Imparare a diventare fratelli

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della celebrazione eucaristica per la Giornata Mondiale della Pace
Rimini, Basilica Cattedrale, 1 Gennaio 2012 –

Una parola fra molte brilla nella nostra liturgia e la illumina tutta: è la parola benedizione. Abbiamo proclamato poco fa: “Dio ci benedica con la luce del suo volto”. La benedizione è una fontana di luce che zampilla dall’alto, ma non è una luce diffusa e impersonale: scaturisce dal volto stesso di Dio. Spesso, invece, nell’immaginario collettivo “benedizione” è diventata parola opaca e spenta: evoca soltanto forme superficiali di religiosità, formule imparaticce borbottate in fretta, cerimonie meccaniche e ripetitive. Al contrario, nel vocabolario biblico la benedizione è un dono che ha un rapporto con la vita e il suo mistero: indica le meraviglie della generosità divina e l’intensità dello stupore che la sua gratuita e feconda benevolenza suscita nella creatura. La benedizione è sia dono che parola: è “bene-dizione”: non appartiene alla sfera dell’avere, ma a quella dell’essere; non deriva dall’azione dell’uomo, ma dalla creazione di Dio.

 

1. La benedizione è strettamente collegata al tema della pace: “Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace”. Siamo così ricondotti al mistero del Natale:

“Il Natale del Signore è il natale della pace”, scrive s. Leone Magno, e commenta: “Per onorare la presente festa che cosa possiamo trovare di più confacente, fra tutti i doni di Dio, se non la pace, quella pace che fu annunciata la prima volta dal canto degli angeli alla nascita del Signore? La pace genera i figli di Dio, nutre l’amore, crea l’unione; essa è riposo dei beati, dimora dell’eternità. Suo proprio compito e suo beneficio particolare è di unire a Dio coloro che separa dal mondo del male”.

Benedizione e pace sono due parole che si leggono in trasparenza sul volto di Maria, la Madre di Dio. Lei è la benedetta fra tutte le donne e nel suo grembo, come canta Dante, “… si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’eterna pace / così è germinato questo fiore”. San Paolo ci ha ricordato l’evento centrale della nostra salvezza: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5).

Vorrei ora brevemente riflettere sul tema della pace – in sintonia con il messaggio del Papa per questa 45.a Giornata Mondiale della Pace – ponendomi una domanda preliminare: in che senso un cristiano, precisamente in quanto cristiano, può contribuire al tema della pace? La risposta è di una chiarezza brillante, ma il suo messaggio è ancora più luminoso: incarnando nel mondo quell’ideale di pace che Gesù è venuto a portare agli uomini e che risuonò sulla grotta: “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”.

Al tempo di Gesù, tutto il mondo sembrava vivere finalmente l’aurora di un’era di pace: sorgeva sul mondo il sole della pax romana, che Ottaviano Augusto aveva instaurato in tutto l’orbe dopo due secoli di guerre interminabili e sanguinose. Era la pace frutto della guerra; era il silenzio delle armi, perché Roma ormai aveva vinto, e si poteva definitivamente chiudere il tempio di Giano, perché Marte, il dio della guerra, aveva assegnato alle aquile romane il dominio sul mondo intero.

In quel tempo, in Palestina, la parola pace risuonava in un significato del tutto diverso: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. L’uomo che annunciò questa pace, fu messo a morte proprio come perturbatore della pace pubblica, come ribelle e sovversivo: “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare i tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”, dissero di lui consegnandolo a Pilato (Lc 23,1). Evidentemente la sua pace non combaciava con quella di Cesare, che voleva la quiete dell’ordine stabilito e imponeva la servile sottomissione dei moltissimi poveri sotto il giogo dei pochissimi ricchi e potenti.

Che cos’era dunque la pace nuova di Gesù? San Paolo, riflettendo nella luce dello Spirito sul mistero della morte di Gesù, arriva a dire che Gesù stesso “è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva (…) eliminando in se stesso l’inimicizia” (Ef 2,14ss). Ecco la pace che Cristo ci ha comunicato: Gesù non ha folgorato i nemici che lo hanno portato alla morte, ma li ha perdonati. In questo modo non ha distrutto i nemici, ma l’inimicizia, e l’inimicizia non l’ha distrutta fuori, ma dentro di sé. Questa pace non si ferma entro il confine del singolo cristiano, poiché da essa nasce una comunità di pace, facendo dei due acerrimi nemici – ebrei e pagani – “un popolo solo”, la Chiesa, lievito e fermento di una umanità nuova, riconciliata nella pace.

