Il pastore innamorato del gregge

Io offro la mia vita per le mie pecore

1. Nella bolla con cui mi nominava vescovo di questa eletta e benedetta Diocesi di Rimini, il Santo Padre Benedetto XVI mi esortava a meditare le seguenti parole di s. Agostino: “Cosa voglio? cosa desidero? cosa bramo? perché parlo? perché qui siedo? perché vivo? se non per il proposito che tutti vivano in Cristo?” (Disc. 17,2).

A trenta giorni di distanza dal mio insediamento sulla cattedra di s. Gaudenzo, questa festa – che è anche festa del vescovo – mi aiuta a trovare una risposta. E’ vero che del nostro patrono noi abbiamo poche notizie storicamente sicure; di lui però sappiamo l’essenziale, e cioè che è stato un vescovo martire, dunque un pastore che ha dato la vita per la vita e la fedeltà alla sana dottrina del gregge affidatogli, a imitazione di Cristo Signore, unico vero, buon Pastore.  Questo “essenziale” non ci basta? Per me basta e vale moltissimo, perché più che fare della vita di s. Gaudenzo una lettura agiografica – che si interessa a ciò che di eroico s. Gaudenzo ha fatto nella sua vita – ci spinge a fare una lettura profetica, cercando di capire ciò che Dio ha voluto e vuole dire alla nostra Chiesa attraverso di lui: s. Gaudenzo, messaggero di Dio.

In questa prima – per me – festa del nostro santo patrono, permettetemi però, sorelle e fratelli carissimi, di limitarmi a tentare di dire ciò che il Signore vuole dire a me attraverso la vicenda di s. Gaudenzo. Si è già capito che questa omelia, più che indirizzata a voi, lo è proprio a me: è come una sorta di soliloquio ad alta voce. Questo, non certo per un morboso narcisismo autocelebrativo: la parola di s. Paolo ci interdice – come abbiamo ascoltato nella 2.a lettura – di “predicare noi stessi”, ma non credo che mi proibisca, penso anzi che mi richieda, che io vi dica quale ideale e modello di vescovo mi proponga s. Gaudenzo. E’ il modello e l’ideale da lui stesso seguito fino all’effusione del sangue: Cristo, il Pastore vero e bello, grande e buono, che offre la vita per le sue pecore.


2. Tenera e drammatica, l’immagine del Buon Pastore è in assoluto la più antica dell’arte paleocristiana. Dopo che era stato superato abbastanza rapidamente il tabù ebraico contro le immagini, sulle pareti delle catacombe romane – prima di Priscilla e poi di S. Callisto – compariva la rappresentazione di un Cristo dai delicati tratti apollinei, con la pecorella smarrita, sulle spalle. L’immagine, con tutto l’incanto della sua dolcezza e con l’impeto della sua alta tensione, non finisce di stupire e di provocare. Una ventina di anni fa padre Turoldo, in una serie di articoli pubblicati sul Messaggero di sant’Antonio, si chiedeva: saremo mai in grado di capire la bellezza e la forza di questa rivelazione? La nostra – continuava padre David – si presenta come una “civiltà nucleare e ingegneristica, per molti aspetti pragmatica e devastatrice di senso; civiltà senza grazia e senza amore”: non rischia essa di relegare il “buon pastore” in un mondo di favole languide e patetiche?


Come sappiamo, non è stato Gesù il primo a creare il cliché del pastore premuroso e intrepido, per dire il volto di Dio: questa immagine egli la trova nel vivace repertorio delle metafore dell’Antico Testamento. Ma, ancora una volta, Gesù non ripete meccanicamente le Scritture: le riprende, le rinnova e le supera.

Per vedere da vicino questo “compimento”, riprendiamo le tre funzioni autenticamente “pastorali”: radunare e guidare il gregge; nutrirlo con pascoli erbosi e dissetarlo con acque limpide e tranquille; difenderlo dalle intemperie e soprattutto dall’assalto di ladri e lupi rapaci.

Originalissimo Gesù! è un pastore che conosce le sue pecore e le chiama una per una (v. 3). Non esiste per lui una pastorale “di massa”, perché per lui la massa, la quantità semplicemente non esiste; per Gesù esistiamo come popolo, non come un aggregato fatto di numeri, ma come una comunità fatta di volti e di nomi: fatta di persone. E’ per questo che per lui una sola pecora vale quanto, anzi addirittura più che l’intero gregge. Un solo peccatore convertito dà più gioia a Dio di 99 giusti che non hanno bisogno di conversione. Perciò la formula-base dell’aritmetica matematicamente “impossibile” di Gesù si può semplificare così: 1 = 100-1. E’ l’aritmetica dell’amore, per cui il “Pastore innamorato” (Turoldo) ama ogni singolo con un amore totale. Per questo, quando si tratta di salvare una sola pecora smarrita, il Messia-Pastore fa come il Padre: non smette di cercarla “finché non la ritrova”. La sua è una ricerca ostinata, tenace: per nessun motivo al mondo è disposto ad abbandonare la pecora al suo destino.

