L’incanto del Natale. Lo stupore di diventare figli

Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa della Notte di Natale
Rimini, Basilica Cattedrale, 2011

Nel presepe classico della tradizione italiana c’è un personaggio che non può assolutamente mancare: lo stupìto. E’ un pastorello che tiene la mano a visiera sugli occhi: viene generalmente posizionato su una collinetta di muschio, e guarda incantato, a debita distanza, la scena stupefacente della natività. Nel lessico cristiano, alla voce stupore si trova un rimando: “vedi alla voce Natale”. E’ così: a Natale non ci si imbatte in un Dio che incute terrore, semina panico, scaglia implacabile folgori e fulmini, come un Giove eternamente infuriato che stringe in una mano un fascio di saette fiammeggianti, sempre pronte per l’uso. No, il primo messaggio che l’angelo rivolge ai pastori sommersi dalla luce che piove dal cielo e intimoriti per quello spettacolo grandioso è invece rassicurante: “Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia”. E il segno per identificare quel neonato come il Salvatore Messia e Signore, non è una serie infinita di effetti speciali. Il segno è piuttosto un normalissimo bebé, “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”, né più né meno come un cucciolo qualunque di una qualunque coppia di pastori appena nato: tenero e fragile come loro, che dorme e succhia il latte come loro, che come loro ha per culla una ordinaria, semplicissima mangiatoia.

1. Di Dio non dobbiamo avere più paura

Passano gli anni, ma del Natale non riusciamo a stancarci. Non è forse perché la ricorrenza risveglia in noi sentimenti di tenerezza, di misericordia, di fiducia? Certo, ma a me sembra che il motivo di tanto fascino sia ancora più profondo: il Natale viene puntualmente a ricordarci che di Dio non dobbiamo avere paura. Un bambino incute forse terrore a qualcuno? No, perché può guardarti solo dal basso. E’ chi ci guarda dall’alto in basso che ci mette paura. Ecco il mistero del Natale: Dio non è un sovrano altezzoso che ci guarda dall’alto del suo irraggiungibile piedistallo. Scende nel nostro abisso. “Per noi uomini discese dal cielo”, anzi è sceso ancora più giù di tutti noi, ed è venuto a dirci: “Non abbiate paura. Io sono nato per voi. Non abbiate paura: il Padre mio vi ama”.

Questa è la lieta notizia del Natale: Dio è nostro Padre e noi siamo i suoi figli. Parola di Gesù! “Guardate quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”, scrive sbigottito l’apostolo Giovanni. Sono parole percorse da una vertigine mozzafiato, quasi di incredula sorpresa: “quale grande amore!”. In effetti quello di Dio Padre è un amore così grande che più grande non si può. Lo stupore è dovuto al fatto che l’attributo di Padre sia per Dio non uno dei tanti che gli si possano o debbano attribuire – come l’Infinito, l’Immenso, l’Eterno, l’Onnipotente eccetera – ma che Padre sia il suo nome proprio, e che noi siamo suoi figli per davvero!

Noi cristiani siamo talmente abituati a dire e a ridire che siamo figli di Dio, che ormai questa formuletta è diventata una sorta di chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Quando si dice l’abitudine: è proprio vero che la nemica mortale dello stupore è l’assuefazione. Per farci capire la grandezza smisurata e l’indicibile bellezza dell’essere figli di Dio, san Paolo ci sbalordisce ulteriormente facendoci ascoltare lo stesso grido di Gesù, il quale, quando pregava, si rivolgeva a Dio chiamandolo Abbà, Papà mio, Babbo caro. Ecco la prova che siamo figli, esplode Paolo: è il fatto che quel grido di tenerezza lanciato da Gesù – Abbà – ora risuona nei nostri cuori. La conclusione che ne tira l’Apostolo è abbagliante: quindi non siamo più schiavi. Nemmeno di Dio siamo più schiavi! Comportarci da schiavi nei suoi confronti è cosa che lo colpisce al cuore e lo offende a morte. Vivere da figli o invece da schiavi fa una bella differenza. Questa differenza la si onora già dal tono di voce che usiamo per parlare di Dio o per parlare a Dio. Se Dio viene creduto come Padre-Papà, allora il tono di voce dirà affidamento a lui. Se invece Dio viene pensato come un Faraone, allora la voce dirà assoggettamento. Il Faraone è uno che rende schiavi. E lo schiavo è uno al quale il Faraone toglie la vita, perché ai suoi occhi non è nessuno. Oppure qualcuno, gliela toglie, per eccesso di zelo, volendo così compiacere il Faraone.

2. Solo il Dio di Gesù è veramente Padre

Tra il tenero affidamento di un figlio al babbo e l’assoggettamento sottomesso di un servo al suo signore scorre tutta la differenza che fa del cristianesimo una religione unica, talmente originale da essere diversa da tutte le altre.

