Nulla anteporre a Cristo

Omelia del Vescovo nella s. Messa di ringraziamento per il ministero pontificale di Papa Benedetto XVI

Quel giorno Pietro guardò a Gesù e vide Dio. No, Simon Pietro non vide solo l’amico fortissimo, il maestro insuperabile, il misericordioso guaritore di tutti i mali. Non vide davanti a sé solo la dolcezza che comprende e rassicura, il perdono che placa il tormento che scuote i fondali dell’anima, l’esempio contagioso a donare tutto a tutti, a tutto cuore, a piene mani. Quel giorno Pietro, folgorato dalla luce che gli piovve improvvisa dall’alto, guardò a Gesù e vide il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù guardò a Pietro e vide la sua Chiesa poggiata su quelle spalle nodose, ma pur sempre insufficienti per un peso umanamente insostenibile. No, Gesù non vide in Pietro solo l’uomo impetuoso e fragile, il discepolo generoso ma incostante, l’amico che stava imparando a misurare la propria miseria e presunzione. Quel giorno Gesù vide davanti a sé l’uomo più prezioso agli occhi di Dio per guidare il suo popolo, abbracciato dentro lo stesso rapporto di conoscenza e di amore che circola tra il Padre celeste e il suo Figlio incarnato. Quel giorno Gesù guardò Pietro e vide in lui la pietra di fondamento sulla quale avrebbe innalzato l’edificio della sua futura comunità: una roccia di fedeltà e di certezza. Da quel giorno Pietro non poté più fare a meno di Gesù. Da quel giorno Gesù non volle più fare a meno di Pietro.

La storia di questo misterioso rapporto tra Gesù e Pietro continua da duemila anni, nel legame inscindibile che seguita a legare il Cristo ai successori di Pietro. Quella storia, partita dai dintorni di Cesarea di Filippo, è arrivata fino a papa Benedetto, e noi siamo qui stasera per farne memoria grata e consolante. Perché in questi pochi anni Cristo ci ha dato molto attraverso papa Benedetto: ci ha risvegliati e rinsaldati nella fede stessa di Pietro.

1. “Vale davvero la pena anche oggi essere cristiani”. Sono le ultime parole con cui il giovane teologo Joseph Ratzinger siglava la sua monumentale Introduzione al cristianesimo, pubblicata nel 1968, in una estate tra le più roventi del secolo scorso. Quelle parole, nella loro nuda semplicità, dicono l’architrave centrale del magistero pontificio di Benedetto XVI e ce ne trasmettono, con linguaggio denso e suggestivo, il testamento spirituale e pastorale.

Ma che cosa significa essere cristiani? Fin dai primi tempi del suo ministero pontificale il Papa aveva subito chiarito che “la fede cristiana non è ideologia, ma incontro personale con Cristo crocifisso e risorto” (26.3.2006), e ha più volte ribadito che “la fede nasce dall’incontro personale con Cristo risorto, e diventa slancio di coraggio e di libertà che fa gridare al mondo: Gesù è risorto e vive per sempre” (19.4.2006). Nel discorso rivolto ai partecipanti al IV Convegno ecclesiale italiano di Verona Benedetto affermava con scarna nettezza: “All’inizio dell’essere cristiano… non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.

Questa immagine della fede come incontro possiede una valenza antropologica che merita di essere ripresa e messa in luce. Il cristiano – spiegava il Papa – è colui che ha incontrato Gesù Cristo. Incontrare significa propriamente incontrare qualcuno e non genericamente qualcosa; significa attribuire all’evento che qualifichiamo come incontro un valore che va al di là della mera accidentalità e che pertanto può e deve essere percepito come portatore di senso. E’ per questo che un incontro può aprire un uomo a nuove esperienze, può modificarlo, può dischiudere davanti a lui – come diceva il Papa – nuovi orizzonti, dando addirittura alla sua vita una “direzione decisiva”.

L’incontro con Gesù Cristo non si limita ad orientare l’uomo verso un altro mondo, ma gli dà la forza di accettare questo mondo come il suo mondo (“Il regno di Dio è già in mezzo a voi”): un mondo buono – anche se lacerato dal male e dal peccato – come è buono tutto ciò che è voluto e creato dal Logos – dal Pensiero-Parola di Dio – un mondo che l’uomo è chiamato a comprendere e a studiare, nel quale egli può avere fiducia, perché è un mondo di tutti e per tutti, governato da leggi che gli donano coerenza ed equilibrio e che l’intelletto umano è in grado di scoprire e formalizzare.

