E’ Pasqua: dunque parliamo di… morte!

Omelia Messa del Giorno – Pasqua 2008

E’ Pasqua: storia sorprendente di risurrezione, annuncio di vita intramontabile; sarebbe logico parlare di risurrezione e di vita. E i cristiani lo fanno da duemila anni, ma come s. Paolo: senza bypassare il discorso della morte. L’Apostolo usa l’immagine quanto mai azzeccata della morte come pungiglione, che inietta il suo veleno letale e devastante, ma la metafora viene da lui giocata all’interno di una sorta di grido di trionfo: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione?” (1Cor 15,55). Infatti, poco prima ne aveva parlato come dell’ultimo nemico da debellare.

Oggi, nella cultura del presente, del “mordi e fuggi”, non c’è voglia di parlare di morte. Se ci provi, fai la figura dell’ammorbante o, peggio, del guastafeste. Parlare di morte non è né gradevole né politically correct. Non è il caso neanche di accennarvi né con bambini né con giovani. Il motivo vero è che un tema così ostico e antipatico mette in crisi gli adulti: cosa gli dici? In un sapiente film del regista polacco Kyslowskj, al figlioletto che lo interroga sul perché si muore, il padre taglia corto: “Troppo presto, caro, rimandiamo”. E’ sempre troppo presto per parlarne. Eppure è stato calcolato che per ogni ora di televisione vediamo almeno due morti, ammazzati…

1. Quando si rileggono certe pagine della letteratura mondiale pre-cristiana, c’è da domandarsi se oggi non siamo piombati in una cultura post-cristiana, dove cioè non è più la visione cristiana della morte a fare la differenza. Sembra che parlare di morte sia del tutto impossibile oppure completamente inutile: o l’hai già sperimentata, e allora non ne puoi più parlare; o non l’hai ancora sperimentata, e allora non ne puoi ancora parlare…

Così non resta che affidarsi al rimpianto nostalgico del tempo trascorso troppo in fretta, secondo l’efficace immagine delle foglie caduche, quale si trova già nell’Iliade di Omero:

“Come le stirpi delle foglie, così quelle degli uomini;

le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva

fiorente le nutre al tempo di primavera;

così le stirpi degli uomini: una ne nasce, l’altra dilegua” (6,146-149).

Davvero – come dirà Ungaretti – “si sta, come d’autunno, sugli alberi le foglie”.

Le cose non cambiano neanche in altre culture. In India il Buddha culmina i tre incontri decisivi della sua vita – dopo quelli con un vecchio e un malato – appunto con un morto, in base al quale riceve l’illuminazione: “l’impermanenza pervade ogni cosa”.

Ma già mille anni prima di Omero, un antico e famoso poema babilonese, noto come Epopea di Ghilgamesh, proponeva un’ampia, acuta riflessione sulla morte. L’eroe protagonista, dopo la scomparsa del suo più caro amico Enkidu, si pone in cammino alla ricerca dell’immortalità per se stessa. Ma un paio di saggi, tra cui un’ostessa, sentenziano l’inutilità di questa fatica:

“Perché vai errando, / o Ghilgamesh? / La vita senza fine, che tu cerchi, /

non la troverai mai! / Quando gli dèi / hanno creato gli uomini, /

hanno assegnato loro / la morte / riservando l’immortalità / solo a se stessi”.

Dopo quattromila anni, chi mai si sentirebbe di considerare errate queste affermazioni? Sul piano dell’esperienza, tutto è ancora come allora! Aveva ragione dunque Lorenzo dei Medici: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia. Chi vuol essere lieto sia, di doman non v’è certezza”.

Gira e rigira, sembra fatale ritornare sempre al punto e daccapo: parlare di morte o è impossibile o è inutile, a meno che…

2. A meno che non ci sia qualcuno che è tornato vivo dal mondo dei morti. La fede cristiana osa affermare che quel Qualcuno c’è: è lui, Gesù di Nazaret, crocifisso, morto sepolto, e risorto per non morire più.

L’esistenza umana sarebbe assurda se la morte fosse quello che sembra: una fine senza niente più, una partenza senza arrivo, la rottura di ogni rapporto senza possibilità alcuna di ricucitura.

In verità, alla luce della Pasqua, la morte è l’esatto contrario di ciò che appare. Nella primavera del mondo nuovo, dischiuso dalla risurrezione di Cristo, il volto della temibile, implacabile falciatrice non ha più il ghigno beffardo de L’ultimo sigillo, il celebre film di Bergman. Dal giorno di Pasqua la morte si è messa a sorridere, al punto da affascinare l’Apostolo (cfr Fil 1,21-23: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno…”). L’ultimo nemico si è tramutato in amico. La morte è diventata talmente il contrario di ciò che appare che Ignazio di Antiochia le dà il nome di vita, mentre alla vita terrena dà il nome di morte: “Non impeditemi di vivere (ossia di morire), non  lasciate che io muoia (cioè che resti in vita)” (Rom 6,2).

Apparentemente la morte è la fine di una vita; in Gesù è la nascita, il mistero filiale reso manifesto. In effetti il versetto del salmo 2: “Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato”, che sembrerebbe più appropriato per il Natale, viene da Paolo citato nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia, a proposito della Pasqua (cfr At 13,13). Gesù raggiunge il momento della sua nascita eterna con la risurrezione. Si disvela così il mistero: Dio crea gli uomini a partire dal Cristo morto e risorto: li crea in vista di un morire insieme a lui, al fine di condurli alla pienezza filiale.

Aveva ragione Ignazio di Antiochia, alludendo al suo martirio imminente: “Si avvicina il mio parto” (Rom 6,2). Aveva ragione Teresa di Lisieux, quando qualche giorno prima di morire, osava affermare: “Non muoio, anzi entro nella vita”. Come Cristo giunge nella Pasqua alla sua vita piena, così avviene per il cristiano: la morte diventa il suo dies natalis. Non è allora vero, non può essere più vero quanto affermava il filosofo: “l’uomo è un essere-per-la-morte” (Heidegger).

3. Nella nostra cultura secolarizzata, alla ripaganizzazione strisciante dell’idea della morte, occorre da parte dei cristiani una reazione uguale e contraria: è urgente rievangelizzare la morte. Questo non avviene con crociate e proclami. Avviene con fatti di vangelo, con coerenti e concrete esperienze di vita e di… morte cristiana. Occorrono precisamente dei cristiani che mostrino che i cristiani sanno morire. Perché la fede non solo cambia la vita, ma cambia anche la morte: da destino fatale e irreparabile, da mostro ripugnante, ne fa una sorella buona e cara, la “sora nostra morte corporale”, come la chiamò Francesco d’Assisi al momento di iniziare il suo “santo viaggio”, in uno dei vespri più dolci della storia, quel sabato sera del 3 ottobre 1226.

La certezza che la Pasqua di Gesù fa diventare anche la nostra morte il passaggio pasquale dal venerdì santo al sabato senza tramonto, ci spinge a fare nostra la preghiera di Ignazio di Lodola: “Nell’ora della mia morte chiamami. E comandami di venire a te, a lodarti nei secoli dei secoli”. Amen. Alleluia!