, o per respingimenti preconcetti.
Beati noi, se agiremo sempre e solo in nome di Cristo: così saremo i suoi agenti speciali, ma non i suoi attori mascherati. Non facciamo mai le comparse che rubano la scena al vero protagonista, il Signore Gesù. Che ogni rito da noi presieduto non scada mai a mimo patetico o, peggio, a ridicola sceneggiata. Che noi siamo gli autentici rappresentanti legali di Cristo, costantemente impegnati a non fargli fare brutta figura.
Beati noi, se ci guarderemo da due tentazioni legate al pastorato: la tentazione del peculato, ossia la lusinga dolciastra e velenosa dell’interesse privato in atti di ufficio, voglio dire: in atti di Chiesa. E la tentazione dell’abigeato, se non andremo a rubare le pecore dall’ovile vicino. E se non metteremo mai il nostro marchio personale di proprietà sulle pecore che ci sono affidate in pura e semplice amministrazione delegata.
Beati noi se ogni giorno proveremo il santo brivido del ribrezzo per la figura del mercenario. Se non valuteremo il servizio a noi affidato né come un peso fastidioso e insopportabile, né come un premio a noi aggiudicato per presunti meriti acquisiti. Ma sempre e solo per quello che è: come un dono immeritato e sorprendente. E d’altra parte non sentiamoci mai sprecati per il posto che, nel disegno di Dio, ci è stato assegnato.
Concludo. L’ultima beatitudine la rubo a papa Francesco e alle sue parole, pronunciate l’altro ieri, durante la visita pastorale negli Stati Uniti d’America.
Beati noi, se “la nostra gioia più grande sarà di essere pastori, nient’altro che pastori, dal cuore indiviso e una irreversibile consegna della propria vita. Non lasciamoci rubare questa gioia”.
Ma ora, per favore, tutto il popolo risponda con lo scoppio di un tuono: Amen! Amen!

Rimini, Basilica Cattedrale, 27 settembre 2015

+ Francesco Lambiasi