Missionari come Maria

Omelia tenuta dal Vescovo in occasione del pellegrinaggio diocesano a Loreto

Diciamo vangelo e pensiamo a un libro. Proviamo a dire vangelo e a pensare a un arazzo, i cui fili policromi creano varie figure, immagini e ornamenti variopinti. Nel riquadro dell’arazzo evangelico che ci è stato appena raffigurato (cfr Mc 9,30-37), le immagini delineate sono tre: Gesù, il gruppo dei discepoli e il bambino, posto da Gesù in mezzo ai discepoli. E di diversi colori sono i fili che delineano le tre immagini. Al centro della scena si staglia la figura di Gesù, autoidentificato nel Figlio dell’uomo, che viene “consegnato nelle mani degli uomini e ucciso”. L’immagine è intessuta da fili di colore rosso sangue, e corrispondono ai verbi della violenza ingiustamente inflitta a Gesù, ma da lui liberamente accettata. Sono verbi raggelanti: perseguitare, processare, crocifiggere. Poi, nell’immagine dei discepoli, che litigano tra di loro per decidere chi sia il più grande, spiccano i fili di colore viola e indicano i verbi della rivalità: gareggiare, emergere, primeggiare. Infine, nell’immagine del bambino, al centro del cerchio dei Dodici, prevalgono i colori pastello – verde acqua, rosa confetto, azzurro cielo – ed esprimono i verbi della tenerezza: abbracciare, accogliere, custodire, onorare. In particolare i verbi relativi ai discepoli dicono in negativo come non deve essere il missionario, mentre quelli riferiti a Gesù, che si fa ultimo e servitore di tutti, e che abbraccia il bambino, viene ordita in positivo la figura del discepolo-missionario.

1. Ora esploriamo prima il versante negativo del missionario, il quale non deve farsi mai aggredire dal virus della rivalità e dell’invidia, che lo porterebbe fatalmente a concorrere, a competere e confliggere con tutti. Nella seconda lettura (Gc 3,16-4,3) si parla della “sapienza dall’alto”, ispirata a una logica evangelica, che a sua volta ispira uno stile cristiano. Una sapienza di altissimo profilo, alternativa a una logica mondana e a uno stile “carnale”: egoista, possessivo e aggressivo. Tre sono i criteri per riconoscere questa sapienza che viene dall’alto: la mansuetudine, che si contrappone al fanatismo violento, tipico di una società in cui ogni essere umano diventa lupo per ogni altro. Poi la pace, come realizzazione completa delle esigenze di ogni persona che anela alla propria pienezza. Queste due virtù fanno fruttificare la giustizia, intesa come il bene che Dio sogna per tutti i suoi figli, in termini di relazioni oneste e costruttive. Pertanto, in positivo, il missionario è colui che si impegna in un’apertura mite e accogliente, e non si lascia mai intossicare dai veleni di un’arroganza fanatica e violenta.
Continuando la rappresentazione in positivo del vero missionario, il vangelo ci aiuta a pennellarne il ritratto, segnalando dove stia la sua vera grandezza. Mentre l’uomo vuole scalare i vertici delle hit-parade in ogni campo, la sapienza evangelica indica la strada dell’abbassamento come quella che conduce alla vita. E’ la strada del servizio verso tutti. Gesù non azzera il desiderio di realizzarsi, che ogni persona nutre in cuore, ma lo orienta altrove, in una vera rivoluzione copernicana: dalla logica del pavone che ostenta la sua bellezza, alla logica del pellicano che si ferisce per nutrire i suoi piccoli.

2. Ma ora vediamo cosa c’entri Maria in questa nostra riflessione, che avviene nel contesto di questo pellegrinaggio diocesano, voluto per ottenere la grazia di buoni frutti per l’anno della Missione diocesana e per il Giubileo della misericordia. Maria c’entra, eccome, perché ha generato il primo e più grande Missionario. C’entra benissimo perché quando si reca presso la cugina Elisabetta, sembra muoversi sotto lo stesso impulso che ha spinto Gabriele a portare a Nazaret la buona notizia della venuta del Salvatore. Dell’angelo infatti l’evangelista dice che “fu mandato da Dio”. “Mandato“, tipico verbo missionario. Certo, quando lo Spirito Santo scende sugli apostoli nel cenacolo, è presente anche lei, che poi però non va in missione come i Dodici. Ma non è forse vero che senza il combustibile della contemplazione, il fuoco della missione non si accende?

