Il vertice dell’amore

L’eucaristia è benedizione, comunione, sacrificio

Omelia pronunciata dal Vescovo nella Messa in cena Domini

        C’è un sogno che abita il cuore di Dio. Dio è felicità, una felicità pura, assoluta, incontaminata. Dio dà felicità: non può trattenerla per sé, non vuole godersela da solo. Dio vuole felicità: già nelle relazioni con il Figlio e lo Spirito Santo si intravede che la felicità del Padre non è egocentrismo morboso, ma limpida, gratuita relazione d’amore. Ecco allora il sogno di Dio: dare vita a degli esseri con i quali entrare in intima comunione, generare dei figli sui quali riversare l’oceano di felicità che lui è e che lui ha. Il primo stralcio di questo “progetto-felicità” è la creazione: il Padre onnipotente dà origine all’umanità per effondere il suo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della sua luce. Non ha inventato gli umani come dei piccoli automi, più freddi dei robot, ma ha immesso nel nostro DNA un desiderio lancinante di piena, appagata felicità. E quando abbiamo smarrito la sua amicizia, non ci ha abbandonati in potere della morte, ma nella sua misericordia ha mandato nella pienezza dei tempi il suo Figlio, l’Amato. Mai Gesù si è chiuso alle necessità e alle sofferenze dei fratelli, ma a tutti è venuto incontro per annunciare al mondo che Dio è Padre e ha cura di tutti i suoi figli, soprattutto dei piccoli, dei poveri, dei peccatori, degli esclusi. La sera in cui veniva tradito, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, e cominciò a lavare i piedi dei discepoli. Poi prese del pane, rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli.

1. Il vangelo dell’ultima cena apre finestre sull’infinito e ci rivela tre nomi dell’eucaristia.
Il primo è benedizione o rendimento di grazie. Benediciamo il Signore perché nella santa cena ci si rivela come amore gratuito e sovrabbondante. Nel cenacolo fissiamo il nostro sguardo su un Dio che ci si mostra diverso, assolutamente inedito, fuori dal comune. Secondo l’immaginario collettivo, se Dio apparisse in forma umana in mezzo a noi, toccherebbe a noi metterci al suo servizio. Invece qui nel cenacolo l’immagine di Dio ci si rovescia a 180 gradi: è lui che si mette in ginocchio davanti a noi, per lavarci i piedi. Addirittura non solo dà da mangiare a noi (“Tu provvedi a noi il cibo a suo tempo”, canta il salmo), ma si dà e si fa mangiare da noi. Un Dio che si consuma, che scompare nell’uomo, al punto che ognuno dovrebbe dire: “Non vivo più io, vive in me il Signore”.
Pietro non riesce a capacitarsi che il Signore renda ai suoi discepoli il servizio di uno schiavo e, quando tocca a lui, protesta: “Tu non mi laverai mai i piedi!”. Simone non accetta che Gesù lo serva, come non accetta che il Signore dia la vita per lui: preferisce darla lui per il Signore. Pensa che il Signore stia sopra tutti per dominare, non sotto tutti per servire. Il primo dei Dodici pensa che tocchi a lui di dover fare o dover dare qualcosa al Maestro. Poco prima Gesù gli aveva detto: “Non puoi seguirmi, per ora”. E’ sempre Gesù che deve precederci. Lui è geloso di questo primato: è il Signore che ci ama per primo. Pietro invece pretende di potere e dovere andare avanti al Maestro: “Io darò la mia vita per te!”. E Gesù: “Tu darai la tua vita per me? Questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Pietro non ha capito che prima deve accogliere l’amore del Signore: soltanto dopo sarà capace di seguirlo, di amarlo a sua volta.
Aveva ragione Joseph Ratzinger quando da giovane teologo scriveva: “L’uomo non raggiunge veramente se stesso tramite ciò che fa, bensì tramite ciò che riceve. Egli è tenuto ad attendere il dono dell’amore, e non può accogliere l’amore che sotto forma di gratuita elargizione”. Ecco una “struttura” fondamentale dell’amore cristiano: la prevalenza del ricevere sul fare, la precedenza del dono gratuito sulla prestazione attiva. Noi invece siamo portati ad occuparci continuamente di noi stessi, di ciò che facciamo, di ciò che offriamo, delle nostre virtù e dei nostri difetti. Invece il Signore desidera che oggi ci preoccupiamo di una cosa sola: di ricevere il suo amore, per la nostra gioia, per la gloria di Dio, per il bene di tutte le persone che ci sono vicine, di tutti i poveri che attendono un po’ del nostro bene e dei nostri beni. Domandiamo oggi la grazia di essere attenti all’amore che il Signore ci offre, di capire che prima di tutto dobbiamo volgere la nostra attenzione a lui e non a noi stessi. Sì, è più importante che sia il Signore a lavare i piedi a noi che non noi a lavare i piedi a lui. Solo se gustiamo quanto è buono il Signore, allora saremo trasformati, anche senza accorgercene: la carità fraterna può germogliare solo da un cuore che ha provato quanto sia grande l’amore del Signore per noi e per gli altri. San Giovanni lo dice nella sua prima lettera: “Dio è amore. Dio ci ha amati per primo. Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”.