Il Dio cristiano è del tutto originale rispetto alle divinità pagane. E’ vero che i latini chiamavano Giove, Juppiter – nome che deriva da Zeus Pater – ma intendevano per “padre” l’autorità superiore, e niente più. Ad esempio, in Omero, nello stesso verso Giove è invocato insieme come “nostro padre e sovrano supremo” (Odissea, 1,45). Del resto, appena si pensi a ciò che significava nel mondo latino la figura severa del paterfamilias, che aveva diritto di vita o di morte su tutti i singoli membri del gruppo familiare – dalla moglie agli schiavi – ci si rende conto che l’antichità ignorava anche la sola idea di una figura paterna esclusivamente connotata dalla bontà, ma vi congiungeva sempre quella di potere.

Il Dio cristiano è originale rispetto all’Islam. Secondo il Corano, Allàh non ha mai generato nessuno. Nell’elenco tradizionale dei Novantanove Nomi di Allàh, quello di Padre è totalmente assente. E’ vero che ogni sura del Corano inizia con la formula “Nel nome di Allàh clemente e misericordioso (ar-Rachmàn waar-Rachìm)”, ma la clemenza e la misericordia qui invocate non sono quelle di un padre affettuoso, bensì quelle di un sovrano benevolo.

Il Dio cristiano è originale anche rispetto al Dio ebraico: il Dio di Mosè, di Davide, di Isaia, per quanto clemente e misericordioso, è pur sempre un Dio che quando viene a visitare la creazione, i monti si sciolgono come cera, e nessuno può vederlo senza rimanerne tramortito. Gesù invece ci presenta un Dio in cui la paternità – una paternità tenera e misericordiosa, addirittura “materna” – è assolutamente primaria: basti pensare alla parabola del figlio prodigo, che dovrebbe essere meglio etichettata del padre misericordioso, in cui la bontà del padre non ha limiti, neanche le sfacciate pretese di un figlio snaturato, neanche il suo comportamento depravato, neanche il suo – alla fin fine – interessato ravvedimento.

3. Giovani, aiutateci a fissare la stella di Natale

Permettetemi ora, fratelli e sorelle, di dedicare in conclusione un pensiero ai giovani. Lo sappiamo: i giovani di oggi si sentono orfani. Si percepiscono disorientati in universo illimitato, si ritrovano soli e smarriti nel villaggio globale. I maestri del nulla hanno loro insegnato che discendono dalla scimmia e sono destinati ad andare a finire nella buia voragine dello zero assoluto. E i giovani sono le vittime più esposte e più indifese di questa catastrofica crisi finanziaria che sta scippando loro un futuro all’altezza di una piena umanità.

Vorrei allora rivolgermi ai giovani cristiani e lanciare questo messaggio dall’umile e povera capanna di Betlemme.

Cari giovani, da troppi anni il Natale in Occidente era diventato il Natale del dell’abbondanza extra-large, del consumismo godereccio, addirittura dello spreco più sfacciato. Ora voi avete la possibilità di far vedere a noi adulti che di fronte a questa crisi non siete rassegnati. Magari sarete pure giustamente indignati, ma vi sentite anzitutto impegnati a coglierne le opportunità e a raccoglierne le sfide che essa rilancia, per riscoprire valori come la speranza, la sobrietà, la solidarietà. Diteci con il linguaggio dei comportamenti coerenti e con il lessico dei fatti concreti che non è Natale per chi fa tragedie per non riuscire a fare bella figura con i regali dispendiosi degli altri anni. Non è Natale per chi si commuove alla televisione di fronte ai bambini ridotti a pelle e ossa per il dramma della fame, e poi è scontento di una tavolata meno affollata di prelibatezze. Non è Natale per chi ha paura di andare in giro senza vestiti griffati all’ultima moda, ma con le scarpe e i jeans dell’anno scorso e con il vecchio modello di telefonino.

Ma soprattutto fateci vedere che siete ancora capaci di lasciarvi afferrare da quel brivido di stupore che ci regala il Natale di Gesù, lo stupore di quanti lo hanno accolto e nel battesimo sono stati immersi nel suo amore, sono diventati figli di Dio e si riconoscono fratelli nel suo nome. Fateci vedere con fatti di vangelo che credete nella possibilità di realizzare la società del gratuito, come hanno dimostrato gli “angeli del fango” nei giorni dell’alluvione di Genova, come ci hanno fatto toccare con mano i giovani della GMG di Madrid, così come ci stanno facendo vedere i tantissimi giovani impegnati nel mondo delle associazioni e del volontariato, come pure i non pochi giovani di talento che stanno dando il loro contributo ad uscire dal tunnel della crisi non per tornare alla situazione precedente, ma per cambiare rotta e avviarci verso la società del bene comune e dell’economia di comunione.

La gioia del Natale sia la prova del nove della vostra fiducia e la luce della stella cometa aiuti voi – e noi adulti attraverso di voi – a non tenere la testa bassa, nemmeno quando è buio.

+ Francesco Lambiasi