Vogliamo vedere Gesù Contemplare il suo Volto per mostrarlo a tutti

Intervento del Vescovo all’Assemblea Diocesana

* Vedere Dio, incontrare il suo volto: c’è un desiderio più ardente nel cuore dell’uomo? Non c’è, non ci può essere: come ci potrebbe essere, se – afferma Agostino – “ogni nostro desiderio si spegnerà quando avremo raggiunto la visione del suo volto?”. E Tommaso d’Aquino scrive che nella vita eterna si compiranno tutti i nostri desideri; allora la fede cesserà e si realizzerà “la perfetta visione” “poiché le brame dell’uomo si appagano solo in Dio, secondo quanto dice Agostino: Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace finché pace non trova in te” (Sul Credo, 2).


“Non dobbiamo arrestarci nella nostra esplorazione

E il termine del nostro esplorare

Sarà arrivare là donde siamo partiti

E conoscere il luogo per la prima volta” (T.S. ELIOT, Four Quartets, V).


Un giorno l’esplorazione cesserà, e riconosceremo che la terra dove saremo approdati è la patria dove siamo anche nati, ma lo scopriremo solo allora, e allora l’esplorazione riprenderà, non come ora, di ricerca in ricerca, nel chiaroscuro della storia, ma nella piena luce, di scoperta in scoperta, all’infinito…


“Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!” (DANTE, Paradiso, XXVII,7-9).


Ma è possibile vedere Dio già lungo l’incerto e, per lo più, sofferto cammino dei nostri poveri giorni? No, risponde sconsolato l’Antico Testamento: nessuno può vedere il volto di Dio e restare in vita (Es 33,20).

Eppure le Sacre Scritture sono tutte percorse dal fremito di questa struggente nostalgia: poter vedere il suo Volto… E’ l’anelito ardente di Mosè: “Signore, mostrami la tua gloria” (Es 33,18). E’ il gemito lancinante di Israele: “La mia anima anela a te, o Dio… Quando vedrò il tuo volto?” (Sal 42). E’ la dichiarazione onesta che sale da ogni umile pellegrino dell’Assoluto: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto” (Sal 27). E’ la voce appassionata di Agostino, il teologo del “cuore inquieto”: “Dio: in queste due sillabe è racchiuso tutto ciò che desideriamo”. E’ l’implorazione ardita dei mistici: “Io sono un monte in Dio, debbo scalar me stesso / perché il suo caro volto Iddio mi sveli” (A. Silesio). E’ la voce rotta dal pianto irrefrenabile dell’Innominato e di tanti che non credono o credono di non credere: “Dio! Dio! Dio! Se lo sentissi! Se lo vedessi! Dov’è questo Dio?”.

Del resto anche in una certa parte della cultura moderna si sente scorrere dentro, come un fiume carsico, il sentimento intenso e sofferto della mancanza di Dio, la “nostalgia del Totalmente Altro” (M. Horkheimer). Il bisogno di Dio porta in fondo la firma di ogni uomo, quell’animale desiderante, “troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal).  Come la notte – si legge in una luminosa poesia di Tagore – nasconde nella sua oscurità il desiderio della luce e come la tempesta cerca segretamente la pace nella calma che seguirà alla sua furia, così nei  profondi meandri del cuore umano risuona il grido: “Io desidero Te, soltanto Te!”.


* La vigilia della sua passione, mentre cenava con i Dodici, il Maestro si era abbandonato alle confidenze più intime, rivelando loro i suoi “segreti di famiglia”. Soprattutto nei passaggi dedicati a parlare del Padre, lo sguardo di Gesù doveva sprigionare squarci di cielo, se Filippo, ad un certo punto, non ce la fece più a tenersi dentro quella voglia di infinita tenerezza, ed ecco la risposta di Gesù: “Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre”.

Ecco l’impensabile sorpresa del vangelo: il desiderio di vedere Dio è stato finalmente esaudito, e lo è stato al di là di ogni più audace aspettativa. L’Altissimo si è reso vicinissimo, e non nasconde più il suo volto. “Dio nessuno l’ha visto mai – sembra affermare sconsolato l’evangelista Giovanni, ma il suo apparente sconforto dura solo quanto basta per mettere in risalto l’evento sproporzionato – il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).

