Credere è non poter fare a meno di Cristo

Omelia tenuta nel corso della celebrazione eucaristica, in occasione dell’anniversario della morte di Don Giussani e del riconoscimento di Comunione e Liberazione – Basilica Cattedrale, 22 febbraio 2010

Il vangelo non è una teoria: è una storia. Cristo non è un’idea: è una persona. La Chiesa è un organismo, non una organizzazione. Il cristiano è un credente, non un semplice praticante. Cristiano è chi fa come Pietro: rimane abbagliato da Gesù, lascia tutto e lo segue. Cristiano è chi fa come Paolo: una volta afferrato da Cristo, cammina con lui, soffre e si spende per lui, si nutre della sua forza, si abbandona alla sua struggente dolcezza. In queste poche proposizioni si concentra tutta la polpa del messaggio cristiano. Ma è possibile azzardare una sintesi ulteriore di un nucleo già così ridotto all’essenziale? La risposta di don Giussani è stata: sì. Il DNA della fede cristiana trova il suo “genoma” in un avvenimento e in una persona: Gesù Cristo. Ecco le testuali parole del vostro indimenticabile fondatore:

“C’è un avvenimento, un fatto assolutamente originale eppur accaduto: un uomo si è detto Dio. Dio ha voluto rendersi familiare all’uomo – con tenerezza – come suo compagno di cammino verso il destino per cui l’ha creato, redimendone le debolezze, anche le più sproporzionate all’ideale. (…) Che Cristo sia Dio non è un reperto della ragione, ma è l’incontro con una umanità presente, eccezionale rispetto a tutte le altre, senza paragone corrispondente alle esigenze del cuore” (L’io, il potere, le opere, p. 273).

1. Quel giorno, nei pressi di Cesarea di Filippo, un uomo, Gesù di Nazaret, fu riconosciuto Dio. Il Maestro aveva incalzato i suoi con una domanda bruciante: “Ma voi chi dite che io sia?”. Seguì un attimo di silenzio talmente pesante da sembrare un’eternità. Il Maestro fissò i Dodici uno ad uno come se volesse leggergli negli occhi una risposta che pareva non volesse (o non potesse?) arrivare mai: nessuno osava fiatare. E invece, di schianto, arrivò trafelata la risposta di Simone, figlio di Giovanni. Non era il più bravo, né il più intelligente né il più generoso. Ma era il discepolo che prima e più degli altri aveva assorbito la coscienza di non poter fare a meno di lui, Gesù di Nazaret. Puntò dritto al mistero, ne centrò decisamente il cuore. E pronunciò quei due nomi – Cristo, Figlio di Dio – inciampando su parole più grandi di lui, talmente vertiginose che non potevano essere il prodotto di carne e sangue.

Gesù e Simone: Simone guarda Gesù e vede Dio. Gesù guarda Simone e vede la “pietra” su cui poggerà la sua Chiesa. Gesù è l’amore che chiede di essere riconosciuto. Riconoscere Gesù come il Cristo e il Figlio di Dio è il centro della fede. Il cristiano è uno che ha la coscienza imbevuta di una certezza: di non poter fare a meno di Cristo, mai, neanche nel peccato, nel senso che perfino dalle sue miserie impara il bisogno che ha dell’abbraccio di Lui e del suo indispensabile perdono.

Nella grammatica della fede cristiana il verbo credere non regge un complemento oggetto, come se si dicesse: “credo Gesù Cristo”, nel senso che ritengo per vero che sia esistito un certo Gesù di Nazaret, il quale avrebbe detto certe cose e fatto certe altre. Il discepolo cristiano è definito dall’espressione: “credo in Gesù Cristo”. Aver fede in Cristo significa affidarsi al suo amore, costruire su di lui la propria vita, fare di lui l’irremovibile baricentro e il cuore pulsante della propria storia. Sant’Agostino spiega così l’espressione: “credo in Gesù Cristo”:


“Se credete in lui, credete anche a lui, non però necessariamente chi crede a lui, crede anche in lui. I demoni credevano a lui, ma non credevano in lui. Che significa dunque credere in lui? Credendo, amarlo e diventare suoi amici; credendo, entrare nella sua intimità e incorporarsi alle sue membra. Questa è la fede che Dio vuole da noi” (PL 35,1631).

