Gesù: Parola fatta di Carne

Le prime buone notizie del Natale

Messaggio per il Natale 2010

Stupiti dal mistero. Sorpresi dalla gioia. Se la Messa di mezzanotte e quella dell’aurora ci hanno riportato l’evento del Natale – la nascita da Maria Vergine, il canto degli angeli, la visita dei pastori – questa del giorno ci butta in ginocchio per farci contemplare il mistero. Il piccolo di Maria, neonato fragile e nudo, è il Figlio di Dio; è la sua Parola fatta carne; la piena e perfetta rivelazione del Padre. Mistero sorprendente e paradossale: la parola di Dio si manifesta in un bambino che non può parlare. Ma si sa: Dio è fatto così! non parla con formule, ma con fatti, e – come avviene appunto a Natale – parla con avvimenti-fatti ‘da Parola incarnata’, e il suo primo vagito dice infinitamente ed efficacemente molto di più di qualunque parola umana. Abbiamo ascoltato l’attacco solenne della Lettera agli Ebrei:

“Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per          mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del          Figlio” (Ebr 1,1-2).

1. Il primo vangelo, quello di Matteo, iniziava con un albero genealogico, una interminabile, monotona litania di nomi per redigere il certificato anagrafico di Gesù, “figlio di Davide, figlio di Abramo”. Il vangelo secondo Marco cominciava con un grido: era la voce aspra e rovente del Battista che chiamava la gente a conversione. Quello di Luca con una dedica – al nobile Teofilo – e con un racconto: l’annuncio e la nascita del Precursore. Giovanni – l’evangelista “che sovra li altri com’aquila vola” (Dante) – preferisce cominciare con un prologo: “l’altissimo canto” (Id.), l’inno al Verbo incarnato. “In principio era il Verbo / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio”.

Il centro incandescente del mistero è fissato in quella mezza riga: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.  Il contrasto con l’incipit del brano non poteva essere più netto, ma viene superato nell’incarnazione. Là, nel versetto iniziale, l’evangelista affermava solennemente che il Verbo era in una esistenza divina, inalterabile e imperturbabile, senza inizio né successione, senza ruderi del tempo né rughe di cambiamenti, senza le cicatrici di cadute o risalite. Qui si dichiara che il Verbo si fece carne: si fece, cioè ha assunto una esistenza storica, in divenire, carica di debolezza, e perciò esposta e vulnerabile. Là il Verbo era presso Dio, qui è in mezzo a noi. Là il Verbo esisteva come Dio, qui come carne. ‘Carne’ significa più del semplice assumere la natura umana, e non solo perché sottolinea energicamente la visibilità e la concretezza dell’umanità assunta, ma perché evoca quella sfera di fragilità e di normale ferialità, entro la quale si svolge l’esistenza degli umani. ‘Carne’ dice tutta la distanza fra l’uomo e Dio che in Gesù viene colmata. ‘Carne’ declina l’umanità di Gesù: il suo essere generato, il suo crescere, sudare, piangere, sorridere, stancarsi, rattristarsi, morire.

Questo vangelo dell’incarnazione contiene un massimo di buone notizie. Decliniamone alcune, almeno quelle più cariche di senso per noi.

Dio è vicino: prima buona notizia. Il grande Pellegrino ha macinato secoli e millenni di distanza, si è avvicinato a grandi passi, e Colui che doveva venire è finalmente arrivato: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Ma fosse toccato a noi programmargli il protocollo della visita, lo avremmo sontuosamente agghindato come un magnifico imperatore con tanto di corte al seguito. O lo avremmo armato di tutto punto, come un generale altero, con scorta di ‘gorilla’ e guardie del corpo. O forse lo avremmo vagheggiato nei panni di un cattedratico impettito o di un pio guru che viene a somministrare ai poveri mortali dosi preconfezionate di idee brillanti, di nobili principi e sagge regole di vita. E invece Dio è fatto così: prima di accasarsi tra di noi, si spoglia di tutti i privilegi, si svuota completamente della ‘gloria’, e riparte da zero. Non viene con i segni del potere, si presenta con il potere dei segni: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. L’ha detto l’angelo ai pastori, quella notte, nella campagna di Betlemme di Giudea. Ricordiamo un altro antico inno che circolava nelle prime comunità cristiane: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio / non ritenne un privilegio l’essere come Dio / ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo / diventando simile agli uomini” (Fil 2,5-7).

