Pensando a Giuseppe di Nazareth

Omelia per la Giornata mondiale della vita consacrata

            Sono 25 anni che la festa della Presentazione del Signore coincide con la Giornata mondiale della vita consacrata. Negli anni passati, in omelie come questa, mi sono sempre rapportato a Gesù presentato al tempio, con un esplicito riferimento a Maria, per ricavarne luci e riverberi in ordine al carisma della vita consacrata. Ma questa volta la vostra festa cade nell’anno dedicato a san Giuseppe, il quale quaranta giorni dopo il Natale, insieme a Maria, ascoltò sorpreso e stupito la profezia che Simeone espresse nei confronti di Gesù e di Maria. Ed è proprio la figura e la vicenda del falegname di Nazareth che oggi vorrei mettere a fuoco. Spero così di estrarne qualche scintilla che possa tornare utile a voi e a noi tutti, e ci faccia provare a pelle il brivido di stupore che sempre ci afferra quando ci lasciamo incantare dal fascino della vostra profezia.

1. Pensando a san Giuseppe, vorrei prima di tutto sostare almeno brevemente a contemplare con voi la bellezza della vita consacrata, un dono incomparabile che lo Spirito Santo continua a prodigarvi per il bene nostro, della Chiesa e dell’umanità tutta.

La figura di Giuseppe viene spesso pennellata con la suggestiva immagine dell’ombra. Nei confronti di Gesù, “egli è l’ombra sulla terra del Padre celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi” (Francesco, Patris corde, n. 7). Se Gesù è chiamato “il figlio di Giuseppe”, allora Giuseppe può e deve essere denominato vero padre di Gesù. Certo, non lo è in senso fisico, come suo genitore secondo la carne. All’uomo, si sa, occorrono tre secondi per diventare genitore. Ma diventare padre è un’avventura. E’ questione di una vita intera. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità di un altro, della sua crescita e della sua difesa, è certo che vive la paternità nei suoi confronti. Anche nella Chiesa c’è bisogno di padri. San Paolo parla ai Galati in termini di una ‘paternità materna’: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore, finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal 4,19). Quanto alta e attraente è la dignità spirituale di padri nella fede che amano con viscere materne!

Oggi occorre captare il tacito grido di molti giovani e adulti che anelano ad essere generati e ri-generati alla vita cristiana. Ma per questo c’è bisogno tutt’altro che di padroni sulla loro fede, quanto piuttosto di collaboratori della loro gioia. Questo vale pure per la paternità educativa che si deve assicurare a bambini, ragazzi e giovani anche nella società del nostro tempo, nella quale spesso i figli sembrano essere orfani di padri. Il mondo rifiuta i padri-padroni. Ha bisogno di padri-padri. Allontana chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto. Respinge quanti confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, carità con assistenzialismo.

Fratelli e Sorelle, fateci vedere la bellezza della paternità e maternità consacrata!

2. Pensando a san Giuseppe, non possiamo non evidenziare anche la gratuità della vita consacrata. L’amore del giovane Giuseppe per la giovane sposa e per il bambino Gesù è un amore generoso e oblativo. La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. In lui non si percepisce mai un sintomo di frustrazione amara e risentita, ma piuttosto solo pace, fiducia e inossidabile speranza. Il suo costante e discreto silenzio non è mai mutismo reticente e remissivo. Giuseppe non è il figlio della dea lamentela. Nessuna ombra in lui di un vittimismo acido e rannicchiato. Né venature di cupa autocommiserazione. “Lì dove una vocazione matrimoniale o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione” (ivi). Invece la nostra luminosa storia d’amore con Gesù è la conferma più credibile della gioia evangelica che dà sapienza e sapore ad ogni giorno della vita.

Sorelle, Fratelli, fateci toccare con mano la misura traboccante della vostra gratuità!

3. Pensando a san Giuseppe, non possiamo non aspirare il forte-dolce profumo che traspira dalla sua persona e scaturisce anche dalla vita consacrata: la tenerezza. Che non è affatto il tenerume. Questo sta alla tenerezza come la melma di un pantano sta all’acqua di un laghetto alpino. La chiara, limpida tenerezza fa sempre rima con la mite, candida purezza. Accanto all’appellativo di sposo, la tradizione ha attribuito a Giuseppe anche il superlativo di castissimo. La purezza, la castità, in particolare la verginità esprimono un atteggiamento diametralmente opposto al possesso. La castità è piuttosto la libertà dal monopolio in tutti gli ambiti di vita. Solo quando un amore è puro, è autentico. E perfetto. Si può chiamare divino soltanto l’amore casto che tutto riserva e restituisce all’Amato, fino a diventare povero di tutto, perfino di se stesso.

Giuseppe ha saputo amare in modo straordinariamente casto, perché straordinariamente libero. Ha amato e basta. Silenziosamente. Nascostamente. Quasi senza farsene accorgere. Senza dirlo neppure a sé stesso. Non ha mai messo sé stesso al centro. Si è lasciato espropriare di sé per mettere Maria e Gesù al centro della propria vita. Gesù ha visto in lui l’abbà, il fortissimo babbo, la tenerezza di Dio in carne umana: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono” (Sal 103,13). E Maria ha sperimentato in Giuseppe la tenerezza di Dio sposo d’Israele: “Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,5). Giuseppe è l’unico tra tutti i padri umani che sa per esperienza quanto il Padre dei cieli sia l’unico autentico babbo-Abbà. Pertanto la sua castità non provoca in lui una paternità diminuita, ma dilatata.

E’ una tenerezza, questa, che si rivela non nonostante, ma attraverso la nostra debolezza o quella delle nostre imperfette comunità. Ed è proprio in quelle crepe che fluisce il balsamo che ci tiene insieme. E’ la tenerezza il modo migliore per toccare la carne ferita della nostra o altrui fragilità. San Giuseppe ci insegna che avere fede comprende il credere che il Dio-Abbà opera anche attraverso le nostre paure, le nostre mille insicurezze, la nostra disarmata, benedetta debolezza.

Sorelle, Fratelli, fateci respirare il profumo inebriante della vostra fragrante tenerezza!

Rimini, Basilica Cattedrale – 2 febbraio 2021, Presentazione del Signore

+ Francesco Lambiasi