Omelia per la professione perpetua di suor Valentina Di Geronimo e suor Caterina Capelli nella Congregazione delle Suore Missionarie Francescane

Credere è amare. E amare è servire

“Se aveste fede!”. Quel giorno Gesù si lasciò andare a un sospiro accorato e struggente. Poco prima aveva avanzato ai discepoli una richiesta umanamente impraticabile: perdonare fino a sette volte al giorno. A quel punto scocca trafelata e spontanea la preghiera degli apostoli: “Signore, accresci in noi la fede!”. E’ la richiesta sconsolata e incalzante di un supplemento di fede. Ma no, dice Gesù. Non è questione di quantità: ne basterebbe appena un granellino di fede, minuscolo quanto un chicco di senape, e si riuscirebbe a sradicare perfino un grande gelso o addirittura un gigantesco sicomoro e a farlo volare in mare. Arduo, complicato, difficile? Ma no, replica Gesù: tutto facile, proprio perché impossibile, poiché tutto è possibile e facile a chi crede.

1. Oggi la liturgia picchia forte sul messaggio della fede. Abbiamo ascoltato nella I lettura il profeta Abacuc: “Il giusto per la sua fede vivrà”. Un frase bidirezionale, che si potrebbe rendere anche così: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). La fede – ci ha ricordato Paolo a Timoteo nella II lettura (2Tm 1,6-8.13-14) – è un dono stupefacente: immenso, decisivo, di incalcolabile valore. Siamo chiamati a “ravvivarlo” quotidianamente, per “dare testimonianza” e “custodirne il buon deposito”, lungo il trasmigrare dei tempi.

Ma ora urge porci la domanda: cosa è fede? Vediamo innanzitutto cosa non è.
Non è la fede intellettualistica. Per cui credere sarebbe un esercizio della ‘scatola cranica’, con cui accettiamo per vere una serie di idee su Dio, su Cristo, sulla Chiesa, sulla persona umana o sulla storia. E basta.
Non è la fede sentimentalistica. Per cui credere sarebbe il provare una vaga emozione, percepire una sorta di brivido a pelle, sperimentare un impulso a intenerirsi e commuoversi. E basta.
Non è la fede magica. Per cui credere sarebbe quell’atteggiamento che di fronte alla minaccia, allo spavento, al profilarsi di situazioni terribili e catastrofiche compie gesti nei quali si manifesta un potere che assicuri risultati appaganti, che rassicuri da rischi paurosi, che scongiuri  pericoli angoscianti, che contrasti influssi funesti e malefici.
Non è la fede pagana. Per cui la relazione con Dio sarebbe improntata a un rigido contratto con un padrone, il quale, in cambio di alcune prestazioni, garantirebbe protezione, efficienza, salvezza. La fede pagana interpreta l’alleanza come un contraccambio fiscale, una partita doppia di dare e avere: le buone opere come pure i sacrifici cultuali e comportamentali, nonché digiuni, rinunce e penitenze sono le prestazioni che il popolo è obbligato ad assicurare a Dio, mentre successi, premi e vittorie sono quanto Dio è in dovere di procurare e garantire.

La fede cristiana è l’atteggiamento della persona che non è ispirato dalle sue paure (vedi la fede magica) né motivato dalle sue presunzioni (vedi la fede pagana). Credere – nel senso autentico della fede cristiana – è aprirsi, uscire da se stessi, decentrarsi. E’ fidarsi e affidarsi. E’ consegnarsi a Dio liberamente e totalmente. In una parola credere è amare.

2. Credere è amare. E’ riconoscere, accogliere, abbracciare la volontà di Dio ‘scegliendola’, anche quando non la si comprende. Nella fiducia che ci consegna al Padre. Allora tutto diventa possibile. Anche la vita cristiana. E’ questo, forse, il grande miracolo della fede: il prodigio che sradica il gelso e lo trapianta in mare, e sposta le montagne. E’ il miracolo di farci capaci di amare. La fede e l’amore vanno a braccetto: si intrecciano, si provocano, si motivano, si generano a vicenda. E se basta un granellino di senapa di fede per rendere possibile l’amore, forse una briciola di amore si rende capace di illuminare di fede la vita.

Credere è amare. Un amore, quello della vita consacrata, ‘a cinque stelle’. Anzitutto la gratuità. Non si sceglie la verginità o il celibato per non impegnarsi in una vita di coppia o per sottrarsi alle responsabilità di una famiglia. Ma per amare più intensamente Dio e gli umani. Per dare un segno che, anche senza una persona che risponda al tuo amore, è possibile amare, dando e trovando gioia. Che si può riempire una vita prendendosi cura di chi semplicemente ha bisogno, anche se non ha legami di sangue o di affetto con te.

La seconda nota è la fedeltà. Non si resta celibi o vergini per non legarsi a nessuno, per chiudersi nella bolla del proprio individualismo, ma per lasciarsi afferrare dall’amore di Dio e legarsi a filo doppio con la storia degli uomini. Per essere un segno della cura che Dio ha per ogni uomo, perché nessuno vada perduto (Gv 6,39).

La terza nota dell’amore consacrato è la fecondità. La capacità generatrice della sessualità non è l’unica fecondità. Ma se l’amore di chi vive da vergine non suscita vita e non si prende cura della vita altrui, soprattutto di chi è il più piccolo e il più indifeso, non è immagine trasparente e credibile dell’amore divino.

La quarta nota è l’accoglienza. Anche coloro  che scelgono la clausura, non si chiudono nel monastero per pensare solo alla propria anima, ma, al contrario, per abbracciare tutto il mondo con la loro intercessione, sbarrando la porta ad ogni ringraziamento e ad ogni ricompensa da parte di qualcuno, per mantenersi aperti a tutti, a 360 gradi. “Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore”, ha scritto la santa di oggi, santa Teresa di Gesù Bambino, missionaria dalla propria clausura.

3. La quinta nota dell’amore consacrato è il servizio. A conclusione del vangelo di oggi troviamo delle parole tra le più crude e spiazzanti di tutto il Vangelo: “Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Ma, attenzione, chiariamo subito. “Servi inutili”, non significa “servi che non servono a niente”; ma piuttosto che sono letteralmente ‘in-utili’, cioè non cercano il proprio utile, non avanzano rivendicazioni o risarcimenti, non reclamano né medaglie sonanti né laute ricompense. Sono semplicemente servi, e basta. Gli basta servire, senza se e senza ma. La loro ricompensa è la stessa gratuità, spiegata nel servizio. Punto.

Ma qui, senza mettermi ora a fare l’elogio della gratuità e del servizio, penso basti una testimonianza, quella di una certa suor Teresilla Barillà, denominata “la suora degli anni di piombo”, travolta da un incidente stradale nella notte del 23 ottobre 2005, durante il tradizionale pellegrinaggio notturno al santuario della Madonna del Divino Amore:
A chi mi chiede come vedo me stessa, mi piace rispondere così. Nei bagni pubblici ci sono quei grandi asciugamani. Ecco vorrei essere come un grande asciugamano in cui possano asciugarsi la faccia, il povero, il peccatore, la prostituta, il carcerato. Perché possano ritrovarsela più pulita. E poi, quando questo straccio non servirà più a nulla, lo si butti pure via. Lo raccoglierà, finalmente, Dio”.

Carissime Suor Valentina e Suor Caterina, questo sì che è servizio profumato di limpida gratuità!
E che in questa gratuità voi possiate trovare la vostra esuberante, perfetta letizia!

Rimini, Basilica Cattedrale, 1 ottobre 2020

+ Francesco Lambiasi

01/10/2022