Il test della testimonianza Felici perché santi, e santi perché figli

Omelia tenuta dal Vescovo nella Festa di Tutti i Santi per il Convegno nazionale degli Animatori del Rinnovamento nello Spirito

Dio Padre ci vuole felici. La prima parola usata da Gesù alle folle nel celebre discorso della montagna è una parola scintillante di gioia: Beati! Diverse Bibbie, come ad esempio la francese, la spagnola, la portoghese traducono ‘beati’ con ‘felici’. Le beatitudini sono come uno squillo di tromba che risuona otto volte più una. Vengono proclamati beati-felici i poveri, i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia. In una parola, tutti coloro che hanno bisogno di felicità.

1. Gesù ci vuole felici. Si rivolge a quanti in questo mondo sembrano fatalmente condannati all’infelicità, stritolati in una morsa infernale: più piangono e più dovranno piangere. Secondo Gesù invece è proprio ad essi che la felicità viene generosamente offerta e gratuitamente donata. Ingenua, euforica utopia? Chimera illusoria? Frustrante miraggio? No, il Maestro di Nazaret annuncia che la morsa fatale è stata spezzata: da un lato perché vi è entrato il Figlio di Dio con tutta la misura smisurata e traboccante della sua divina felicità; dall’altra perché questo Figlio di Dio non considera un tesoro geloso l’incalcolabile capitale di felicità di cui è titolare, ma intende condividerlo proprio con gli sfortunati di questo mondo.

Gesù ci vuole felici. Che egli sia venuto al mondo non solo per liberarci dal male, ma per comunicarci la sua perfetta letizia, lo ha detto lui stesso: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28); “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”(Gv 15,11); “Ora io vengo a te (Padre) e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13). Di conseguenza sono beati tutti coloro che entrano in relazione con lui: Maria, che ha generato Cristo, “sarà chiamata ‘beata’ da tutte le generazioni” (Lc 1,48). “Beati (sono) gli occhi che lo vedono e le orecchie che lo ascoltano” (Mt 13,16). “Beato è il grembo che lo ha portato e il seno che lo ha allattato” (Lc 11,27) e ancor più beati sono “coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28). “Beato” è anche Simon Pietro che riconosce in lui, per grazia, “il Cristo, Figlio del Dio vivente” (Mt 16,17).

Gesù ci vuole felici. “Le beatitudini sono prima di tutto una proclamazione di felicità, e non soltanto una promessa di felicità. Sono una formula di felicitazione” (J. Dupont). Possiamo aggiungere: con le beatitudini Gesù constata un fatto più che dettare un dovere o esigere uno sforzo. I poveri, gli oppressi, gli amanti della giustizia possono già vivere nella gioia. Gesù non dice: “Beati quelli che si guadagnano il regno dei cieli”, ma quelli che sono poveri, miti, puri di cuore, perché tutto riceveranno in dono. Coloro che sono nel pianto, che hanno fame e sete della giustizia ottengono gratuitamente la felicità che solo Dio può dare.

Lo Spirito Santo ci vuole felici. Sostiene Gesù nell’operare il riscatto della nostra miserabile situazione attraverso il “meraviglioso scambio” (admirabile commercium): Gesù prende su di sé tutto il nostro male e ci dona tutto il suo bene; ci porta via la nostra miseria e ci dona la sua misericordia: ci partecipa la sua natura divina, ci contagia la sua divina filialità. Come il Figlio di Dio è “felice del Padre” (Padre,… sia santificato il tuo nome!”, è disposto ad ogni obbedienza (“Padre,… sia fatta la tua volontà”), è capace di ogni affidamento (“Padre,… nelle tue mani affido la mia vita”), così il Figlio ci fa felici facendoci figli. Abbiamo ascoltato il grido di stupore di Giovanni: “Vedete, quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3,1-2). La santità non è che la “misura alta” della vita filiale, la piena fioritura del seme di vita eterna seminato  in noi nel battesimo, quando siamo stati resi figli della luce. La santità non è né più né meno che vivere da figli felici, che non ricadono nelle tenebre dell’errore, ma restano luminosi nello splendore della verità. Nel dizionario dei sinonimi cristiani felicità fa rima con le altre due parole tra loro strettamente apparentate: filialità e santità.

2. In questo anno della fede, vorrei ritornare brevemente sulla prima beatitudine che riecheggia nel NT: è appunto la beatitudine della fede, quel grido di giubilante stupore che registriamo dalle labbra dell’anziana Elisabetta, rivolta alla giovane Maria di Nazaret: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). Solo perché ha creduto al messaggio dell’angelo, Maria ha potuto accoglierne tutta la gioia. Se Maria avesse esitato o dubitato, si sarebbe preclusa la possibilità di entrare pienamente nel disegno divino e di riceverne tutta la misura pigiata, scossa, traboccante della felicità che le era stata destinata.

Inoltre la fede di Maria contribuisce al compimento del messaggio. Essa costituisce la collaborazione richiesta dal progetto divino perché questo possa realizzarsi. La fecondità della fede di Maria è stata sottolineata da parecchi Padri della Chiesa. Primo fra tutti, sant’Agostino il quale dichiara: “Prima si produce la venuta della fede nel cuore della Vergine e in seguito viene la fecondità nel seno della Madre” (PL 38,1327). In Maria felicità della fede e felicità della maternità verginale combaciano perfettamente.

Ma il compimento annunciato dall’angelo non si limita al concepimento del Bambino. Questo messaggio annunciava tutta l’opera messianica. La fede che si è formata in Maria in risposta all’angelo ha esercitato un influsso su tutto l’avvenire di Gesù annunciato dall’angelo. Infatti Maria ha “avanzato come pellegrina sulla strada della fede” (LG 58). In Maria felicità della fede e felicità della sinergia con Dio nella storia della salvezza, coincidono al dettaglio.

3. Nella nostra società occidentale oggi la fede dei cristiani è sottoposta a una sfida, che data da più di due secoli. Risale al tempo dell’illuminismo, che ha scavato un fossato tra la figura del cristiano e quella dell’uomo. Basti ricordare il pesantissimo sospetto sollevato contro l’umanità dei cristiani, come nell’opera Nathan il saggio, di Efraim Lessing. Sittah, la sorella del Saladino, così mette in guardia il fratello: “Tu non conosci i cristiani e non vuoi conoscerli. Il loro orgoglio è essere cristiani e non uomini”. E un secolo dopo il padre dell’ateismo moderno, F. Nietzsche, nel suo L’anticristo, accusava i cristiani di “barbarie malata”, di “nausea e disgusto della vita per la vita”, e aggiungeva: “La Chiesa, con il suo ideale anemico di ‘santità’ beve fino all’ultima goccia ogni sangue, ogni speranza di vivere”, ogni gioia umana. A questa sfida i discepoli di Cristo hanno una prova inconfutabile da contrapporre: è il test di una umanità felice, nel duplice senso di umanità feconda e di umanità gioiosa. Ma non è questo anche il test della santità?

Il Papa non si stanca di ricordarci che “la gioia di credere è la responsabilità del cristiano: in questa ora della nostra storia dovremmo farla nostra con animo nuovo”.

Fratelli e sorelle: la porta della fede ci è stata aperta. Camminiamo con Maria, la Tuttasanta, “umile e alta più che creatura”, la madre della nostra fede; camminiamo con tutto il popolo santo di Dio che è la Chiesa verso la casa del Padre. Dentro questa fiumana di gente che cammina sulla strada del ritorno, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebr 12,1s).

Rimini Fiera, 1 novembre 2012

 + Francesco Lambiasi