Diaconi: professionisti del servizio

Omelia tenuta dal Vescovo in occasione della ordinazione diaconale di Eugenio Facondini

1. Un invito a nozze: l’invito è firmato personalmente da Dio Padre, le nozze dicono lo sposalizio tra suo Figlio e la nostra povera umanità, il banchetto vorrebbe raccontare il vorticoso turbinio della festa, per il gran giorno inaugurale del regno di Dio. Tutto è pronto: lo sterminato salone – sfavillante di luci, addobbato per le grandi occasioni, copiosamente inondato dagli aromi e dagli odori forti che vengono dalle cucine della reggia – è stipato all’inverosimile dalle lunghe tavolate magnificamente imbandite. Di minuto in minuto l’attesa si va facendo via via più nervosa: l’ora è passata, ma tutte le sedie continuano a restare desolatamente vuote: gli invitati hanno respinto l’invito al mittente. Che tristezza! la festa allora andrà all’aria? Ecco la prima sorpresa: il rifiuto degli invitati delude il re e lo irrita, ma non lo disarma. Il diniego dei convitati non arresta l’amore di Dio. Neanche Dio può restare solo. E subito rilancia l’invito. Ecco il secondo colpo di scena: il re dà ordine ai servi di andare ai crocicchi delle strade e di chiamare tutti, buoni e cattivi, a venire alle nozze. E così finalmente la sala si riempie. Ecco l’ultimo scoop: un invitato viene scoperto senza l’abito nuziale e il re lo fa espellere. Il ritrovarsi dentro la sala non è una garanzia per nessuno: non si va alla festa in tuta da lavoro; fuor di metafora bisogna essere in ordine, convertiti, vigilanti. Altrimenti la festa irrimediabilmente si guasta…

 

2. L’ordinazione diaconale che ci apprestiamo a celebrare ci offre l’assist per evidenziare un elemento che rimane un po’ in secondo piano nella parabola, ed è il particolare dei servi del re. Si suppone che abbiano dovuto preparare il pranzo e ora sono pronti per servirlo, ma, data l’emergenza, vengono spediti a recapitare l’invito per le nozze del principe ereditario.

In effetti il fattore “servi-servizio” ricorre quasi sempre nei vangeli ogni volta che viene affrescata l’immagine del banchetto. Leggiamo nel vangelo di Luca:

“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi (è l’abbigliamento dei servi) e le lampade          accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze,    in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il          padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti   ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,35-37).

E quando durante l’ultima cena si scatena l’ennesima bagarre tra i discepoli su chi di loro sia da considerare il più grande, il Maestro prende in contropiede i Dodici e rovescia la domanda: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Se teniamo presente che la parola ebraica rabbì- maestro, letteralmente andrebbe tradotta “mio grande”, e ricordiamo che toccava ai discepoli servire il maestro che sedeva a tavola, capiamo la risposta di Gesù: è lui il vero maestro, il vero “grande”, proprio perché si mette dalla parte del discepolo e si fa servo, ossia umile e piccolo.

L’esemplificazione plastica di questi messaggi sul servizio evangelico si ha nella lavanda dei piedi, quando Gesù depone il mantello (il tallìt) del maestro, prende un asciugamano, se lo cinge attorno alla vita e si mette ad espletare quel servizio che i discepoli rendevano al maestro quando rientrava in casa: il pediluvio. Dopo aver fatto il giro dei discepoli, Gesù si riveste da maestro, indossa quindi nuovamente il tallìt, poi si mette a sedere – ossia “sale in cattedra” – e tiene la lezione:

“Capite bene quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il      Signore, e    dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi          a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio,    infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In          verità, in verità io vi       dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di         chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati          se le metterete in pratica” (Gv 13,13-17).

 

3. Diacono, lo sappiamo, significa servo, e il camice che il diacono indossa dice la sua volontà di essere e rimanere “a servizio” nella Chiesa, sempre e solo ministro, appunto servo. Il colore bianco del camice richiama la veste candida del battesimo, e indica il desiderio e l’impegno di voler prestare un servizio che resti incontaminato, non sporcato da alcuna macchia. Sì, perché in effetti il rischio è serio: il rischio che il servizio venga macchiato da alcune pecche sulle quali bisogna attentamente vigilare. Ecco due di queste possibili macchie.

Una prima è il mito ubriacante dell’efficienza. E’ la sindrome di Marta. L’evangelista ritrae Marta come “distolta per i molti servizi”. Al suo sfogo di recriminazione contro la sorella Maria, beatamente accoccolata ai piedi del Signore, Gesù ricorda che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto. Forse Luca sta pensando alla comunità di Gerusalemme che deve essere una comunità di servizio, ma anche – e soprattutto – di ascolto. Il servizio delle mense non è più importante dell’ascolto della Parola. Ed è curioso notare che proprio a quel punto nel libro degli Atti si narra l’istituzione dei Sette che la tradizione posteriore identificherà con i primi diaconi. Ma resta vero anche per i diaconi che il primo servizio lo devono rendere alla mensa della Parola, come si desume dal fatto che il loro ministero specifico nella Messa è la proclamazione del santo vangelo. Né si deve temere che il primato dell’ascolto induca a trascurare l’impegno storico per la cosiddetta “promozione umana”. Infatti non è il discepolo in ascolto che evade dalla storia, ma quello che si disperde in cose di superficie. Il diacono annuncia una salvezza compiuta per noi da Gesù, non una salvezza compiuta da noi, in memoria o in onore di Gesù. Questa verità non induce a sminuire l’impegno, ma a fondarlo e a viverlo con piena dedizione.

