Una luce nella notte

Se ritroviamo il Bambino, veniamo a sapere che…
Omelia del Vescovo alla Messa della Notte di Natale – Rimini, Cattedrale, 25 dicembre 2010

Abbiamo ascoltato, e alle nostre orecchie assuefatte al linguaggio asciutto dei comunicati stampa, il messaggio è risuonato come una sorta di scarno dispaccio di agenzia. Riascoltiamolo: quando “si compirono per lei (Maria) i giorni del parto, diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”. In questa dozzina di parole ci è stata consegnata la più strabiliante delle news di tutti i tempi, di quelle da non credere. Non possiamo dimenticarlo: il piccolo Bambino della vergine Maria fa da grande muraglia che spezza in due tronconi il fronte della storia: prima di Cristo – dopo Cristo; più precisamente: “prima-dopo la nascita di Cristo”. E’ vero: la pagina evangelica non ci riporta la data precisa di quell’evento stupefacente e benedetto. E’ stata l’antica tradizione cristiana a fissarne la celebrazione nello stesso giorno in cui – secondo il calendario giuliano – nel susseguirsi delle stagioni, la potenza del sole vince nuovamente sulla notte più lunga dell’anno. Il Natale è la festa luminosa del misericordioso amore di Dio: questo è il messaggio che l’evangelista ci ha appena rilanciato. Si tratta di una notizia neanche lontanamente prevedibile. La letizia di cui è intessuta darà tra poco ala al nostro canto:

“Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili” (prefazio).


1. La luce del Natale risponde alla nostra domanda di identità

Come sappiamo, la luce è uno dei simboli religiosi a più forte carica evocativa. Ci è difficile, forse, rendercene conto in un mondo come il nostro in cui esercitiamo costantemente il comando sulla luce con un semplice click e abbiamo perso quasi del tutto l’esperienza del lento passaggio dalla notte al giorno. Del resto le luminarie natalizie, a prescindere dai ricorrenti e immancabili interessi di mercato, vogliono dire da una parte la nostra inappagabile sete di verità e l’insopprimibile bisogno di una luce che squarci il buio in cui ci ritroviamo sprofondati. E, per altro verso, quello sfavillio di luci festose potrebbe essere generosamente interpretato come un omaggio inconscio al divino Bambino che è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9).

Dobbiamo però riconoscerlo onestamente: siamo andati in automatico con il Natale. Abbiamo finito per perdere il Bambino. E ci ritroviamo con un Babbo Natale, condannato a fare da ridicolo distributore di dépliant e di ammiccanti brochure per grandi magazzini.

La nostra società ricca e hi-tech, si ritrova obesa e depressa, popolata di gente triste e rassegnata, anzi – e sempre più spesso – annebbiata e smarrita, che vaga in un deserto affollato di cose, alla ricerca di una felicità low cost, scambiata con un benessere a prezzi stracciati.

Ci avevano detto che Dio è morto, e forse per molti era purtroppo vero. Ma è vero pure che quando Dio muore, risorgono gli idoli. Quando la fede scompare, riappare la superstizione. Se l’uomo smarrisce il segno distintivo nella sua carta di identità – il marchio dell’immagine di Dio – con la griffe del Creatore in basso a destra, diventa fatalmente la maschera dell’idolo.

Ci avevano promesso l’uomo nuovo e siamo arrivati pari pari alla “rottamazione” dell’io, smontato in tanti pezzi di ricambio, sospeso sul virtuale sul futile sul vuoto, catturato dall’ipnosi maliarda di una infinità di miraggi… E alla fin fine ci ritroviamo pericolosamente sbilanciati sull’abisso del nulla. Abbiamo perso il Bambino, e ci scopriamo inermi marionette disponibili ad ogni manipolazione, patetici manichini in preda ai deliri di onnipotenza dei manovratori di turno.

2. Il Natale fa piena luce su Dio e sull’uomo

Abbiamo bisogno di ritrovare il Bambino. Quando il poeta si sporgeva sgomento sull’orlo del mistero, esprimeva la pena dell’anima con versi desolati, duri come pietre: “Che cosa fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?” (G. Leopardi). Sotto lo stesso cielo trapunto di stelle anche il salmista provava un acuto senso di smarrimento (cfr Sal 8): quanto immenso e sconfinato è l’universo e quanto piccolo e fragile è il “cucciolo” dell’uomo! E’ come un atomo sperduto nell’immenso, come una farfalla d’un giorno nel lento, sterminato migrare dei giorni. Ma il figlio di Israele superava lo sgomento dell’infinito con lo stupore della fede: quanto grande è Dio, che ha creato stelle e galassie, e ha plasmato l’uomo, piccolo e fragile, eppure l’ha fatto poco meno di un dio, ma più grande dell’universo intero!