Ecco come è fatto Dio: in quel quasi-niente del piccolo di Maria, Dio c’è tutto, e in quel frammento di carne si racconta a tutto tondo. Dio è qui: respira in Gesù, guarda e piange con gli occhi di Gesù, lavora e accarezza con le mani incallite del falegname di Nazaret, mangia parla ride sorride con la sua bocca. La conseguenza è lampante: l’appuntamento con Dio ormai si compie nell’incontro con Gesù. Il Verbo della vita, che era da principio, noi lo abbiamo veduto con i nostri occhi, udito con i nostri orecchi, lo abbiamo palpato con le nostre mani, abbracciato con la passione e la tenerezza delle nostre braccia (cfr 1Gv 1,1ss). Sì, nel piccolo di Maria Dio Padre ci ha abbracciato, e ormai non ci libereremo più dalla sua stretta.

2. Ancora: il Verbo della vita ci ha dato il potere di diventare figli di Dio: seconda buona notizia. Lo stesso evangelista nella prima delle sue lettere la formula così: “Guardate quale amore ci ha dato il Padre: ci chiama figli di Dio e lo siamo davvero” (1Gv 3,1). C’è una nota di lieto stupore, quasi di incredula sorpresa, nelle parole dell’apostolo. Quanto sta dicendo è così importante che sente il bisogno di attirare la nostra attenzione: Guardate. L’amore di Dio è tanto grande da sorprenderci: nessuno avrebbe potuto immaginarlo così tridimensionale, con tanta larghezza, altezza e spessore, se non ci fosse stato rivelato. Essere figli di Dio non è un semplice modo di dire, non è una tenera metafora, ma una condizione reale e concreta da prendersi alla lettera: e lo siamo davvero. Basta questa breve affermazione di Giovanni per farci comprendere che – di fronte alla rivelazione del Padre che Gesù ci ha consegnato – la prima reazione non può che essere lo stupore. Dio prima è Padre, e poi creatore: non aveva bisogno di noi per esprimere la sua paternità, e tuttavia ci ha fatti suoi figli. Sorpresi dalla gioia: lo stupore di scorgere che all’origine di ciascuno di noi non c’è il caso o la necessità, ma l’amore più libero, benevolo, gratuito, e che, alla fine della nostra vita, non ci si spalanca davanti la voragine del nulla, ma ci si imbatte in un incontro: lo vedremo come egli è (1Gv 3,2). Alla fine c’è la non-fine, un bene grande, un caldo abbraccio: “Venite, benedetti del Padre mio”.

E’ questo il mistero del Natale: io, tu, lui, lei, noi tutti, individui comici e tragici, argilla impastata di miseria e assetata di infinito, ciascuno di noi è un essere unico – amato in modo unico, incredibile, inaudito – da Cristo, l’amore del Padre fatto carne e sangue per la vita del mondo.

3. Ma se sono vere le prime due buone notizie – che il Verbo si è fatto carne e che ci ha dato il potere di diventare figli di Dio – allora cambia tutto: ecco la terza buona notizia.

Con Cristo cambia la vita. Ciò che converte il freddo in caldo è la vicinanza del fuoco: “Stare vicino a me – dice Gesù – nel Vangelo apocrifo di Tommaso – è stare vicino al fuoco”. Essere suoi discepoli non vuol dire osservare una sfilza di precetti: questo viene dopo. E non vuol dire nemmeno partecipare a riti e culti vari: anche questo viene dopo. Essere cristiani vuol dire bruciare nel fuoco del vangelo tutti gli egoismi, tutte le avidità e le sciocche vanità che ci seducono il cuore.