Ecco il segreto: per capire il Padre, dobbiamo guardare il Figlio. Gesù è in persona il Figlio del Dio vivente. Non possiamo ridurlo a uomo straordinario, a grande riformatore sociale, a eroe senza macchia e senza paura, magari con qualche spanna in più rispetto alla media aritmetica ponderata tra Robin Hood e Masaniello: un Gesù senza Padre, una sorta di “figlio orfano” di Dio, sarebbe irriconoscibile.

Dunque – sembra dire Gesù – guardami, Filippo: eccolo il Padre. E’ qui accanto a te, e ti sfiora e ti parla. E tu lo puoi vedere e toccare in me, ne puoi sentire il battito del cuore. E tu lo puoi abbracciare e baciare. Filippo, eccolo il Padre: ha la mia faccia, la mia voce; ha il mio respiro, il mio cuore. Dio non è un sole pallido da cercare tra sperdute regioni astrali: è qui, a portata di mano, ha il passo dell’uomo per camminare con ogni uomo.


1. Il fuoco della Parola – L’Evento


1. Quando il cristianesimo arrivò a Rimini…

Essere cristiani non è aderire a una idea; è seguire una persona, Cristo Signore. E’ quanto esprimiamo nella veglia pasquale, che si apre con un rito fortemente suggestivo: la chiesa è immersa nel buio e in un profondo silenzio; dal portale entra la luce del grande cero pasquale, simbolo di Cristo risorto; a quella fiamma si accendono tante fiammelle, mano a mano che i presenti accendono le loro candele; poi tutta la chiesa viene illuminata, mentre si leva il canto gioioso della risurrezione. Nel radiomessaggio a un mese dall’indizione del Concilio, il beato papa Giovanni richiamava questo rito della luce con disarmante candore:

“Ad un tocco della liturgia, ecco risuona il suo nome: Lumen Christi. La Chiesa di Gesù da tutti i punti della terra risponde: Deo gratias, Deo gratias, come dire: Sì: lumen Christi: lumen Ecclesiae: lumen gentium. Che è mai infatti un Concilio Ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro del volto di Gesù risorto, re glorioso e immortale, irradiante per tutta la Chiesa, a salvezza, a letizia, a splendore delle genti?” (11 sett. 1962).


Sono almeno diciassette secoli che il fuoco di questo messaggio pasquale si è acceso nella nostra santa madre Chiesa riminese, e dai tempi di san Gaudenzo non si è più spento. E’ il fuoco del primo annuncio, che la Parola di Dio concentra in formule brevi e pregnanti: Cristo è risorto; Gesù Cristo è il Signore; solo in Lui c’è salvezza.

Questo primo annuncio ci è stato proclamato fa con le parole alte e vibranti del prologo di Giovanni: “In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.

Immaginiamo quando queste parole saranno risuonate per la prima volta nell’antica Ariminum. La cultura del tempo, dominata dal sincretismo religioso e dalla presenza di una pluralità di culti e di vie di salvezza, non avrebbe avuto difficoltà ad accettare una religione in più. Neanche il feroce Diocleziano avrebbe acceso l’ultima fiammata di persecuzione contro quegli “esaltati” di cristiani, se essi avessero accettato di sistemare il loro Cristo come l’ennesima divinità nell’ennesima nicchia affianco ad altre nel pantheon romano. Ma ciò che costituiva motivo di contrasto insanabile tra l’impero e il cristianesimo era proprio quella pretesa di assolutezza avanzata dai cristiani: “Uno solo è Dio, e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1Tm 2,5). Questo vero uomo è anche il Figlio di Dio, “della stessa sostanza del Padre”.

Ricordiamo poi che nel 359 fu convocato ad Ariminum il Sinodo dei vescovi dell’Occidente, e l’imperatore Costanzo impose la formula semi-ariana del Figlio “simile” al Padre, e non uguale o “consostanziale”, come era stato definito nel Concilio ecumenico di Nicea del 325. Dopo un periodo di turbolenze e di sbandamenti, la fede nella divinità di Cristo si affermò senza ulteriori incertezze.