Detto in altre parole, l’espressione credere “in” si applica solo a Dio. La Chiesa si attiene scrupolosamente a questo linguaggio; infatti nel Credo ci fa dire: Credo in Dio Padre… in Gesù Cristo… nello Spirito Santo. Ma non ci fa dire: Credo nella Chiesa, bensì: Credo la Chiesa.


2. C’è però da aggiungere subito: credere in Gesù Cristo implica necessariamente credere la Chiesa. Infatti nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, Gesù appare indissolubilmente associato alla “sua” Chiesa. Cristo e la Chiesa sono un solo, inscindibile mistero. Il credere in Gesù Cristo si prolunga infallibilmente nel credere la Chiesa. Un Cristo senza Chiesa sarebbe totalmente irriconoscibile. Una Chiesa senza Cristo risulterebbe del tutto inspiegabile. Cristo e la Chiesa sono come i due fuochi distinti e inseparabili di una unica ellissi. Ma forse questa immagine geometrica pecca per difetto: di chiarezza e di calore. E’ più vera e più ardente quella di s. Paolo: Cristo e la Chiesa formano un solo corpo, un solo spirito, un cuore solo, un’anima sola.

Ma lo sappiamo: come la divinità di Cristo è stata lo scandalo di tutte le eresie, così la santità della Chiesa è l’autentica pietra d’inciampo che si pianta come un masso sulla nostra via: se non vogliamo nasconderci da noi stessi la verità, siamo senz’altro tentati di dire che la Chiesa non sia affatto santa. Sono parole che si leggono in quell’opera ormai classica, Introduzione al cristianesimo, del giovane J. Ratzinger, il quale riconosceva subito, con linguaggio diretto e tutt’altro che diplomatico:

Ve lo confesso apertamente: per me, proprio la ben poco santa santità della Chiesa racchiude in sé qualcosa di infinitamente consolante. Infatti, come non ci si dovrebbe perdere d’animo di fronte a una santità che si presentasse assolutamente incontaminata, agendo su di noi con piglio giudicatore e fiato rovente?” (p. 283).


Quest’anno la festa odierna della Cattedra di s. Pietro si colloca quasi all’inizio della Quaresima, e questo contesto liturgico ci spinge a misurare il peso specifico della nostra fede, del nostro credere in Gesù Cristo e del nostro credere la Chiesa.

Riguardo al primo articolo, ci si impone la domanda: che cosa significa per noi credere in Gesù Cristo? Significa ritenerlo il tutto per noi (“Per noi Cristo è tutto”, s. Ambrogio). Non significa dire “Signore, Signore”, ma fare della volontà del Padre il pane di vita per la nostra vita. Significa non antepone nulla e nessuno all’amore di Cristo, neanche i doni Cristo, neanche le opere per Cristo. Significa arrendersi al fascino della sua grazia, lasciarsi disegnare il futuro dalla lieta, inesauribile fantasia della sua smisurata tenerezza. Significa innamorarsi di lui e far innamorare di lui quanti incrociamo sul nostro cammino. Significa non solo agire per Cristo, ma vivere di lui, con lui, in lui. Non c’è avventura cristiana più bella di questa…

Riguardo al secondo articolo, cosa significa credere la Chiesa? La risposta la troviamo in quella prima enciclica qual è la I Lettera di Pietro, da cui è stata tratta la prima lettura. Lì vi si contiene l’esortazione del capo degli apostoli ai pastori, visti dalla parte dei fedeli. Se invertiamo la prospettiva, possiamo dire che, per i fedeli, credere la Chiesa significa accettare il servizio dei pastori – oggi, l’amatissimo nostro Papa Benedetto e il Vescovo pro tempore – “non perché costretti ma volentieri; non per interesse ma con animo grande; non come sudditi servilmente sottomessi, ma come collaboratori disponibili, attivi e volenterosi”. In particolare, in questo anno dedicato alla comunione, permettetemi di rilanciarvi il messaggio di questa Quaresima, che ho formulato con le parole di s. Paolo: “Non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. (…) Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede” (Gal 6,9s).

Fratelli, sorelle, amici di Comunione e Liberazione: attraverso il carisma di don Giussani, e, nella nostra Diocesi, del carissimo Don Giancarlo, lo Spirito del Risorto ha aperto un nuovo, profetico capitolo di grazia nella storia della Chiesa. Il Signore, che ha iniziato la sua opera in voi e attraverso di voi, la porti felicemente a compimento!

+ Francesco Lambiasi