Vergini consacrate: donne innamorate e felici

Omelia del Vescovo per la consacrazione nell’Ordo Virginum di Gennj Fabbrucci

A chi comincia a sfogliare i vangeli non può sfuggire un dato inoppugnabile e sorprendente: la prima parola rivolta da Gesù alle folle è un grido a gola spiegata: “Beati! Beati! Beati!”. E’ una proclamazione straripante di gioia e la più vertiginosa promessa di felicità che si possa indirizzare a poveri, oppressi, emarginati, afflitti, perseguitati. Ora, poiché “la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola, raggiunge, nel dono di sé, la vera felicità” (Francesco, Rall. Esult. 64), il vangelo delle beatitudini ci fa scoprire che la santità è l’altra faccia della felicità. Ma stasera il Signore Gesù ci vuole consegnare una terza parola che fa rima baciata con il binomio santità-felicità. E’ una parola tenera e ardente: verginità. Una parola alta e candida come una vetta alpina, ammantata di neve e dolcemente accarezzata dal sole. Una parola limpida e tersa come acqua di sorgente.

Nel rito di consacrazione c’è un passaggio che merita di essere ripreso: le vergini vengono descritte come coloro che “pur rinunciando al matrimonio aspirano a possedere nell’intimo la realtà del mistero”. Interpreto così: l’amore cristiano ha in fondo le stesse, identiche note, sia l’amore che fa avvampare la vita di due sposi, sia quello che fa ardere il cuore di una donna vergine. E’ sempre e inconfondibilmente amore per Cristo e, con Cristo, per i fratelli, a cominciare dai poveri. La differenza – per restare in metafora – è data dalla diversità della chiave musicale introdotta nello spartito, prima del pentagramma.

La prima nota del cantus firmus della verginità è la gratuità. Come l’amore degli sposi, anche la verginità consacrata è un amore del tutto gratuito. Una donna cristiana non sceglie la verginità per non impegnarsi in una vita di coppia o per sottrarsi alla responsabilità dei figli. La verginità si sceglie per amare più intensamente Dio e i fratelli. Per dare un segno che, anche senza una persona che risponda al tuo amore, è bello e possibile amare dando e trovando gioia. E’ bello e possibile riempire una vita prendendosi cura di chi semplicemente ha bisogno, anche se non ha legami di sangue né di affetti con te. Per dire con la vita che Gesù è morto per amore e che vive e ci ama personalmente, disinteressatamente, irreversibilmente. L’amore verginale è gratuito.

La seconda nota è la fedeltà. Non si sceglie la verginità per non legarsi a nessuno, per rannicchiarsi nel proprio io autoreferenziale e autosufficiente. Ma per lasciarsi afferrare dall’amore di Dio e legarsi a filo doppio con la storia dei fratelli e delle sorelle. Quanti, magari senza saperlo, sono alla ricerca di Dio in ogni amore, hanno bisogno di incontrare sulla loro strada qualcuno che sia annuncio vivente dell’amore instancabile e assoluto di Dio, un segno della cura e della premura che Dio ha per ogni suo figlio, per ogni sua figlia. L’amore verginale è fedele.

La terza nota della verginità è la fecondità. E’ una fecondità diversa da quella del concepire un figlio. Ma se l’amore della vergine non suscitasse vita e non se ne prendesse cura, non sarebbe immagine dell’amore divino. La capacità generatrice della sessualità non è l’unica fecondità. E, come la sessualità, non traduce l’amore divino quando a priori esclude la fecondità e non si apre alla vita, così la verginità consacrata, senza fecondità spirituale, senza cura della vita altrui più che della propria, sarebbe esclusione egoista dell’appello a generare vita che il nostro essere sessuati tangibilmente esprime. L’amore verginale è fecondo. E’ ‘generoso’ e ‘generativo’.

La quarta nota è la tenerezza. E’ la tenerezza di quanti, strappati alla durezza del cuore, non usano mai il linguaggio inquinato dalla gelosia o dall’invidia. Tenerezza è la mitezza della non-violenza, che non brama vendette, non progetta rivalse, ma scusa e perdona sempre. Perché senza perdono, l’amore si eclissa, la fraternità si appanna, la comunione si frantuma. L’amore vero non calcola mai quanto dà e quanto riceve. E comunque “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”: parola di Gesù (At 20,35). L’amore verginale è tenero, non tenerone.

La quinta nota della verginità è la bellezza. Ossessionati dall’immagine del nostro corpo, delle sue misure, del suo peso, del suo aspetto esteriore, ci dimentichiamo l’essenziale: è un corpo chiamato a partecipare alla gloria di Dio, trasformato da ogni sentimento di gratuità e gesto di gratitudine. Così possiamo guardare a un corpo bello non con l’occhio vorace del predatore, ma con uno sguardo limpido come una goccia di rugiada. Dire grazie a Dio per la bellezza che brilla attorno a noi è il modo più bello di stare al mondo. L’amore verginale è radioso e raggiante.

La sesta nota è la purezza. Quella di chi ha imparato a dire non : “Ti amo perché ho bisogno di te”, ma piuttosto: “Ho bisogno di te perché ti amo”. E’ rispettare il proprio e l’altrui corpo come la tenda dove Dio può sentirsi a suo agio. L’amore umano è vero quando viene donato senza secondi fini, senza smaniose attese di ‘rendita’. Perché l’altra o l’altro risulta amabile per quello che è, non per quanto mi può restituire e ‘fruttare’. L’amore verginale non è conquista predatoria e voglioso sfruttamento. Non è mai torbido, morboso, ma sempre trasparente, cristallino.

L’ultima nota è la fortezza. E’ scrivere sulla roccia il bene che si riceve, e sulla sabbia il bene che si fa. E’ la fortezza di sentirsi sempre abbastanza ricchi per poter dare e abbastanza poveri per dover ricevere. E’ non trattare mai nessuno come oggetto di consumo, come cosa usa e getta, come un chewing-gum, che più si mastica e più perde sapore. E’ accettare di soffrire pur di non far soffrire gli altri. E’ ricordare sempre che la nostra debolezza non è la misura del bene e del male. E che l’amore esiste per mostrare quanto sia forte la nostra capacità di alleviare il dolore degli altri. L’amore verginale non è mai duro e rigido, ma neanche dolciastro. E’ forte, tenace e audace.

Cara Gennj, l’altro ieri mentre eri in ritiro presso le Clarisse di Urbania, mi hai scritto: “Mi sono presa due giorni di ritiro per stare un po’ con Gesù”. Questa frase semplicissima mi ha regalato una fessura di luce sul tuo buon cuore. Con quelle tre parole – “stare con Gesù” – hai centrato in modo folgorante il senso della tua consacrazione nell’Ordo Virginum: “essere con Cristo”. Come a dire: l’essere consacrata non è qualcosa che si esaurisca in uno slancio iniziale. Piuttosto suppone con Gesù che ti consacra a sé una connessione costante e come una misteriosa compenetrazione che non può subire alcun calo di tensione in nessun tratto del tuo cammino.

La conseguenza è inesorabile e beatificante: tu sarai tanto più ‘mandata’ in missione nel mondo quanto più sarai unita al Maestro e Pastore della tua vita. Diglielo ogni giorno del tuo pellegrinaggio verso la casa del Padre: “Fa’, o dolcissimo Gesù, che io non mi separi mai da te”. Mai e poi mai.

E sarai una donna innamorata e felice.

Sempre più innamorata e sempre più felice.

Rimini, Basilica Cattedrale, 1 novembre 2018

+ Francesco Lambiasi