Non mercenari, ma pastori candidati al martirio

Omelia del Vescovo su Gv 10,1-10, per l’ordinazione presbiterale di Giuseppe Tosi, Gioacchino Vaccarini, Daniele Missiroli, fr. Juri Leoni – Rimini, Basilica Cattedrale, 14 maggio 2011-

Ecco, Dio è fatto così: come un pastore. La tipica, suggestiva metafora mediterranea veicola in sottofondo il lascito di antichi oracoli profetici. Rileggiamo, dal rotolo del grande Isaia: “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11). Ricordiamo ancora, dal profeta Ezechiele: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,16). Ma cosa avviene quando viene l’ora di Gesù? La profezia si compie; la metafora si realizza. Ormai non si può più dire: Dio è come un pastore, ma si deve dire: Dio è il pastore, e ha la faccia, le mani, il cuore di Gesù, il buon pastore.

 

1. Pastori per voi

Qualche esegeta si surriscalda nel sostenere che l’aggettivo greco kalòs – ‘bello’ – abbinato al sostantivo ‘pastore’, vada tradotto alla lettera: Gesù è il pastore bello. Altri invece rendono quell’aggettivo con vero: Gesù è il pastore vero, cioè autentico. Sono tutte varianti filologicamente fondate ed esegeticamente plausibili. Ma forse la domanda da porre è un’altra: perché Gesù è il pastore buono, bello, vero? Possiamo rispondere con le parole di uno che se ne intendeva sul serio, sia di esegesi come di pastorale e pure di santità, visto che si tratta di Gregorio Magno, che fu papa santo e dottore della Chiesa, il quale commentava così l’autodefinizione di Gesù: “Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, come a dire: “Io le amo ed esse mi corrispondono riamandomi“. Molto correttamente quel santo padre della Chiesa interpretava il verbo conoscere, in senso biblico, secondo cui conoscere significa amare. Detto in due parole: Gesù è il pastore generoso, affascinante, autentico, in quanto è il pastore innamorato, innamorato folle, e folle fino alla follia della croce. In effetti Gesù è un pastore unico: non se ne è mai visto uno come lui, nella serie dei pastori che ci furono, ci sono, ci saranno. Non è semplicemente il primo della serie: è il fuori-serie, è il pastore. Nei confronti delle sue pecore non si limita a declinare i verbi usuali del pastore forte e tenero: guidare, nutrire, difendere il gregge, ma ne coniuga uno del tutto insolito: sacrificarsi. “Io do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14). Qui la metafora supera se stessa: dove si è mai visto un pastore che si lascia uccidere per amore delle sue pecore?

Nel commento al nostro brano, s. Agostino, presentandosi al popolo con i suoi presbiteri, diceva così: “Pascimus vobis (siamo pastori per voi) et pascimur vobiscum (siamo nutriti con voi); det utinam Dominus eam amandi vim ut pro vobis aut effectu mori possimus aut affectu (il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto da poter morire per voi, o effettivamente o affettivamente)” (cit. in PdV 25).

Siamo pastori: non ci siamo chiamati da soli a questa missione. Non ci siamo aggiudicati da soli questo onore. Non ci siamo arrogati da soli questo onere. Ci ha chiamati Lui. Da mille strade diverse, in mille modi diversi. Chi se ne stava sulla riva, a rassettare reti immancabilmente flosce e deludenti, a masticare rabbia per l’ennesima quota di sudore sprecato. Chi se ne stava dietro il banco dei suoi piccoli traffici, a mangiarsi le unghie per vedere come riuscire a spennare qualche altro centesimo alla povera gente. Chi se ne stava in casa a sognare vagabondaggi senza traguardi, a disegnare rotte senza mete e senza orizzonti. Insomma tutti avremmo storie differenti da raccontare, ma tutte apparentate dallo stesso canovaccio, fatto di ricerche travagliate, di attese allo spasimo, di sorprese neanche lontanamente immaginabili. Ma ognuno potrebbe forse ritrovarsi pari pari nelle parole del canto di anni addietro, intitolato Vocazione:

“Era un giorno come tanti altri, e quel giorno lui passò. Era un uomo come           tutti gli altri, e passando mi chiamò. Come lo sapesse che il mio nome era     proprio quello, come mai vedesse proprio me nella vita, non lo so. Era un    uomo come nessun altro, e quel giorno mi chiamò”…

Sì, ci siamo lasciati sedurre e siamo rimasti sedotti. Ci siamo innamorati di Lui e non abbiamo più potuto farne a meno. E così è partita una storia fatta di slanci e di inciampi, di tenerezze e di abbandoni, di calcoli e di follie, fatta di stupori e di sbigottimenti, forse anche di ristagni, di fughe scriteriate e di nostalgici, irrefrenabili ritorni. Comunque, tutta una storia d’amore, dalla a alla zeta. Poi Lui ci ha fatto tremare le vene e i polsi, quando ci ha fissati uno ad uno e ci ha schiantati con quella domanda bruciante: Francesco, Daniele, Giuseppe, Gioacchino, Juri, mi ami tu?

Ci siamo arresi e gli abbiamo detto sì. Lui ci ha fatti suoi e ci ha affidato voi. E come a Simone bar Jonas, ha detto a ognuno di noi:”Pasci i miei agnelli”. Così, ci ha messi di fronte a voi. Capite, fratelli e sorelle? Non ci ha tolti dal gregge, ma ci ha messi a parte; non ci ha collocati sopra di voi, ma di fronte a voi.

