Il “battesimo” di don Oreste

Omelia – Battesimo del Signore (13 gennaio 2008)

Nell’ormai lontano 1950, quando don Oreste era prete da qualche mese, comparve in Francia un romanzo di G. Cesbron sull’esperienza dei preti operai, dal titolo: I santi vanno all’inferno. In Italia arrivò due anni dopo, e mi risulta che il “Don” non solo l’ha letto, ma lo ha anche fatto girare tra i suoi giovani. Quel testo mi è ritornato alla mente qualche giorno fa, quando ho cominciato a preparare l’omelia per questa vostra assemblea, che dovrà scegliere il successore di don Oreste. Pensando a Gesù che si immerge nelle acque del Giordano e a don Oreste che ha vissuto la sua vita come una full immersion nel mare di umiliazioni e di sofferenze di tanta povera gente, mi è ritornato alla mente quel celebre romanzo, che è come una sorta di finestra spalancata sulla periferia parigina: un ammasso di gente che trascina i giorni all’insegna dell’insicurezza, del lavoro bestiale, dell’abbrutimento. Regno del subumano, dove la gente ha “lo sguardo delle bestie battute, delle creature vinte in anticipo, che non credono più al loro diritto di vivere”. In questo inferno sceglie di vivere padre Pietro: non può sopportare che il Cristo venga così sfigurato. Al regno del disprezzo per l’uomo vuole opporre il regno dell’amore cristiano. Il romanzo termina con due parole che il cardinale (Suhard) morente vorrebbe ripetere ai suoi preti: “Non lasciar passare un solo minuto! E non lasciar passare un solo essere senza amarlo!”.

Don Oreste non ha lasciato passare un solo minuto senza amare, non ha lasciato passare un solo essere senza amarlo. Ha fatto così perché così ha fatto Gesù: questo è il senso del battesimo del Signore al Giordano.


1. Quel giorno dell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, quando il falegname di Nazaret aveva circa trent’anni, l’incarnazione del Verbo ha registrato una ulteriore “discesa”. Con la scelta di farsi battezzare da Giovanni, Gesù dimostra di non voler prendere le distanze dalla massa corrotta e corruttrice dei peccatori, ma si mescola con essa, pur nella – o proprio per la – consapevolezza della propria origine divina e della piena innocenza personale. L’incarnazione per il Verbo-Figlio non è solo il farsi uomo, ma l’immergersi completamente nella pasta guasta e avariata dell’umanità peccatrice. E’ certo: l’identità di Gesù di Nazaret era già definita e completa fin dall’”istante zero” della sua esistenza umana, nel grembo della Vergine-Madre. Ma lo sarebbe stata anche nel caso che il Verbo avesse assunto la natura umana nella forma di un sommo sacerdote o di un grande imperatore o di un munifico VIP del tempo, insomma se fosse venuto con grandezza e splendore terrestre. E invece “doveva rendersi in tutto simile ai fratelli (…) allo scopo di espiare i peccati del popolo” (Eb 2,17). Per questo non gli bastò farsi uomo; non gli bastò neanche impegnare trenta lunghissimi anni per imparare a diventare uomo, ma “spogliò se stesso prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,7).

In altre parole: Gesù “scende dalle stelle”, si cala nel nostro mondo, lo trova malsano e malmesso, e cosa fa? Potrebbe invocare il fuoco del giudizio divino per incenerire il marciume di tanti mali, miserie e cattiverie, come aveva fatto Giovanni Battista, ma non lo fa. Potrebbe aprire una scuola a Gerusalemme come rabbi Hillel o rabbi Gamaliele, per insegnare a diventare periti nella legge di Dio, ma non lo fa. Potrebbe indicare la via del nirvana ai discepoli che poi però devono fare tutta la strada da soli, come Siddharta Gautama, il Buddha, l’illuminato, ma non lo fa. Darà allora il segnale della guerra santa, come farà Muhammad, il profeta, o cercherà di affermare la verità ricorrendo anche a metodi intolleranti, come purtroppo faranno nel corso della storia alcuni suoi discepoli?

No, Gesù di Nazaret sceglie di farsi compagno di tutti i peccatori – fino a giocarsi la reputazione – come “un mangione e un beone”. Si fa carico, come un agnello innocente, di tutto il peccato del mondo, e con la sola forza dell’amore del Padre comincia ad attraversare le strade della vita, beneficando e risanando quanti erano prigionieri del male. Va incontro a ogni miseria spirituale e materiale, guarendo malati e lebbrosi, accogliendo donne e bambini, perdonando pubblicani e peccatori, risuscitando i morti, proclamando la buona novella ai poveri. Intanto annuncia il mondo nuovo del regno dei cieli, un regno che ha per fondamento la bontà misericordiosa del Padre, per condizione la libertà dei figli di Dio, per statuto la legge dell’amore.

Questa è la scelta messianica di Gesù, una scelta che il Padre approva, confermandogli solennemente e pubblicamente tutto il suo compiacimento: “Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te ho posto tutto il mio amore”. Si realizza così la profezia di Isaia: “Oh, squarciassi tu i cieli e scendessi!”. E il cielo si squarcia davvero, come avverrà (stesso verbo!) per il velo del tempio alla sua morte (Mc 15,38). E lo Spirito scende come colomba, a significare che “l’eterno naufragio del mondo era finito” (Crisologo). Veramente nel battesimo di Gesù inizia una nuova primavera della storia. “Quali miracoli, quali prodigi, fratelli miei!”, cantava stupito s. Agostino.


