Una scuola che educa

All’essere-da, all’essere-con, all’essere-per

Omelia per la Messa con la scuola sul vangelo di Gv 14,23-28

Si può smontare un brano di vangelo come quello di oggi (Gv 14,23-28) in una serie di messaggini? Io ci ho provato, ed ecco il risultato. Primo sms: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, dice Gesù. A Gesù non basta essere ascoltato, e neanche solo essere seguito. Gesù chiede di essere amato. Il sentimento più coinvolgente e travolgente provato dagli umani sotto il cielo: l’amore. Ma cosa significa amare Gesù? Significa provare un brivido a pelle davanti a un bel crocifisso? Significa dare un euro a un poveretto? Significa fare una preghiera perché mi faccia andar bene un compito in classe? No. Ecco allora un secondo sms: “Amare Gesù comincia con il lasciarsi amare da lui”. L’amicizia con Gesù non si conquista, non si acquista. Si accoglie, si ospita. Terzo sms: “Vi lascio la mia pace”. Gesù non vuole per noi né pena, né ansia, né angoscia. Ma non vuole neanche la falsa pace di una vita quieta e spenta. Una vita senza cuore. Per noi Gesù vuole una pace a “tre b”: bella buona, beata.

1. Ma ora mi chiedo: una scuola che voglia davvero educare, a che cosa deve educare? Fondamentalmente a tre coordinate principali.
La prima è educare alla cura dell’origine, all’essere-da, per imparare ad essere figli. Nessuno di noi qui dentro, ma neanche fuori di qui, può dire: “Io sono il padre del mio Io”. Nessuna società può dire: “Noi siamo i progenitori del nostro Noi”. Purtroppo invece nella nostra società ognuno vive il proprio segmento di presente come se fosse l’unica cosa che conta. Si chiede al sistema di istruzione di essere adeguato alle richieste del mercato del lavoro, di insegnare materie ‘attuali’, “che possano servire”, e ci si meraviglia che tanta parte dei programmi sia dedicata a “cose morte e sepolte”. Questo perché si crede che il primo problema di una società sia di produrre di più. E non si capisce che, se non si riesce a salvaguardarne l’identità, una comunità precipita nel caos e neppure la produzione può più andare avanti. Ma l’identità deriva dalla tradizione. Un grande musicista diceva: “Tradizione non è trasmettere la cenere del passato, è consegnare il fuoco del futuro” (G. Mahler). E un autore medievale della scuola di Chartres affermava: “Noi siamo come dei nani sulle spalle di giganti”. L’istituzione espressamente deputata dalla società a consentire una riappropriazione vitale, critica e creativa della tradizione culturale da parte delle nuove generazioni è la scuola.

2. Una seconda coordinata educativa della scuola è educare all’essere-con, alla cura dell’altro, per imparare a diventare fratelli. Tutti. Viviamo in una società contagiata dal virus del narcisismo. Il cuore di questa pedagogia inquinata riguarda la libertà. Si sogna, si tenta, si smania per la libertà dagli Ma questa è solo una faccia della libertà, che consiste nel non essere invasi da altri individui, a patto che non li invadiamo noi stessi a nostra volta. E’ una libertà identificata unilateralmente con l’autonomia, lasciando sistematicamente nell’ombra quell’altro suo aspetto fondamentale, per cui essa è anche responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. In questo caso noi siamo liberi solo se lo siamo con loro. La scuola ci deve e ci può aiutare a scoprire che l’individualismo non è cattivo: è semplicemente falso. La scuola ci può e ci deve aiutare a ricordare sempre che una libertà senza autonomia, è schiavitù, non è libertà. E un’autonomia senza responsabilità non è libertà: è arbitrio.

3. La terza coordinata della scuola è l’educazione all’essere-per, alla cura del senso. La vicenda della scuola in questo ultimo cinquantennio ha registrato il passaggio da una estrema rigidezza ad una altrettanto estrema frammentazione. L’idea che “ognuno ha la sua verità” è diventata la sola certezza comune a famiglie, docenti e alunni e ha aperto la strada a una varietà indefinita di punti di vista soggettivi, tutti ugualmente validi, in quanto esprimono le esigenze individuali di ciascuno, incomparabili con quelle di chiunque altro. La scuola si è così trasformata in un grande supermarket, in cui ognuno va a cercare le singole ‘cose’, funzionali al proprio progetto individuale di autorealizzazione, secondo i canoni della società consumistica, e i cui ‘commessi’ – i docenti – non hanno se non il compito di dare istruzioni per l’uso degli strumenti, lasciando la questione dei fini ai loro ‘clienti’, gli alunni. Alcuni anni fa un filosofo, a chi gli chiedeva quali direzioni, nel nostro tempo, la filosofia additi ai giovani, si diceva convinto che oggi essa “non possa né debba insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte” (G. Vattimo). Ma ci basta ridurci a vagabondi quando sappiamo di essere stati chiamati alla vita per essere dei pellegrini? E vale la pena educare, e a che cosa, se non ci sono più mete, bensì solo una fine e non più dei fini? Se non c’è più un orizzonte di valori condivisi da comunicare? Se non c’è un senso – come significato e come direzione – da dare al nostro umano cammino?

Infine tre auguri in uno: a studenti, docenti, genitori. Riportate nelle vostre classi la vita – il respiro, la saliva, il sudore (Covid a parte, per carità!) – riportate tutto, letteralmente tutto quello che la nostra magnifica e drammatica esistenza vi offre.

Tutto quello che la nostra precaria e meravigliosa vita ci regala.

Rimini, Basilica Cattedrale, 21 ottobre 2020

 + Francesco Lambiasi