Quando santità fa rima con felicità

Omelia per la professione nell’Ordine delle vedove di Manuela Longhi

Il lieto messaggio delle beatitudini (Mt 5,1-12) è stato spesso ripreso e citato con varie titolazioni. Come: il cuore pulsante del Vangelo. La via cristiana alla felicità. Il manifesto programmatico del Regno. La più fedele e originale autobiografia di Gesù. Il ritratto a più alta definizione del suo volto. Il solenne portale del discorso della montagna. In effetti le beatitudini contengono e comunicano un messaggio consolante, ma tutt’altro che ipnotico, sedativo. Folgorante, certo, non però per paralizzarci, quanto piuttosto per pungolarci e spingerci. In avanti e in alto.

1. Ritorniamo ora su ognuna delle otto beatitudini. Lo facciamo in due tempi: in un primo passaggio le rileggiamo vedendovi riflesso il volto di Gesù e, in dissolvenza, il profilo del discepolo. In seconda lettura vedremo di intercettare il vostro profilo, care Sorelle dell’ordine delle vedove.

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Guardiamo Gesù: è il modello più alto della povertà evangelica. Così lo inquadra san Paolo: “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Il povero non è semplicemente chi ha poco e con molta pena, in opposizione al ricco che ha molto e senza sforzo alcuno. Anzi, è come un mendicante che non ha proprio niente. La sua è una indigenza assoluta, colmabile solo dall’Assoluto. E’ un discepolo che ha scelto Cristo, e Cristo gli basta. Pertanto non pone la sua fiducia nell’avere, nell’apparire, nel potere. Essere poveri nel cuore, questo è santità.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Guardiamo Gesù: non ‘beatifica’ i malati o i sofferenti come tali. Si fa banditore della gioia del regno di Dio, che richiede di superare opposizioni e prove. Per il Maestro di Nazaret quanti piangono saranno beati, perché non si piangono, o purché non si piangano, addosso. Anche se afflitti da angustie e tribolazioni, non affliggono a loro volta quanti li tormentano. Fanno propria la causa del regno di Dio e della sua Chiesa. Piangono anche per la poco santa santità della Chiesa, ma prima ancora per i propri peccati, che ne sporcano il volto. Saper piangere per gli altri e con gli altri, questo è santità.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Guardiamo Gesù: amava designarsi come “mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Entrando a Gerusalemme si è qualificato come il re messianico povero, mansueto e disarmato. Secondo il vangelo i miti non sono ingenui e non fanno i bonaccioni. Rassomigliano a Gesù. Quando occorre, suscitano problemi e provocano disagi, ma per la causa del regno di Dio. E non ricorrono mai alla violenza, neppure per rivalsa. Reagire con umile mitezza, questo è santità.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Guardiamo Gesù: nel vangelo secondo Giovanni, Gesù afferma gravemente: “Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” (Gv 6,35). Nella tradizione biblica la parola giustizia designa la perfetta religiosità dei tempi messianici. Gli affamati-assetati di giustizia sanno bene che un mondo più giusto non è solo da attendere, ma da costruire. E fanno la loro parte, nella rasserenante convinzione che Dio è già presente nella nostra storia. Fa la sua parte e ci sostiene nel fare la nostra. Cercare la giustizia con la fame e la sete del cuore, questo è santità.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Guardiamo Gesù: ha ricevuto l’appellativo di “misericordioso” (Ebr 2,17). Sulla croce ha dato esempio di insuperabile misericordia, e nell’esercizio del suo magistero ha invitato i seguaci a fare altrettanto. Il discepolo di Cristo si sa e si sente già ‘misericordiato’ da Dio, e perciò diventa sempre più misericordioso. Ogni autentico discepolo sa pure che “l’uomo non è il suo errore” (Don O. Benzi). Perdonare e agire sempre e verso tutti con misericordia, questo è santità.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Guardiamo Gesù: nel discorso della montagna non solo parla della nuova giustizia, superiore a quella degli scribi e dei farisei, ma anche della nuova purità, che è quella del cuore, la purezza nel modo nuovo di vivere i propri doveri religiosi, senza ipocrisia, senza doppiezze e oblique simulazioni. I puri di cuore sono i semplici, non i sempliciotti né i semplicioni. Non pensano in un modo e agiscono in un altro. Hanno il cuore limpido e l’occhio luminoso. Perciò dicono quello che pensano e compiono quello che dicono. Conservare il cuore trasparente da tutto ciò che contamina l’amore, questo è santità.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Guardiamo Gesù: invia i suoi discepoli ad annunciare la pace, eppure dice di sé di essere “venuto a portare non pace, ma spada” (Mt 10,35). La pace messianica è stata ottenuta da Gesù “mediante il sangue della sua croce” (Col 1,20). Così ci mostra come la pace non sia mai ‘pacifica’. Costa sempre la croce del pacificatore. Il discepolo, che si voglia vero costruttore di pace, non si dà pace, pur di fare positiva ed efficace opera di pace. Seminare pace attorno a noi, questo è santità.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Guardiamo Gesù: ha parlato chiaro e ha agito con nitida coerenza. La croce è ineliminabile dalla sua vicenda, come da quella del discepolo. La persecuzione è l’eredità che Gesù lascia ai suoi seguaci, il segno che autentica la loro chiamata, ma anche la via insostituibile per conseguire la vera beatitudine evangelica, la perfetta letizia. Riprendere ogni giorno la via della croce, nonostante ci procuri problemi e disagi, questo è santità.