2. Si rende così pienamente comprensibile l’ulteriore indicazione del Papa in merito a una fede amica dell’intelligenza: una indicazione che ha una valenza tanto ecclesiale, quanto antropologica. La fede che nasce dall’incontro con Cristo non umilia né sostituisce l’intelligenza, né le sottrae alcuna delle sue irrinunciabili competenze; non pretende di assumere nei confronti dell’intelligenza umana una posizione di arrogante, saccente primato. Del resto, come potrebbe farlo, se è vero che l’intelligenza umana partecipa, come logos-ragione, della stessa ragione di Dio? Quindi non è neppure abilitata a darle alcuna direttiva che la stessa intelligenza non sarebbe in grado di darsi spontaneamente. L’amico non è colui che si rapporta all’altro dandogli ordini o condizionandolo psicologicamente per subordinarlo alla sua volontà. Dove si dà amicizia autentica, si dà condivisione di esperienza e comune orientamento di vita; dall’amicizia, soprattutto, si trae fiducia e coraggio: chi possiede un amico sa bene che non resterà mai solo. Qualcosa di analogo si può dire per il rapporto amicale che deve instaurarsi tra fede e intelligenza: grazie alla fede, l’intelligenza può resistere alla tentazione di perdere fiducia in se stessa, può contrastare la tentazione di ritenere il mondo vuoto di senso e di considerarlo non come un cosmos, ma come un kaos, dominato da forze casuali, a volte benevole a volte minacciose, ma sempre comunque cieche e meccaniche, stipato di frammenti e di relitti alla deriva.

In quanto amica dell’intelligenza, la fede ha il compito di richiamarla sempre alla propria dignità costitutiva e all’orizzonte di senso che le è proprio: quello di essere intelligenza umana, una dimensione, cioè, che vive laicamente nell’esistenza concreta degli individui e non nel formalismo delle idee e delle teorie. In quanto amica della fede, l’intelligenza le fornisce la possibilità di non ridursi a brivido emotivo, di non scadere a cieca esaltazione, e l’aiuta a non deragliare nell’errore, che a volte si trasforma in orrore, del fondamentalismo. “Il dialogo tra fede e ragione, se condotto con sincerità e rigore, offre la possibilità di percepire, in modo più efficace e convincente, la ragionevolezza della fede in Dio – non in un Dio qualsiasi, ma in quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo – e altresì di mostrare che nello stesso Gesù Cristo si trova il compimento di ogni autentica aspirazione umana” (5.6.2006).

3. Ma ciò che costituisce l’apporto più significativo del pontificato benedettino è l’aver provocato la Chiesa alla consapevolezza che “una profonda crisi di fede ha toccato molte persone” dentro la Chiesa stessa. Nella Lettera apostolica, Porta fidei, per l’indizione dell’Anno della Fede, Benedetto XVI ha scritto testualmente: “Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come a un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato” (n. 2). Ma non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta. Per questo il Papa ci lascia come preziosa eredità l’Anno della Fede, “allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede”.

Ed è nella luce della fede che va decifrata la scelta profetica di rinunciare all’esercizio del ministero petrino. Come è scritto nella regola del santo da cui ha preso il nome da Papa – san Benedetto – la fede consiste nel “non anteporre nulla all’amore per Cristo”. Nulla per sé, tutto per Cristo: così Joseph Ratzinger ha accettato ormai in età avanzata di salire al soglio di Pietro. Così vi è rimasto per quasi otto anni, con mite, eroica fortezza. Così ora ne ridiscende, per poter continuare ad amare la Chiesa con la preghiera del monaco e il sacrificio del martire. Papa Benedetto non ha voluto anteporre nulla a Cristo, neppure la propria vita, neppure la propria persona.

Che il Supremo Pastore gliene renda merito. Che la memoria del suo alto magistero e della sua limpida testimonianza evangelica ci ritorni in benedizione.

Grazie, Signore!
Grazie, Benedetto!

Rimini, 27 febbraio 2013


+ Francesco Lambiasi