Servire la Parola

Omelia tenuta nel corso della ordinazione diaconale di Davide Arcangeli, Stefano Bellavista, Guido Guidi, Roberto Marchetto, Mario Temellini.

Scenario burrascoso e drammatico, linguaggio fiammeggiante, “a lampi”: è il cosiddetto genere apocalittico, parola derivata da apocalisse, che non vuol dire previsione spaventosa di catastrofi e cataclismi, come si continua a ritenere nell’immaginario collettivo. Apocalisse alla lettera significa semplicemente “rivelazione”, svelamento-comunicazione del gratuito, benevolo disegno salvifico di Dio che ci ha creati e redenti unicamente per farci felici. Ecco il messaggio “rivelato” dal santo evangelo: la storia, guardata con gli occhi del cuore del Crocifisso-Risorto, non verrà fatalmente inghiottita dall’abisso tenebroso del nulla, ma sfocerà in un oceano di luce e di inalterabile pace. E’ vero che il brano di oggi ci parla di sole che si oscura, di luna che si spegne, di stelle che cadono a grappoli, ma non dobbiamo prendere alla lettera queste espressioni che fanno da involucro avvolgente e da contenitore protettivo di un contenuto delicato e prezioso. Che è la notizia più esaltante, questa: il crudo inverno della prova sta per finire. Un segno inequivocabile? le tenere gemme del fico sono germogli di speranza: annunciano con chiarezza inconfutabile che “l’estate è vicina”. In poche parole il rigoglioso linguaggio simbolico di questi segni e di queste immagini, correttamente decodificato, si traduce nel messaggio più atteso e promettente: finalmente “il Signore è alle porte”. Perché allora avere paura?


1. Quando la paura bussa alla porta, se va ad aprire la fede, si trova che non c’è nessuno. La pagina di vangelo che stiamo ruminando, non si può sventolare come un terrificante spauracchio. Tutto il capitolo 13 del vangelo di Marco, da cui è estratto il brano odierno, è come martellato dalle incalzanti raccomandazioni di Gesù: “non allarmatevi” (Mc 13,7), “non preoccupatevi” (13,11), “non credeteci” (13,21). Perché allora avere paura?

Il Maestro di Nazaret non sale in cattedra per raccontarci il quando e il come della fine del mondo, ma ci indica il senso della storia: il Figlio dell’uomo, quando verrà con grande potenza e gloria, avrà il volto dell’Amore crocifisso, e dirà a quanti lo avranno incontrato, persino senza saperlo, amando e servendo i suoi fratelli più poveri: “Venite, entrate nella gioia del Padre mio”. Dobbiamo e possiamo stare sereni. Basta leggere la frase finale dello stesso brano evangelico: “Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Se gli angeli e neppure il Figlio – si intende in quanto uomo, non in quanto Dio – conoscono il giorno e l’ora della fine, possibile che lo sappiano e siano autorizzati a comunicarcelo maghi, indovini, oroscopisti e adepti esaltati di qualche setta pseudoreligiosa? Non dobbiamo farci solleticare dal prurito della curiosità sul come e sul quando dell’ultima venuta del Signore. Dobbiamo stare sereni e vigilare.

E’ vero che Gesù afferma pure: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”. Ha forse preso un abbaglio? No, in effetti entro quella generazione finì il mondo giudaico con la distruzione di Gerusalemme, nel 70 dopo Cristo. E quando nel 410 ci fu il sacco di Roma ad opera dei vandali, s. Agostino fece notare a s. Girolamo che era certamente finito un mondo – quello dell’impero romano – ma non il mondo. Del resto, quando si verificò il crollo delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, non si disse forse che quel giorno sembrò la fine del mondo? E non abbiamo mai detto o sentito dire anche noi: “Il giorno in cui mancò quella persona cara, mi crollò il mondo addosso”? In questo senso possiamo affermare che ogni generazione è contemporanea alla fine del mondo.


2. Oggi il nostro occidente sta dimostrando la verità effettiva della sua denominazione. L’occidente, guardato didentro e di fuori, si presenta in tutti i sensi come la vera “terra del tramonto”. Infatti sta tramontando il sole della grande civiltà europea, le cui radici spirituali e culturali si possono rintracciare nei tre grandi colli: il Partenone, il Campidoglio e il Golgota. Nel frattempo si sono spente le stelle delle grandi ideologie, come il marxismo. Nella vecchia Europa si va invece diffondendo su scala esponenziale il virus della “autonegazione”, per cui ci si sente attratti da tutto ciò che è “diverso” semplicemente perché “diverso”, come se ognuno fosse stanco di se stesso, dimenticando che un conto è rispettare le differenze, un conto è rinnegare la propria identità. La sana laicità infatti fa rima con imparzialità, non con indifferenza.

Su questo sfondo di smarrimento e di buio angosciante, le prime vittime risultano i poveri, che si vedono scippati anche delle loro radici. Quanta povera gente oggi vive e si affanna nell’opulenza del mondo occidentale, disorientata dalla mancanza di riferimenti sicuri, frastornata da ciò che questo nostro mondo offre di vantaggi e di piaceri, ma sempre più inquieta di fronte agli interrogativi capitali che nessun cuore umano può eludere: “Qual è il significato del dolore, del male, della morte che, malgrado ogni progresso, continuano a  sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (GS 10). L’uomo di oggi, soprattutto chi è stato lasciato “a piedi”, abbandonato a se stesso, si ritrova nei panni del pastore errante di Leopardi, e grida, inascoltato, la sua angoscia penosa alla luna: “Che cosa fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che cosa vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?”.