Cambia la preghiera. Questo Bambino, che ci dà di poter diventare figli di Dio, ci spiazza con l’imprevedibile sorpresa di poter pregare con la stessa semplicità e la medesima tenerezza del Figlio di Dio, addirittura con la stessa parola e con lo stesso fiotto di abbandono con cui si rivolgeva al Padre nel segreto della sua personale, intima preghiera: Abbà, che significa ‘Babbo’. “Che voi siete figli – dichiara s. Paolo ai Galati – ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre” (Gal 4,6).

Cambia la missione. Il Verbo fatto carne, che viene in mezzo a noi, senza suonare né trombe né campane, senza chiamare telecamere, senza pretendere le prime pagine dei giornali, ci ricorda che missione non è fare propaganda, né fare colpo: è fare mistero. Non è uno sfacchinare per Cristo, ma è collaborare con lui, è vivere per Cristo, con Cristo, in Cristo.

Cambia il lavoro. Tenere gli occhi fissi sul Bambino di Betlemme non distrae dalla vita e dai suoi molti impegni. Non allontana dal reale, ma lo illumina e lo riscalda . Un vita vissuta senza stupore sarebbe in-sensata, incolore e insapore. E’ lo stupore che rende l’impegno convinto, generoso, appassionato e, perché no? sereno e caloroso.

Cambia la festa e il riposo. Festa e riposo non servono semplicemente a ‘scaricare lo stress’ accumulato e a ‘ricaricare le batterie’ per ricominciare a lavorare, per poi consumare, e poi tornare a stressarsi di nuovo, ma servono a liberarsi dall’ansia di produrre e dall’avidità di possedere. E aiutano a ritrovare la bellezza del vivere e a celebrare la gioia del condividere la benevola vicinanza dell’Emmanuele, il Dio-con-noi.

Cambia il dolore. Nel piccolo di Betlemme, Il Verbo della vita “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cfr 2Cor 8,9). Gesù è il Dio che non scende sulla terra a tenere una cattedra di filosofia e di etica del dolore, ma si incarna per condividerlo. Gesù è il Figlio del Padre che si è immerso nell’abisso del male, per salvare ogni povero naufrago sommerso dalla morte, perché solo un Salvatore riemerso dalla morte ci può far risorgere nella sua Pasqua. Per quanto noi cadiamo in basso, schiacciati dal peso della nostra fragilità, al di sotto di tutti ormai c’è Lui, che si è calato nel nostro inferno, sempre pronto a raccoglierci per non farci sfracellare sul fondo del baratro.

Cambia l’economia e la politica. Mettere Cristo al centro anche della attività economica e dell’azione politica non è una clericale invasione di campo, perché significa mettere al centro l’uomo. E mettere al centro l’uomo significa che l’uomo viene prima del lavoro e il lavoro viene prima del capitale. Significa che anche il mercato ha bisogno di essere finalizzato all’uomo. Mettere l’uomo al centro significa che la politica non può pendolare tra individualismo e collettivismo, non può risolversi in una mera gestione del potere, né può permettere che si incancreniscano  situazioni di ingiustizia per paura di contraddire i poteri forti. Un’azione politica condotta da cristiani veicola in permanenza il messaggio che “ogni uomo è mio fratello”. Pertanto a Natale non si deve dimenticare che la dialettica, anche aspra, delle posizioni tra avversari non può mai degenerare nella cannibalizzazione reciproca, tra nemici.

E’ vero: con Cristo o senza Cristo cambia tutto. Ma perché cambi tutto, perché cambi il mondo, dobbiamo – e per grazia, possiamo! – cambiare il cuore, per poter cambiare la vita. Preghiamo allora il divino-umanissimo Verbo della vita con una luminosa preghiera del Natale:

Padre Santo, il Salvatore che tu hai mandato,

luce nuova all’orizzonte del mondo,

sorga ancora e risplenda su tutta la nostra vita.

Amen. Così sia. Che sia veramente così il nostro Natale!

+ Francesco Lambiasi