 

2. Nel momento di consegnare il messaggio del Papa per questa giornata – dal titolo: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace” – vorrei riprendere un passaggio del testo, dedicato alla educazione dei giovani alla libertà, valore prezioso e delicato, ma oggi minacciato da un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa, qual è il relativismo etico che

“non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l’uno dall’altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio io” (n. 3).

E’ vero: c’è una libertà “negativa”, che consiste nel non essere “invasi” dagli altri e nel potersi gestire in modo del tutto autonomo e volontario, a patto che non li “invadiamo” a nostra volta: è la libertà da loro. Ma c’è un’altra libertà che, invece, possiamo chiamare “positiva”, e riguarda la possibilità di essere realmente e integralmente uomini. E’ la libertà con gli altri. Nel primo modello le diverse libertà si escludono a vicenda: dove comincia l’una, finisce l’altra. Nel secondo caso, al contrario, la libertà dell’uno comincia dove comincia la libertà dell’altro e finisce dove quella finisce.

L’educazione deve tener conto di entrambi questi aspetti – negativo e positivo della libertà – che, di per sé, non si escludono a vicenda, ma possono e devono essere complementari. E’ giusto infatti che la legittima autonomia personale sia tutelata, e venga promosso il diritto di ciascuno di fare le proprie scelte, secondo coscienza, ma educando i giovani ad assumersi il rischio che l’autonomia non sconfini in un’autogestione della libertà a proprio uso e consumo, e che per coscienza individuale non si finisca per intendere il proprio volubile capriccio: insindacabile, incosciente, irresponsabile. Ma, per altro verso, sarà importante far percepire al giovane che egli è veramente libero solo quando non si chiude nel bozzolo dorato di un’autoreferenzialità ripiegata e soffocante, ma è capace di aprirsi agli altri e di prendersene cura.

Insomma si tratta di smascherare i miti di una società individualista che identifica unilateralmente la libertà con l’autonomia, lasciando sistematicamente in ombra quell’altro aspetto costitutivo per cui essa è anche responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Infatti non è vero che le parole che dico, le scelte che compio, i gesti che faccio, i doveri che ometto, le regole che non rispetto “sono fatti miei”. L’individualismo non è cattivo, è semplicemente falso. E’ completamente falso che siano “fatti miei” le trasgressioni delle regole più elementari della convivenza civile, quali ad esempio quelle relative al traffico stradale o al deposito dei rifiuti. E non è affatto vero che sono “fatti miei” le trasgressioni dei doveri fondamentali, come quello della competenza e dell’onestà nell’esercizio della professione. Non è indifferente che un medico, un sacerdote o un professore sia preparato o meno nell’ambito della sua materia, come non è affatto irrilevante – al fine della giustizia e della pace sociale – che un politico favorisca il sistema clientelare, o si attenga invece alle procedure democratiche e persegua il bene comune della collettività. In positivo, la decisione di un giovane di fare il maestro elementare o il proposito di andare a fare il missionario in Africa rientrano nell’ambito di quelle scelte che incideranno sulla vita di migliaia di persone.

Ma oggi è anche urgente educare alla cittadinanza mondiale e all’interculturalità. La famosa battuta secondo cui il battito di una farfalla a Tokyo può provocare un uragano in Australia rivela tutta la sua verità nelle vicende dell’economia, ma è valida anche per i processi culturali, sociali e addirittura spirituali. E’ anche di fondamentale importanza diffondere la consapevolezza che le differenze etniche e culturali non sono una minaccia, bensì una risorsa, a patto che esse non si limitino a coltivare rapporti di buon vicinato, come gli isolotti di un arcipelago, secondo il modello di una pura e semplice multiculturalità, ma che si sforzino di comunicare e interagire, trovando il modo di contribuire alla costruzione e alla continua revisione di un orizzonte comune di valori condivisi.

Ora preghiamo.

“Dio della pace, non ti può comprendere chi ama la discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza: dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito, e a chi la ostacola di essere sanato dall’odio che lo tormenta, perché tutti si ritrovino in te, che sei la vera pace.

Signore Gesù, donaci lo Spirito del tuo amore, perché insieme con la Vergine Maria diventiamo costruttori della pace, che ci hai lasciato come segno della tua presenza in mezzo a noi.

Santa Maria, madre di misericordia e di pace, ottienici da Gesù, il frutto benedetto del tuo grembo, lo Spirito di carità e di concordia, perché diventiamo operatori della pace che il tuo Figlio ci ha consegnato come suo dono”.

+ Francesco Lambiasi