Dio ama chi dona con gioia

Omelia tenuta nel corso della liturgia funebre per le esequie di Don Filippo Di Grazia – Rimini, cattedrale, 12 agosto 2010

“Lode a te, o Cristo!”. Il Signore ci ha parlato: siano rese grazie a lui, perché la sua parola è balsamo per la piaga che ogni volta la morte riapre nel nostro cuore ferito; è luce per i nostri passi stanchi e incerti, fin quando non ci arde il cuore alla voce del Risorto e all’ascolto delle Scritture.

Il Signore ci ha parlato e ci ha piantato nell’animo tre semi di luce: Dio ama chi dona con gioia. Benedetto l’uomo che teme il Signore. Se il chicco di grano, caduto in terra, muore, produce molto frutto. L’ispirazione per la scelta dei brani da cui sono ricavate rispettivamente queste tre parole, mi è venuta dalla data del ‘santo viaggio’ di don Filippo, deceduto l’altro ieri, festa di san Lorenzo, per la cui celebrazione la liturgia proponeva appunto questi tre brani. Ritengo che, lette alla luce del cero pasquale, queste parole ispirate lascino emergere in filigrana, dietro il volto di san Lorenzo, il profilo interiore del nostro caro Don Filippo.


1. Il quadro della vicenda umana e cristiana di questo fratello è circoscritto nella cornice breve di poche date.

Don Filippo Di Grazia era nato a Catania nel 1924. A diciott’anni lasciò la città natale con l’incarico di istruttore nel collegio F.I.E (Figli degli Italiani all’Estero) di Montepulciano. Dalla sua terra natale si portava dietro il fuoco di un carattere ardente, generoso, passionale, sensibilissimo. La Romagna divenne la sua seconda patria da quando, nel 1948 iniziò ad insegnare, dapprima a Montecodruzzo, in una scuoletta di campagna, e poi a Rimini, nella frazione di Castellabate. Aveva il genio del formatore: insegnava educando, educava testimoniando. Così ha formato innumerevoli schiere di maestri e maestre, che hanno costituito il nerbo della scuola elementare riminese per decenni. Ma ha anche insegnato un metodo e soprattutto, è stato maestro di uno stile, di uno spirito educativo – fatto di ingredienti forti, come rispetto, affetto, servizio, gioia – uno spirito che si estrinsecò, negli anni successivi, in iniziative che hanno lasciato il segno. Fece parte, sotto l’egida della Compagnia di San Paolo, di un gruppo di laici, formato dalle figure più prestigiose del cattolicesimo riminese, quali Maria Massani, Ester Pasquinelli, Bruna Paolini e molti altri. Con Maria Massani ebbe un rapporto di profonda e vicendevole stima e collaborazione, che si è concretizzato nella realizzazione comune della Casa della Gioventù Studiosa di cui fu il primo Direttore. Nel 1956, quando sentiva impellente il richiamo alla vita sacerdotale, che non aveva potuto abbracciare negli anni dell’adolescenza a causa delle difficoltà provocate dalle vicende familiari e dalla guerra, dopo una breve parentesi politica, entrò in seminario e fu ordinato sacerdote nel giugno del 1959. Era stato un uomo prestato alla politica, ma conservò sempre forte il senso di responsabilità nell’agire per la promozione del bene comune, con un’attenzione particolare per il mondo dell’infanzia e della gioventù. Da subito, come sacerdote, è emersa la sua grande cordialità con i ragazzi, il suo saper stare con i bambini.

La vocazione di educatore lo portò a intraprendere, appena ordinato sacerdote, insieme a Don Oreste Benzi, il progetto di attenzione ai preadolescenti che fino a quel momento non godevano di una specifica considerazione pedagogica. Insieme istituirono il Consultorio Psicopedagogico per adolescenti ed insieme si accinsero alla realizzazione della Casa Madonna delle Vette di Alba di Canazei. Si recarono negli USA per raccogliere i fondi necessari. Negli anni successivi, per  le sue doti intellettuali e la sua solida cultura nel campo delle scienze umane, filosofia, pedagogia e teologia, divenne un punto di riferimento per singoli e comunità sia in Italia, sia all’estero. Mise a disposizione la sua casa privata per farne la sede di una comunità di quattro sacerdoti appena ordinati, consapevole del valore della fraternità in Cristo. La sua passione per i viaggi, iniziata nel 1950 con frequenti soggiorni in Germania, lo ha portato in giro per il mondo, arricchendosi di nuove esperienze, che hanno contribuito alla sua vasta apertura mentale. Per anni ha partecipato ai Consigli Mondiali delle Chiese in qualità di osservatore accreditato. E’ stato in India, dove ha venduto ogni suo bene personale (orologio, macchina fotografica, ecc) per vivere come i diseredati di Calcutta. Ha insegnato morale professionale alla Scuola Convitto per Infermiere Professionali, acquisendo una sensibilità particolare per i temi dell’etica, che ne facevano un’autorità in materia.

Dopo un lungo periodo d’insegnamento della teologia morale al Seminario Regionale di Bologna e di ecumenismo nel Seminario Diocesano di Rimini, per anni ha insegnato nell’Università Francescana in Palestina. E’ stato Assistente dell’UCIIM contribuendo all’arricchimento professionale e spirituale dei docenti delle scuole medie di cui ha fatto anch’egli parte avendo insegnato storia e filosofia nel Liceo Einstein di Rimini. Negli ultimi anni si è dedicato all’accoglienza degli ultimi, gli albanesi, mettendo a disposizione tutte le sue risorse umane ed economiche. Fino all’ultimo ha coltivato nella sua abitazione una intensa “amicizia” nel Signore con persone di ogni condizione, come confessore e come preparatore dei giovani alla esaltante, impegnativa esperienza del matrimonio cristiano.