2. Morire per voi

Stare di fronte… Dio, che posizione scomoda! “Molto meno rischioso stare ‘nella’ Chiesa, con il crisma sulla fronte, che stare ‘di fronte’ alla Chiesa, con il crisma sulle mani” (T. Bello). Stare di fronte a voi non è stare in poltrona o in cattedra oppure stare sul palco o sul podio del vincitore. E’ stare in croce: per sacrificare la vita come ha fatto Gesù, per amare e servire i suoi, i nostri fratelli come li ha amati e serviti lui. Non per capacità o iniziativa nostra, non per qualche merito acquisito o per un premio spasmodicamente conquistato, ma perché chiamati: poiché il ministero è un mistero, uno stupefacente mistero di grazia.

Stare di fronte significa esercitare il ministero nel nome del “Pastore grande delle pecore” Gesù – un nome che contiene tutta la dolcezza del mondo – senza mai pretendere di sostituirlo, ma diventando la trasparenza della sua fortissima, tenerissima presenza. Significa svolgere il triplice compito che ci è affidato – insegnare, santificare, presiedere – come ‘ministero’, ossia come servizio, non come ‘potere’. Quindi insegnare, non montando sulla testa dei fratelli per plagiarli, ma chinandosi ai loro piedi per pulirli. Quindi celebrare l’eucaristia, prendendo e spezzando il pane non come una cosa o come un oggetto per quanto santo e venerabile, ma come il corpo di Cristo: “con mani frementi, nell’attesa che chiodi crudeli aprano al dono”, al dono di sé. Stare di fronte significa guidare la comunità cristiana “non spadroneggiando sulle persone, ma facendosi modelli del gregge” (1Pt 5,3).

Stare di fronte da pastori significa lasciarci plasmare sullo stampo del “Pastore supremo”; significa lasciarci ‘fare’ presbiteri, cioè ‘anziani’ nel senso etimologico del termine, che vuol dire: coloro che sono ante, cioè ‘prima’, ma a me piace interpretare la preposizione latina ante nel senso di ‘davanti’; quindi mi prendo la licenza di intendere ‘presbiteri’ come quelli che sono ‘maturi-per-stare-di-fronte’. Comunque sia, ‘presbiteri’, con il corredo delle tipiche virtù presbiterali, quali: “la fedeltà, la coerenza, la saggezza, l’accoglienza di tutti, l’affabile bontà, l’autorevole fermezza nelle cose essenziali, la libertà da punti di vista troppo soggettivi, il disinteresse personale, la pazienza, il gusto dell’impegno quotidiano, la fiducia nel lavoro nascosto della grazia che si manifesta nei semplici e nei poveri” (PdV 26).

Stare di fronte da sacerdoti significa dare la vita. E voi, carissimi, tra poco vi prostrerete a terra per dire con questo gesto – che vi invito a fare a braccia allargate, a forma di croce – per dire che voi state qui non per autocondannarvi a morte, ma per autocandidarvi al martirio. Abbiamo sentito il sospiro di s. Agostino, che diceva alla sua gente: “utinam pro vobis mori possimus aut effectu aut affectu” – “potessimo morire per voi o di fatto o col cuore!”. Forse tu, Signore, non ci chiedi il martirio effettivo, con il sangue, e allora consumaci al fuoco lento del quotidiano martirio di cuore. “Signore Gesù, buon Pastore, che hai dato te stesso fino alla morte di croce per le tue pecorelle, rendici degni di poter offrire tutta la nostra vita per la porzione di gregge che tu ci affidi” (Coll.).

Che ognuno di voi, carissimi, quando verrà tra poco a mettere le mani nelle mani del vescovo, possa dire nel suo cuore: “Io ti offro la mia vita, o mio amabilissimo Signore, io ti offro tutto di me, tutto di me. ‘Tutto l’esser mio, prendilo, Signor’. Nelle tue mani affido la mia vita: tutti i miei giorni, tutti i miei beni, tutti i miei affetti, tutti miei effetti: talenti, risorse, e perfino limiti e fragilità. Non voglio trattenere nulla per me. Neppure l’affermazione. Neppure la realizzazione. Neppure la gratificazione”.

Che ognuno di voi, quando arriverà l’ora nona della sua vita, possa dire in tutta sincerità e con intima gratitudine: “Nella semplicità del mio cuore, lietamente, mio Dio, ti ho dato tutto”.

Che ognuno di voi possa vivere ogni giorno del ministero sacerdotale come fosse il primo, come l’ultimo, come l’unico, e ogni sera possa cantare a cuore spiegato: “Tu, Dio, che conosci il nome mio, fa’ che ascoltando la tua voce, io ricordi dove porta la mia strada, nella vita, all’incontro con te”. Sì, cantate così, carissimi, ogni sera, fino all’ultima sera, quando sarà la fine: una festa senza fine…

Nel commento al vangelo del buon Pastore, s. Gregorio Magno afferma che “amare è già un camminare – amare iam ire est“. Preghiamo Maria, la Madre del buon Pastore, di rischiarare con il suo materno, dolcissimo sorriso tutto il vostro cammino, e di farvi dono della pace, di ogni bene e soprattutto del bene della perfetta letizia.

+ Francesco Lambiasi