E – da notare ancora – per andarla a cercare, non lascia le pecore nell’ovile, al sicuro, come sarebbe ragionevole fare, ma “nel deserto”, a rischio di trovarne al suo ritorno più d’una sbranata dai lupi o trafugata dai ladri e altre ancora smarrite e disperse. Il pastore del vangelo fa così perché non ha pecore da buttare, e anche se ne ha molte, si preoccupa di ognuna, come se fosse l’unica, anche se si trattasse di quella più scapestrata. Da notare inoltre che, una volta che l’ha ritrovata, non l’azzoppa – come faceva un pastore normale – perché impari finalmente a non smarrirsi più, ma se la mette sulle spalle “tutto contento”. Non la obbliga a rifare a piedi la via del ritorno. La fatica la fa tutta lui, il pastore, perché non vede l’ora di fare festa, e di fare festa più per la pecora recuperata che non per le novantanove rimaste sane e salve nell’ovile. Queste cose non le aveva dette mai nessun profeta. L’originalità insuperabile di Gesù brilla in modo ancora più lampante se facciamo un confronto con il vangelo apocrifo cosiddetto di Tommaso, dove la ricerca instancabile del pastore è dettata da una premura interessata, in quanto motivata dal fatto che la pecora andata perduta è “la più grassa”, e per questo, quando la ritrova, il pastore le dice: “Ti amo più delle altre 99”.


3. Originalissimo Gesù! è davvero un pastore fuori serie. Ogni pastore si dà pensiero di trovare erba e acqua per le pecore, ma non si è mai sentito dire al mondo che il pastore nutra “di suo” – con il suo corpo, con il suo sangue – il proprio gregge. Qui dobbiamo fare il salto dalla metafora alla realtà. Ci facciamo aiutare da Benedetto XVI nel suo ultimo libro – Gesù di Nazaret – dove commentando l’immagine giovannea del pastore, il papa si domanda: “Sappiamo di che cosa vivono le pecore; ma l’uomo di che cosa vive? (…) L’uomo vive della verità e dell’essere amato, dell’essere amato dalla Verità. Certo, l’uomo ha bisogno di pane, ha bisogno del nutrimento del corpo, ma nel più profondo ha bisogno soprattutto della Parola, dell’Amore, di Dio stesso” (p. 323). A questa fame dell’umanità risponde il Pastore buono dando del suo alle sue pecore, anzi dando tutto se stesso, con il pane della sua Parola e con quello del suo Corpo.

Originalissimo Gesù! è proprio un pastore scandaloso. Quando Ezechiele aveva descritto YHWH come pastore del suo popolo, gli aveva certamente riconosciuto un amore misericordioso che si prendeva cura delle pecore sbandate, ferite o malate, ma non avrebbe potuto attribuirgli l’intenzione di dare la vita per loro, perché solo un uomo poteva fare questo sacrificio. La nota distintiva del buon Pastore così come è descritta da Gesù – dare la propria vita per le sue pecore – costituisce una novità assoluta. Tutta la perfezione dell’amore di Dio per gli uomini non sarebbe bastata a rendere possibile questo passo, se il Figlio di Dio non fosse divenuto uomo lui stesso. “Io offro la mia vita per le mie pecore”: Gesù non è un mercenario, e pur di difendere il gregge dall’assalto di ladri e di lupi, mette a repentaglio la sua vita: la perdita anche di un solo agnellino gli fa un male da morire, da farlo morire come l’agnello immacolato, che viene immolato sulla croce!


4. Come si vede, queste pochissime righe del vangelo di s. Gaudenzo grondano messaggi da ogni parola, e offrono elementi preziosissimi per illustrare la… pastorale del Buon Pastore. E’ una pastorale che si caratterizza per diversi tratti assolutamente imprescindibili, di cui riprendo questi due, uno che riguarda tutti noi come “gregge” di Cristo, e l’altro che riguarda me come vostro pastore.

Il messaggio del buon Pastore è innegabilmente originale, poiché non è “modellato sull’uomo” e non viene dall’uomo, e dunque va accolto nella fede. La ragione umana, al limite, può arrivare all’esistenza di un Dio creatore, non di un Dio-Pastore. Ma neanche la fede ebraica poteva mai sospettare quale segreto fosse nascosto dietro questa immagine. Il segreto ci è rivelato in Cristo. In lui si incontra un Dio che è esclusivamente e totalmente e definitivamente Amore, quell’Amore che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito. Questo Figlio-Pastore ci è indispensabile: noi siamo il gregge del suo pascolo, siamo le sue pecore che da sole non possono salvarsi, possono solo sbandarsi e poi non riescono a ritrovare da sole la strada dell’ovile. Ma anche l’ovile ci è necessario: è la Chiesa, come ci ha ricordato il Concilio (LG 6). La Chiesa ci è necessaria, perché non siamo noi a salvare lei, ma lei a salvare noi.

E, per quanto mi riguarda più direttamente, il vangelo di s. Gaudenzo mi dice la relatività della mia funzione pastorale. Affidandomi questa porzione del suo gregge, il Pastore dei pastori non ha cessato di essere lui a guidare, a nutrire, a difendere le sue pecore. Io non sono pastore in proprio, ma… “per conto Terzi”, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Pertanto io devo verificare quotidianamente la mia consonanza con il “Capo dei pastori”, richiamando ogni momento alla mia coscienza l’essenziale relatività della mia funzione pastorale.

Continuate perciò a pregare per me, come state facendo dal primo giorno della mia venuta tra voi. Pregate perché io pascoli il gregge di Cristo che mi è stato affidato “sorvegliandolo non per forza, ma volentieri; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle pecore a me affidate, ma facendomi modello del gregge”. Allora, “quando apparirà il Pastore supremo”, riceverò anch’io “la corona della gloria che non appassisce” (cfr 1Pt 2,2-4).


Rimini, 14 ottobre 2007

+ Francesco Lambiasi

Vescovo