Amare e servire Meglio: amare è servire

Omelia, Basilica Cattedrale, Messa In Cena Domini, Rimini, 9 aprile 2009, Giovedì Santo

Amare e servire: questo il tema della liturgia del Giovedì santo. Ma il messaggio è ancora più incisivo e penetrante: amare è servire.

Anche stavolta l’evangelista Giovanni ci spiazza: al cap. 6 ci aveva riportato – unico fra tutti – la promessa dell’istituzione eucaristica: “Il pane che io darò – aveva detto Gesù nella sinagoga di Cafarnao – è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Ma ora che ci aspetteremmo il racconto del compimento di quella promessa scioccante, il quarto evangelista sembra essersene dimenticato, e anziché riferire l’istituzione della santa eucaristia, ci riporta – unico fra tutti – l’episodio della lavanda dei piedi. Questo rimpiazzo già ci veicola un primo messaggio: la lavanda dei piedi svolge nella trama del quarto vangelo un ruolo simile a quello dell’eucaristia nei sinottici: rivelare il senso della passione imminente e tracciare la strada della Chiesa nella storia. Il Gesù che depone le vesti e indossa il grembiule del servo è lo stesso Gesù che si spoglia della sua gloria e si “veste” delle apparenze del pane e del vino per abbracciare il nostro dolore e trasfigurarlo nell’amore più grande.

In compenso il nostro evangelista sembra filmare la scena quasi alla moviola: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto” (Gv 13,4-5).

Quello di Gesù è un gesto toccante e sconvolgente, che non finisce di commuovere e di provocare. Da una parte il Maestro viene, per dire così, “fotografato” in una istantanea di lucida e piena consapevolezza della sua origine, della sua dignità e del suo ritorno al Padre. D’altro canto, è proprio la sottolineatura della ineguagliabile dignità del Maestro a mettere ancora più in risalto la novità insolita e sconcertante del suo gesto. Secondo un antico commento ebraico al rito della Pasqua, non si poteva esigere da uno schiavo ebreo che lavasse i piedi al padrone. In segno di devozione, tuttavia, i discepoli occasionalmente rendevano questo servizio al loro maestro o rabbi. . Ma il gesto avveniva sempre prima della cena, non durante il pasto. Comunque mai e poi mai un maestro si sarebbe inginocchiato a lavare lui i piedi ai suoi discepoli.

Non sono affatto dettagli marginali o puramente decorativi. Nella penna di Giovanni, vogliono mettere il risalto il particolare valore rivelativo della lavanda dei piedi. Non si tratta semplicemente di un buon esempio di umiltà o di amore fraterno. Si tratta di un inimmaginabile gesto di rivelazione: lavando i piedi ai discepoli, Gesù non nasconde la sua grandezza divina, ma paradossalmente la rivela. Solo un Figlio di Dio poteva essere grande così, grande nel servire anziché nel farsi servire. In questo modo il Maestro mantiene la parola: aveva detto di essere venuto “non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

Dare la propria vita per gli altri non capita a ogni persona e non succede ogni giorno: è un fatto raro e piuttosto ristretto ad alcune persone. Invece servire gli altri lo possiamo fare tutti noi, e tutti i giorni. Tutta la nostra vita deve essere un servizio. E’ questo il testamento che Gesù ha voluto consegnare ai suoi, utilizzando il linguaggio folgorante dei gesti che si tramutano in segni della più indubbia efficacia comunicativa.

La nostra vocazione è una chiamata all’amore. Ora, se l’amore senza servizio è una farsa, il servizio senza amore è una schiavitù, un vile, avvilente servilismo.

Ma il servizio per amore prima che mani pronte, abili e impegnate, richiede cuore. Un cuore grande nel donarsi, generoso nello spendersi, gratuito nel lasciarsi strapazzare fino allo sfinimento. Un cuore ostinatamente convinto che la prima persona singolare dei verbi del lessico cristiano non è io, ma tu, e la prima persona plurale da declinare all’interno e all’esterno dei nostri cenacoli non è noi, ma voi. Un cuore capace di guardare ogni povero e di vedere in quegli stracci o in quella desolazione Cristo in agonia fino alla fine del mondo. Un cuore disponibile a dare sempre la precedenza a quanti sono sfavoriti o sono rimasti in panne nel viaggio della vita, un cuore attento a non sorpassare mai quei fratelli, a non occupare mai a proprio vantaggio nessuna corsia di emergenza.

Per amare e servire così, ci vorrebbe il cuore di Cristo. Ma non dobbiamo temere: Lui si è nascosto sotto i segni del pane e del vino per rimanere con noi per sempre. Prima di salire al Padre, dirà ai suoi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine…”. Nella santa Cena, non solo è con noi, ma viene in noi. E noi non siamo più semplicemente “umani”. Con il pane di Cristo, anche noi possiamo servire, come ha fatto lui. Come ha fatto lui e per lui, anche noi possiamo amare. Possiamo amare servendo. Possiamo servire amando.