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         Santa Maria, prima donna missionaria e annunciatrice di Gesù, vangelo fatto carne, tu donna umile e povera, tu che non ti sei mai ripiegata su te stessa, aiuta la nostra Chiesa a guarire dalla piaga dell’autoreferenzialità, che la fa rannicchiare al suo interno, la spinge a raggomitolarsi su se stessa, sistemandosi nelle sue strutture protette e nelle sue nicchie dorate. Libera le nostre comunità dalla sindrome dell’autocontemplazione compiaciuta o del ripiegamento angosciato, che contagia l’epidemia dell’indifferenza verso i poveri e non fa più gioire con chi gioisce e piangere con chi piange. Affrancaci dalla schiavitù dell’idolo del narcisismo che droga e uccide anche a livello comunitario, quando l’appartenenza al gruppetto è più forte di quella alla comunità; quando ci si divide fino a contrapporsi tra i “nostri” e gli “altri”. Facci rintronare nel cuore il grido di papa Francesco: No alla guerra tra di noi!

Santa Maria, missionaria orante ed evangelizzatrice adorante, aiutaci a guarire dalla piaga del martalismo, l’ipertrofia patologica dell’attivismo, prodotto dalla morbosa presunzione di chi si illude di poter far conto solo sulle proprie risorse e strutture, di chi si appoggia sulle ricercate strategie organizzative che sa mettere in campo, dimenticando l’insostituibile primato della grazia. Liberaci dalla tentazione di vivere il ministero in modo burocratico e formale, da meri impiegati, compulsivamente impegnati ad elaborare progetti, a stilare programmi, e implacabilmente accaniti nel calcolare entrate e uscite, confondendo l’efficienza tecnica con l’efficacia evangelica, scambiando l’urgenza delle tante cose da fare con la prioritaria importanza di vivere in ogni situazione, buona o avversa, i sentimenti che furono in Cristo Gesù.

Santa Maria, missionaria del vino nuovo, tu che hai avvertito come la vecchia alleanza era ormai logora, e a Cana hai chiesto a tuo Figlio un acconto del vino dell’alleanza nuova ed eterna, aiutaci a guarire dalla piaga dell’immobilismo, a riprenderci dai mesti ristagni di chi ormai è andato in automatico, a sconfiggere la monotona assuefazione al “si è sempre fatto così”. Ricordaci che il vino nuovo va versato e conservato in otri nuovi. Non farci accontentare mai della semplice amministrazione. E quando non ci va di uscire dalla chiesa per attraversare la piazza, non limitarti a commuoverci, ma corri a smuoverci con la scossa di una salutare inquietudine per andare in cerca dei “lontani”. Facci preoccupare sempre e solo per l’evangelizzazione, molto più che per l’autopreservazione. E non stancarti di ricordarci che la vera tradizione non consiste nel conservare la cenere del passato, ma nel trasmettere il fuoco del futuro.

Santa Maria, missionaria del silenzio, donna di poche parole, tu che nel vangelo hai parlato in tutto appena quattro volte – all’annuncio dell’angelo, poi quando hai intonato il Magnificat, e poi ancora quando hai ritrovato Gesù al tempio, e infine a Cana di Galilea – aiutaci a guarire dalla piaga del terrorismo delle chiacchiere, delle mormorazioni e degli squallidi pettegolezzi. Ricordaci quanto san Paolo ci dice con il suo solito linguaggio senza peli: “Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, per essere irreprensibili e puri”. Perché la purezza della lingua dice la purezza del cuore molto più di quella delle “mani pulite”. Quando ci avvolgiamo nelle ragnatele dei nostri morbosi chiacchiericci, somministraci la medicina del silenzio dell’adorazione e suggeriscici le parole buone della correzione fraterna.

Santa Maria, missionaria della gioia, tu che sulla soglia della casa di Elisabetta hai cantato il Magnificat e, mentre lo salmodiavi, ti sarai senz’altro librata nei cadenzati volteggi della danza, aiutaci a guarire dalla piaga della tristezza. Quando noi, missionari del tuo Figlio, rischiamo lo sconforto e ci ritroviamo sull’orlo dei crepacci della disperazione; quando rimaniamo storditi dai miasmi degli immancabili insuccessi e delle penose frustrazioni, facci aspirare ondate abbondanti del profumo della gioia. Dacci la nostalgia del centuplo evangelico, incassato da chi, secondo la logica di tuo Figlio, sceglie di slancio il ruolo meno spasimato, non scarta mai il servizio più umile e faticoso, opta sistematicamente per la missione meno ambita e gloriosa. Facci sgomitare per l’ultimo posto, dove non arriva la luce dei riflettori, dove non si guadagna la segnalazione a premi, medaglie e onorificenze. Strappa dai nostri visi afflitti le maschere da funerale e i mesti costumi da quaresima permanente. Aiutaci a lavarci la faccia dai trucchi dei nostri ridicoli carnevali. Donaci i limpidi sorrisi del mattino di Pasqua. E liberaci dalla rassegnazione. Ora e fino all’ora della nostra morte. Amen.

Santuario della S. Casa, Loreto, 19 settembre 2015

+ Francesco Lambiasi