Una seconda macchia che rischia di deturpare il camice del diacono si potrebbe chiamare la “sindrome del mercenario“. E’ la malattia del figlio maggiore, di cui si parla nella parabola del padre misericordioso. Ricordiamo: la rabbia del primogenito è data dall’odioso confronto con il fratello minore. Mentre quel disgraziato ha combinato una caterva di disastri e tuttavia è stato servito, riverito e trattato con tutti gli onori, “io – sbotta lui con il padre – ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai dato un capretto per far festa con i miei amici” (Lc 15,29). Il peccato del figlio non è stato quello di aver fatto il suo dovere, ma di averlo fatto con un cuore da salariato e non da figlio, come risulta dal fatto che ora sbatte spudoratamente in faccia al padre l’estratto-conto. Insomma è un figlio che rifiuta di partecipare alla festa per il fratello perduto e ritrovato, ritenendola ingiusta, addirittura un torto fatto alla sua “giustizia”, alla sua obbedienza e al suo lavoro. Quindi, pensa, se il trasgressore è trattato a quel modo, a che serve essere giusti?

L’antivirus per questa tentazione insidiosa è la gratuità. E’ la gratuità che permette di trasformare la fedeltà in dono e non in puntigliosa rivalsa, l’obbedienza in gioia e mai in penoso dovere, la fatica in cordiale solidarietà e non in una ragione di schifiltosa separazione.

4. Ci sarebbero altre macchie da esaminare, oltre l’efficientismo e il mercantilismo, e si tratta ancora di altri “ismi” seducenti e tossici, come il narcisismo morboso e autoreferenziale, il vittimismo eternamente scontento, petulante e borbottone, eccetera. Ma forse ora è il caso di voltare pagina con queste brutte copie di diaconi-servi, per dedicarci ad un breve sguardo contemplativo di una icona positiva del servizio, Maria di Nazaret, l’immagine più vicina al modello perfetto, Gesù, il servo del Signore, e la più vicina a noi.

E’ sorprendente notare che l’appellativo di “serva del Signore” non trovi posto nella lunga serie delle litanie lauretane, dove il titolo mariano preferito è piuttosto quello di regina. Eppure l’appellativo di “serva” è l’unico che Maria si sia dato da sola e per ben due volte. La prima, quando chiude il circuito del dialogo con Gabriele, l’inviato speciale di Dio, mandato a recapitarle quel messaggio da capogiro: concepire e generare il Messia. In risposta all’angelo che l’aveva ossequiata con la qualifica strabiliante di “piena di grazia”, Maria favorisce il suo biglietto da visita: “Eccomi, sono la serva del Signore”. La seconda volta, quando dopo essere stata fregiata da Elisabetta con il titolo più vertiginoso per una donna ebrea – quello di “Madre del Signore” – Maria intona il Magnificat e afferma che Dio “ha guardato l’umiltà della sua serva”. E’ questo appellativo, così autoreferenziato, che mi fa osare di rivolgere a Maria questa preghiera per te, carissimo Eugenio, per tutti i diaconi, non solo quelli permanenti, ma anche per quei ministri ordinati ai quali né il presbiterato e neanche l’episcopato possono cancellare il diaconato.

“Santa Maria, serva del Signore, tu che ti sei consegnata anima e corpo a lui e sei entrata come umile domestica nel casato del figlio di Davide, ammettici alla scuola di quel diaconato permanente di cui sei stata impareggiabile maestra e coerente, gioiosa testimone.

Santa Maria, serva della Parola, serva a tal punto che, oltre ad ascoltarla e custodirla nel tuo cuore, l’hai accolta incarnata nel tuo grembo, non ti stancare di ricordarci che solo se ci sentiremo sempre e soltanto poveri servi, solo se qualsiasi cosa tuo Figlio ci dirà noi la faremo, solo allora potremo partecipare al banchetto nuziale, dove lui stesso ci farà accomodare a mensa e passerà a servirci.

Santa Maria, serva della Chiesa, che dopo esserti dichiarata ancella di Dio sei corsa a farti ancella di Elisabetta, donaci i tuoi occhi vigili e il tuo limpido cuore per intercettare sotto le mentite spoglie dei poveri e degli oppressi la velata, trasparente presenza del gran Re. E aiutaci a credere che è meglio essere trattati da figli che non da dipendenti, e da figli gratuitamente amati, anziché da burocrati fiscalmente risarciti o, peggio, da mercenari venali e profumatamente ripagati. Tu regina e serva, tu che regni servendo e servi regnando, sii tu benedetta fra tutte le donne, di generazione in generazione, e benedetto sia il frutto del tuo grembo, nei secoli dei secoli. Amen”.

Rimini, Basilica Cattedrale, 8 ottobre 2011

+ Francesco Lambiasi