La fede cristiana ha una risposta a queste domande mordenti: anche il cristiano più umile sa e crede che il suo Signore è chiave, centro e fine della storia. Certo, anche il cristiano è tentato dalla paura e disorientato dal clima asfissiante della cultura del nulla, ma si lascia illuminare dalla fede. E la fede ci dice che, da quando è venuto in mezzo a noi, Cristo non se ne è più andato. La fede ci dice che Cristo è il “Veniente”, che ogni giorno continua a venire per rimanere con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. La fede ci dice che “è aperta a tutti gli uomini la strada della carità, e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani” (GS 37). Pertanto nulla andrà perduto di quanto è stato seminato nell’amore. Tutto ha senso. La storia è una lotta drammatica tra le forze dell’amore e quelle, trasgressive, del male, ma è e rimane una storia sacra, perché Cristo ha già vinto il mondo, “si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi” (Ebr 10,13). E alla fine sarà annientato anche l’ultimo nemico, la morte.


3. Qual è dunque il servizio più prezioso e urgente che i cristiani possono rendere ai poveri di oggi? Non c’è dubbio: è il servizio alla fede e all’annuncio del vangelo. Vorrei provare ad approfondire questa risposta, declinandola sul versante del ministero che sta per esservi conferito, carissimi ordinandi diaconi.

Voi sapete che ci sono due tipi di servizi o diakonìe: ci sono le diakonie dalla fede e quelle alla fede. Le diakonìe dalla fede riguardano il vasto e complesso campo della carità, quindi i servizi ai malati, drogati, carcerati, immigrati ecc. Questo è anche il campo della promozione umana. Le diakonìe alla fede riguardano il servizio diretto alla evangelizzazione, e questo è il servizio dei servizi, che si fa carico di non far mancare a nessuno il pane del vangelo. Tutti i diaconi, sia permanenti che avviati al presbiterato, debbono impegnarsi nell’uno e nell’altro campo, oltre che in quello della liturgia, in quanto il diaconato si caratterizza per l’esercizio dei “tria munera”, i tre uffici – legati al servizio della parola, liturgia e carità – che sono appunto tre e non uno solo, quello liturgico. In riferimento al servizio della parola, che comprende l’insieme delle diakonie alla fede, il diacono è chiamato a proclamare la Scrittura, ad istruire ed esortare il popolo. Si legge nel Direttorio per i diaconi permanenti (1998): “E’ necessario che i diaconi imparino l’arte di comunicare la fede all’uomo moderno in maniera efficace e integrale, nelle svariate istituzioni culturali e nelle diverse tappe della vita. Infatti “è proprio del diacono proclamare il vangelo e predicare la parola di Dio”; pertanto si deve “dare grande importanza all’omelia”, alla catechesi dei fedeli, alla nuova evangelizzazione (nn. 23-26).

Io penso che questa della evangelizzazione e della predicazione rappresenti una grande possibilità per il ministero dei diaconi, in particolare di quelli permanenti. Noi sappiamo che nelle chiese protestanti, la predicazione è tutto: è l’attività numero uno della comunità cristiana. Anche nella Chiesa cattolica è ora di ridare al servizio della predicazione il suo posto d’onore. Cito due tra i più grandi teologi cattolici del secolo scorso. Il primo è il padre de Lubac: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. E’, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta”. A sua volta, Urs von Balthasar dice che “alla missione nella Chiesa è subordinata la stessa missione teologica”. In fondo s. Paolo, il maestro dell’evangelizzazione, lo aveva già detto, scritto e fatto, lui, che non ha mai pubblicato un trattato teologico, che ha battezzato pochissimo, ma si è sempre fatto un vanto di dedicarsi interamente all’annuncio del vangelo. E dietro di lui, i padri della Chiesa, i grandi dottori e i santi pastori, anche ai nostri giorni.

A questo punto io mi faccio coraggio e grido la parola che ho ricevuto dal Signore per questa celebrazione: “Diaconi, alla predicazione! Anche a voi è rivolto l’invito di Gesù: ‘Andate anche voi nella mia vigna’. Non accontentatevi di cantare il vangelo nella Messa. Andate ad annunciarlo nei luoghi di frontiera, là dove se non arrivate voi, non ci arriva nessuno. E ricordate che certamente voi dovete rendere testimonianza al vangelo con la vostra vita, ma questo è dono e impegno di ogni cristiano in quanto cristiano, e che se fosse solo per questo, non ci sarebbe bisogno di diventare diaconi”. Sì, lo credo: c’è bisogno di voi, proprio di voi. Il tempo dedicato al servizio della predicazione non è tempo perso, ma è tempo guadagnato per il regno di Dio e per la missione della Chiesa nel mondo. Ricordate che la predicazione è come la corrente che trasporta l’energia elettrica: se l’impianto “va in corto”, la luce non arriva, e la casa di Dio piomba nel buio. Mi auguro perciò che quanto prima sia apra nella nostra Diocesi un laboratorio della predicazione dove sacerdoti e diaconi insieme possano formarsi ed esercitarsi alla grande arte della comunicazione del vangelo in questo mondo che cambia.

Carissimi, tra poco vi consegnerò il libro dei vangeli e ad ognuno di voi dirò: “Ricevi il Vangelo di Cristo, del quale sei divenuto l’annunziatore: credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni”. Ecco il mio augurio e la mia preghiera: che la vostra vita sia ogni giorno una “sequenza” del santo evangelo. Così, quando verrà anche per voi l’ultimo giorno, il Signore vi possa dire: “Bene, servo buono e fedele; prendi parte alla gioia del tuo Signore”.

Rimini, Basilica Cattedrale, il 15 novembre 2009

Domenica 33.a T.0. (B)

+ Francesco Lambiasi