2. Dopo questa prima scorsa, vorrei ora ripercorrere le otto beatitudini dedicandole a voi, vedove consacrate.

Beate voi, Sorelle povere in spirito, come la povera vedova al tempio. Che ha donato non il superfluo, gli avanzi, come i ricchi, ma l’indispensabile: a lei non piaceva fare fifty-fifty con Dio. Si è tolta il pane di bocca. Si è privata di quanto aveva per vivere, letteralmente di “tutta intera la sua vita”. Sì, Sorelle, noi abbiamo quello che diamo!

Beate voi, Sorelle che piangete, perché siete già consolate per il fatto stesso che il pianto non è e non sarà la parola definitiva della vostra vita. Anche la speranza della futura consolazione è già consolazione per voi e perfetta letizia. Piangere e con-piangere, mai autocompiangersi. Care Sorelle, facciamo sempre attenzione al vittimismo, che ci rende schiavi della ‘dea-lamentela’.

Beate voi, donne miti, perché anche nel conflitto non puntate ad aggredire, non cercate di dominare o di sopraffare. E non vi stancate di lottare contro il padre di tutti i vizi, l’orgoglio. Sì, Sorelle, non confondiamo fortezza con durezza, né tenerezza con tenerume. E non mitizziamo né minimizziamo il conflitto, ma assumiamolo per farne un anello di congiunzione tra le parti in contrasto.

Beate voi, donne affamate e assetate di giustizia, che avete fame e sete di vivere l’amore di Dio per le sorelle e i fratelli tutti, anche per chi vi affligge e confligge con voi. Perché l’unità deve sempre prevalere sul conflitto.

Beate voi, Sorelle misericordiose, perché il vostro cuore si lascia toccare dal male altrui come fosse il vostro. E così la vostra passione si traduce in con-passione.

Beate voi, Sorelle che avete abbracciato la purezza di cuore e la perfetta castità, in modo da riuscire a vedere Dio in tutte le cose, in tutte le persone, in ogni situazione. Sì, Sorelle, perché “amare è voce del verbo morire” (T.Bello). E’ decentrarsi. E’ servire Dio e il prossimo, non tentare di asservire Dio e il prossimo per farne il piedistallo per il monumento all’idolo del proprio io.

Beate voi, donne di pace, perché siete e vivete da figlie di Dio e, portando pace tra gli uomini, li aiutate a vivere da fratelli.

Beate voi, sorelle carissime, quando venite perseguitate per la giustizia, perché a voi appartiene il regno dei cieli. Infatti “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Ma alla fine la vittoria sarà dell’Agnello, invincibile e vittorioso, proprio perché immolato.

Infine, a te, cara sorella Manuela. Mi hai confidato di avere trovato il tesoro della tua vita, a lungo sognato e bramato.

Custodiscilo con cura. Conservalo con fedeltà. Proteggilo con premura. Condividilo con generosità.

E che la tua festa non abbia mai fine!

Rimini, Basilica Cattedrale – Tutti i Santi, 2021

+ Francesco Lambiasi