2. Un secondo nome dell’eucaristia è comunione. Nell’amore che si dona troviamo il principio di unità del mondo: il superamento di ogni egoismo, l’abbattimento di ogni separazione, l’azzeramento di ogni più dura contrapposizione. All’eucaristia finisce l’opera del Padre, che fin da principio vuole l’alleanza con tutta l’umanità: che si realizzi finalmente il regno di Dio! All’eucaristia finisce l’opera del Figlio, che vuole essere con noi per sempre, tutti i giorni, anche nei giorni del buio e della nebbia, anche nelle ore del dolore e del tormento, anche nell’ora della nostra morte. A vivere – se si riesce a vivere! – in tutta pienezza l’eucaristia, si è già nel regno. Un santo così pregava: “Signore, quel giorno che raggiungessi una vera, perfetta comunione con te e con i miei fratelli, in tutta la sua comprensione e capacità di trasformazione, portami con te, perché sarei già nel tuo regno”. Ma quando uno può dire di avere “fatto” una perfetta comunione? All’eucaristia finisce l’opera dello Spirito Santo: “Poiché mangiamo lo stesso pane, noi formiamo lo stesso corpo”. Per questo nell’invocazione allo Spirito Santo dopo la consacrazione, preghiamo che “per la comunione al corpo di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. Il fine della storia è che tutto il genere umano si componga nell’amore, a cominciare dalla Chiesa che è il sacramento, la premessa e la promessa dell’unità di tutti figli di Dio che sono dispersi.
Un terzo nome dell’eucaristia è sacrificio. Corpo offerto, sangue versato… Queste espressioni richiamano la miseria che avvelena il mondo: tutti gli oppressi, i violentati, i torturati, i crocifissi in tutte le maniere. Da tutto ciò si alza un immenso grido disperato: perché l’uomo deve essere tanto distruttore dell’uomo? Grido di sangue: è l’appello alla rivincita e alla vendetta. Corpo offerto, sangue versato… Queste due espressioni prendono un altro colore nella persona di Gesù. Affermano l’amore, un amore possibile nonostante tutto. L’amore stesso di Dio! Non sono semplici immagini. Il giusto per eccellenza ha conosciuto l’abbandono, la tortura, una morte ignominiosa. Ma di una vita che gli era strappata, Gesù ne ha fatto una vita donata. Nel pasto eucaristico ha voluto affermare questa realtà. Ha voluto che fosse riaffermata ogni giorno, in un mondo di violenza, affinché per mezzo di essa conoscessimo il vero volto di Dio e affinché divenisse la nostra vita.
Nell’eucaristia è racchiuso il significato più profondo e completo della vita offerta in sacrificio: quella del Figlio di Dio fatto uomo, ma anche quella di chi, comunicando al santo mistero del corpo e del sangue di Cristo, diviene sacrificio perenne gradito a Dio. Non si tratta di versare altro sangue né di martoriare alcun corpo, né il proprio né quello di altri, ma di tendere con tutte le energie a fare della vita una “eucaristia”, un memoriale gratuito di quanto è stato donato, e che deve trasparire veracemente, con volontà generosa e con spirito di autentico servizio, nelle nostre parole e nei nostri gesti. Offerta viva, appunto, e non di morte: a lode e gloria dell’unico Signore, perché tutta la nostra vita diventi un sacrificio di lode a lui gradito.
Preghiamo con le parole della liturgia:
“Signore, Dio vivente,
guarda il tuo popolo radunato intorno a questo altare,
per offrirti il sacrificio della nuova ed eterna alleanza;
purifica i nostri cuori,
perché alla cena dell’Agnello
possiamo pregustare la Pasqua eterna
della Gerusalemme del cielo. Amen”.

Rimini, Basilica Cattedrale, 5 aprile 2012

+ Francesco Lambiasi