2. Quando la Papa Giovanni ha cominciato ad espandersi – a metà degli anni Sessanta – era diffusa la sensazione che le cose non potevano andare così come erano sempre andate. Soffiava forte il vento infuocato del ’68. Il mondo – si diceva – non aveva bisogno di miglioramento, ma di cambiamento, insomma di una “salvezza” radicale, integrale, universale. Al riguardo venivano proposte varie dottrine di “salvezza”. Mi limito a richiamarne alcune.

Una corrente, di radice marxista, sosteneva l’urgenza di rovesciare le vere forze del male (le strutture capitalistiche) per costruire il socialismo, e far spuntare l’alba radiosa del “sol dell’avvenire”. Questa ideologia – che si spingeva fino a sostenere una rivoluzione violenta, vedi il terrorismo – riteneva che la lotta di classe e la liberazione dalle oppressioni esteriori siano la molla per portare finalmente nel mondo giustizia, progresso e solidarietà.

Un’altra corrente, di matrice freudiana, riteneva che la salvezza per l’uomo è a portata di mano dell’uomo stesso. Basta che l’uomo faccia chiarezza dentro di sé, nel suo profondo o “inconscio”; basta che si renda conto che la religione è una forma di nevrosi o di regressione infantile, e l’uomo può liberarsi dal suo vero male, che non è il peccato, ma il complesso di colpa.

Poi, negli anni Ottanta, con il declino delle grandi ideologie, hanno cominciato ad affermarsi le cosiddette nuove religioni, di cui il movimento New Age rappresenta un esempio tipico. Per la New Age la salvezza per l’uomo non viene dal di fuori, ma è potenzialmente nell’uomo stesso: consiste nell’entrare in sintonia o in vibrazione con l’energia e la vita di tutto il cosmo. Non c’è bisogno di un salvatore, ma semmai di maestri e di guru che insegnino la via dell’autorealizzazione.

Don Oreste invece ha ripreso in mano il vangelo di Gesù Cristo e da lì ha ricavato una costellazione di verità fondamentali.

Prima di tutto, il male è annidato nel cuore dell’uomo, come afferma s. Paolo: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”. C’è bisogno perciò di una liberazione interiore: non basta cambiare le strutture, anzi queste non si possono cambiare, se non si cambia il cuore dell’uomo.

Seconda verità: la salvezza è il dono dell’amore misericordioso del Padre, che l’assicura per tutti, perché “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,5).

Terzo, una salvezza così radicale e universale ci è stata ottenuta dall’amore di Gesù, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, e non ci può essere data da nessun altro al mondo: “Non vi è infatti – dice Pietro nei primi giorni dopo la Pentecoste – altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

Questa è stata la “rivoluzione” intesa da don Oreste. Vorrei, per concludere, mettere in risalto il “prezzo” che egli ha pagato con rigorosa, esemplare, eroica fedeltà per dare il suo apporto all’opera di Cristo a favore della salvezza dei poveri e degli emarginati. Chiodo fisso di don Oreste è stato sempre questo: se il male si annida nel cuore dell’uomo, allora il punto di partenza di ogni azione tesa a cambiare le situazioni di miseria, di ingiustizia e di degrado, si trova sempre dentro di noi. Insomma, se la salvezza coincide con l’amore che dà la vita per i fratelli, allora occorre farsi strumento di Cristo perché ogni povero si senta amato, compreso, benvoluto e venga concretamente ed efficacemente aiutato.

Questo ha implicato per don Oreste il condividere “i sentimenti di Cristo”, farsi povero non solo per i poveri, ma con i poveri, insomma immergersi nel mondo degli ultimi, scendere nel loro inferno per portare là l’amore di Gesù, il vero Fratello universale. Forse la scelta di don Oreste si può illustrare con l’immagine della barra di ferro che si vuole lavorare perché assuma la forma progettata. Se ci si mette subito a colpirla, il ferro si scheggerà, sprizzerà scintille, ma non si lascerà modificare. Se invece la stessa barra la si immerge nella fucina e la si lascia arroventare nel fuoco, allora il ferro si potrà lavorare per fargli assumere la forma voluta.

Don Oreste si è immerso nell’inferno di tanta povera gente, portandosi dentro l’amore di Cristo. Si è lasciato costantemente convertire dal suo amore per convertire tanti al suo amore. E la sua vita ora si fa “testamento” per noi…

Sul Pane quotidiano di ieri ha lasciato scritto:

“Il peccato conduce alla morte perché è cancellazione della relazione vitale con Dio. Il ripudio della fede, l’abbandono della Chiesa cattolica, è il peccato contro lo Spirito Santo, contro la verità; è sostituire il vero Dio con gli idoli, ed è un peccato di una gravità eccezionale”.

E sul Pane quotidiano di oggi, a proposito del battesimo di Gesù, osservava:

“Gesù che non aveva peccato, ha voluto essere trattato da peccatore perché ha fatto suo il peccato degli uomini, l’ha portato su di sé e, portandolo, l’ha tolto. Egli è luce che ci indica la via per togliere il peccato del mondo: l’espiazione. Tu, unito a Cristo, porti i peccati degli altri su di te. Come attraverso l’espiazione dei nostri peccati vissuta da Cristo, siamo diventati giustizia di Dio, così anche noi, pagando i peccati degli altri, diventiamo giustizia di Dio”.