Ma la risposta definitiva alle due domande capitali – come è fatto Dio? e che cosa è l’uomo? – ci viene dalla grotta di Betlemme: eccolo l’uomo, eccolo Dio! Sì, non solo per intuire l’umano, ma anche per captare il divino, il dito del cristiano – a differenza di tutti gli altri credenti della terra – non indicherà anzitutto il Cielo, ma questo Bambino. Il suo dito oserà indicare la Terra. Per sapere come è fatto Dio, dobbiamo guardare il Bambino: il suo pianto ci dice che la formidabile onnipotenza dell’Altissimo si traduce nella più fragile impotenza; il suo sorriso ci rivela che nel vocabolario di Dio fortezza fa rima con tenerezza; il suo grido di aiuto ci ricorda che se l’uomo non può fare a meno di Dio, neanche Dio può stare solo e fare a meno dell’uomo. La lieta sorpresa che il fiore del Figlio di Dio non sia “germinato” nella serra protetta del tempio, ma sia fiorito nella terra sporca e melmosa della storia, ci dice che l’infinitamente grande si rende reperibile là, dove l’uomo respira, suda, piange e spera.

A Natale veniamo a sapere che l’uomo, ogni uomo, non è più solo, abbandonato al suo destino. Veniamo a sapere che la nostra storia non è consegnata al male: Dio scende in essa, la vuole salva in tutta la sua realtà e, nel dono tangibile e palpabile del Figlio, le offre realmente la possibilità concreta della salvezza.

A Natale veniamo a sapere che l’unico umanesimo valido è il divino- umanesimo. Veniamo a sapere che il paradigma del dono disegna una figura dell’altro che non coincide con nessuno dei modelli consolidati della parabola della modernità: né con l’individuo egoista e possessivo, che strumentalizza l’altro al fine di soddisfare i propri interessi, né con l’individuo narcisista e autosufficiente che vede l’altro come pura proiezione del proprio io ingordo e incontentabile, o come virtuale prolungamento del proprio inappagato, insaziabile appetito.

A Natale veniamo a sapere che il piccolo figlio dell’uomo e della donna non è un grumo di cellule più o meno organizzato né un semplice dispositivo biologico, riducibile alla somma o alla moltiplicazione dei suoi componenti chimici, ma è un vero e proprio universo senza confini, che vale quanto vale il Figlio di Dio fatto uomo.

A Natale veniamo a sapere che ogni uomo è più grande delle ricchezze di cui dispone e delle miserie cui è ridotto. Ogni uomo vale infinitamente di più non per quello che ha ma per quello che è: immagine del Dio vivente, figlio di Dio prescelto e prediletto, amato, chiamato e mandato nel mondo per una missione unica, singolare, irripetibile.

A Natale veniamo a sapere che il prossimo non è il nemico con cui confliggere, o il concorrente con cui competere, ma nella sua inappropriabile differenza è il fratello con cui condividere la gioia e la pena, il pianto e il canto del magnifico, drammatico cammino della vita.

A Natale veniamo a sapere che la vita dell’uomo è diventata la storia di Dio: “Se il Natale non è, io non sono – scriveva Shakespeare. – Se Cristo non è qui, la mia vita è solo una commedia, piena di rumore e di furore, e che non significa nulla”.

Se non arde la luce della fede, la celebrazione del Natale si riduce a un click che accende una delle tante fonti di luce artificiale.

Auguriamoci un buon Natale, ma che sia veramente ‘buono’ e veramente ‘Natale’. E che non duri un giorno solo!

Permettetemi di concludere questi poveri pensieri con una bella e ardita preghiera della liturgia:

“O Dio, che nel tuo Figlio fatto uomo ci hai detto tutto e ci hai dato tutto, Tu che nel disegno della tua provvidenza hai bisogno anche degli uomini per rivelarti, e resti muto senza la nostra voce, rendici degni annunciatori e testimoni della parola         che salva”.

+ Francesco Lambiasi