2. In occasione dell’arrivo di sorella morte per Don Filippo, ho ricevuto molte testimonianze, che impastate con la parola di Dio, mi aiutano a modellare un suo profilo interiore, cercando di coglierne il testamento spirituale, in particolare per noi sacerdoti.

Abbiamo ascoltato: Dio ama chi dona con gioia. Cosa ha donato Don Filippo? Ha donato luce, ha donato pace e gioia. Un prete, suo figlio spirituale, lo scolpisce così: “Don Filippo è stato anzitutto uomo del dialogo: credo si possa affermare che non sapeva cosa è il pregiudizio. Vedeva in ogni essere umano una stupenda creatura di Dio e quindi era convinto che in tutti ci fosse un tesoro magari nascosto da scoprire e far brillare. Per questo motivo don Filippo è stato uomo di frontiera o, meglio, uomo-cerniera tra opposti apparentemente inconciliabili. I suoi tesori erano i ragazzi che accoglieva: ne parlava come fossero figli suoi e per loro si affaticava e, spesso, soffriva. Soffriva per le ‘cantonate’ che talvolta prendeva, perché rischiava l’ingenuità, quell’ingenuità tipica dei giusti, che mettono sempre gli altri prima di se stessi e non sanno cosa è il calcolo. Don Filippo è stato uomo di cultura: la sua biblioteca personale è sempre stata ricca di testi di scienze religiose e di scienze ‘laiche’. Ha insegnato e trasmesso il suo sapere e la sua ricerca sia a livello accademico sia, in modo forse ancora più penetrante anche se più nascosto, a livello personale, nei lunghi dialoghi che intesseva con le persone che lo andavano a trovare”. L’autografo con cui Don Filippo firmava i suoi gesti di carità era la gioia. Scrive un amico: “Ricorda quel suo ridere compiaciuto, spesso autoironico, espansivo, quasi adolescenziale che coinvolgeva l’intera persona?”.

Abbiamo acclamato: Beato l’uomo che teme il Signore. Il timore del Signore non è la paura della sua ira, ma è il timore di mancargli di rispetto, di non accogliere la sua misericordia. Don Filippo è stato un innamorato del Signore e di ogni creatura umana, soprattutto dei poveri, poveri di beni e poveri del bene grande della pace, e del bene più grande: la fede. E’ stato profondamente prete: si è speso fino all’ultimo istante di lucidità nel suo ministero, soprattutto attraverso la confessione e la direzione spirituale. Sempre irrequieto, mai seduto, si è dato agli altri, soprattutto ai più poveri rimettendoci spesso di persona. Chi teme il Signore, dona largamente ai poveri. L’esegesi di questo salmo Don Filippo l’ha fatta non con studi e lezioni cattedratiche, ma con fatti di vangelo. Un altro figlio spirituale attesta: “Amava la verità con una lealtà ostinata e la affermava, pur se scomoda, non accettando compromessi. L’architrave portante della sua anima era la carità; una carità asciutta – molto intenerita nella vecchiaia – concreta, esigente, discreta, sapiente, provocatrice, gioiosa”

Se il chicco di grano muore, produce molto frutto: è parola del Signore. Anche Don Filippo ha dovuto imparare a perdere, ha dovuto allenarsi a marcire, come il chicco di grano. Ho sbagliato: ha dovuto imparare a rinascere, a risorgere. Leggo ancora dal mazzo delle testimonianze: “Don Filippo è stato un uomo mite, sempre pronto al sorriso anche quando le cose non andavano bene, mai adirato anche quando ce ne sarebbe stato motivo; anzi, adirato qualche volta sì, quando si trovava di fronte all’ingiustizia e al sopruso nei confronti dei più poveri dei suoi figli”. E questo è il lascito spirituale che ho il dovere di girare a tutto il nostro presbiterio. Vivere è dare vita. Essere attaccati alla propria vita è invece distruggersi. E non dare è già morire. Farci chicchi di grano caduto, lontano dai riflettori e dalla ribalta, senza smania di visibilità e di riconoscimenti. Seminati nella terra arida di questa società desertificata. Il prete non è il propagandista di una idea; è il testimone di una persona.

Non posso chiudere questi pensieri, senza deporre sull’altare il contributo della mia testimonianza personale: un contributo piccolo, ma dettato dal cuore. Ho avuto la fortuna di incontrare e di seguire da vicino Don Filippo nell’ultimo tratto del suo cammino. Da lui mi sono sentito amato, accolto e intimamente compreso. Quando lo incontravo con frequenza settimanale, provavo la sensazione di trovarmi davanti a un patriarca che stava diventando bambino e mi risuonavano nell’animo le parole del Signore: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Temeva, invecchiando di perdere il ben dell’intelletto. Verrebbe da dire che il suo grande Amico, Gesù di Nazaret, non lo abbia accontentato, visto che prima di Natale lo ha fatto scivolare in coma, dove è rimasto in questi nove lunghi mesi. Ma il Signore quando non ci accontenta, no lo fa per donarci di meno, ma per donarci di più. Lui è fatto così e tratta così i suoi amici: il pane della pace “al suo prediletto egli lo dà nel sonno” (cfr Sal 127). A quanti andavano a salutarlo, Filippo dava l’impressione di dormire, “come un bambino in braccio a sua madre”, e da quel sonno profondo ne riemergeva solo per un sorriso rapido e dolce. Questo mi ha detto Don Filippo: anche i preti sanno morire. Anche noi andiamo incontro alla morte con la nostra poca verità, ma avvolti dalla grande verità di Gesù Cristo. Don Filippo mi ha detto: Gesù è amore che seduce. E mi attira, dolcemente implacabile, verso la mia casa, verso la mia gioia.