In seguito, a distanza di qualche decennio, devono essere certamente rimbalzati anche ad Ariminum gli echi aspri dell’ultima polemica accesa nel mondo romano oramai in decadenza. Il prefetto di Roma, il pagano Aurelio Simmaco sosteneva che “non si può giungere al grande mistero della verità per una sola via”. Sant’Agostino concesse che, sì, non si può giungere al grande mistero della verità per una sola via, a meno che, però, che la Verità stessa non si sia fatta via. In questo caso non è più vero che non basta una sola via e che tutte le vie sono buone. Ma questo è precisamente quanto è avvenuto quando “il Verbo si è fatto carne” , lo stesso Verbo “che era la Vita e la Vita era la luce degli uomini” e che, facendosi uomo, si è fatto anche Via. “Dimorando presso il Padre, egli era la Verità e la Vita; rivestendosi di carne è diventato la Via” (In Joh. 34,9).



2. Lo specifico del cristianesimo


Ora dobbiamo prendere di petto una difficoltà: il cristianesimo crede che Dio è amore; ma questo non lo crede ogni religione? Qual è allora lo specifico del cristianesimo? In effetti, è vero: anche Aristotele chiamava Dio amore – il grande Motore Immobile dell’universo, che “muove tutto in quanto amato”, ma lo intendeva appunto come un Amore che è o deve essere amato, ma mai e poi mai questo Amore può “abbassarsi” ad amare tutto ciò che non è Dio: finirebbe per “sdivinizzarsi”, autodistruggersi. Dunque noi lo dobbiamo amare, lui però – ma è veramente un “lui”? – può amare solo se stesso. Viene da chiedersi: questo “amore dell’amore” non rischia di sconfinare nel più morboso narcisismo?


Non è certamente così per il Dio di Muhammad il Profeta. Ogni fedele lo invoca più volte al giorno, con la prima “sura” del Corano: “Nel nome di Dio, Misericordioso e Compassionevole”. Allah ha cento nomi: è Grande, Onnipotente, Eterno, Immenso ecc., ma il nucleo dei suoi attributi è costituito proprio da quei due aggettivi – Misericordioso e Compassionevole: Allah riversa la sua clementissima misericordia su tutte le sua creature, anche le più piccole e umili.


“Il Signore ha bisbigliato qualcosa all’orecchio della rosa, ed eccola aprirsi al sorriso. Ha mormorato qualcosa al sasso, ed ecco ne ha fatto una gemma preziosa, scintillante nella miniera. E quando ancora dice all’orecchio del sole qualcosa, la guancia rossa del sole si copre di mille eclissi. Ma che cosa mai avrà bisbigliato il Signore all’orecchio dell’uomo per farne una creatura così mirabile? Misericordia e compassione” (RUMI, mistico islamico).


Si può parlare di un vero rapporto d’amore tra Dio e noi? Certamente da parte nostra nei suoi confronti è più corretto parlare non di amore, ma di “sottomissione”: questo significa la parola araba “islàm”. E da parte sua? Se facciamo il confronto con il Dio di Gesù Cristo, tra le non poche differenze balzano evidenti queste due: Allah ama solo i suoi “fedeli” e predestina gli infedeli alla dannazione eterna, mentre il Padre di Gesù non fa preferenze di persone, ma vuole che tutti gli uomini siano salvi. Inoltre ad Allah  manca la capacità di amare in modo umano. E si capisce perché: può amare in modo umano solo un Dio incarnato, cosa che l’islamismo ritiene assurda. Ma può un Dio amare veramente gli uomini senza amarli in modo effettivamente umano? E come può un Dio amare in modo umano senza un cuore “carnalmente” umano? Questo non significa pensare l’Incarnazione come ad un evento “dovuto”: essa è e resta una grazia, evento assolutamente gratuito, del tutto imprevedibile e improgrammabile, ma la differenza cristiana è data proprio dalla fede in quell’evento: “la Parola di Dio si è fatta carne”, che è come dire: l’Amore di Dio si è fatto cuore di carne.


Interessante anche un confronto con il buddismo. E’ stato H. de Lubac il primo a stabilire un audace parallelo tra Cristo e Budda. Ecco la sua conclusione:

“Il fallimento di questa immensa avventura, il naufragio di questa ‘zattera’ gigante, che ha imbarcato per la liberazione mezza umanità, deriva dal fatto che Budda non ha saputo scoprire il volto del Dio-Amore. Non per questo siamo severi con lui. Budda ha forse impersonato più di qualsiasi altro uomo il problema del destino umano. Più di qualsiasi altro ha portato a buon fine tutta una pars purificans, per la quale gli stessi cristiani gli possono essere riconoscenti. Ha evitato le vie ingannevoli e sempre tentatrici della superstizione, dell’ascesi meccanica e della gnosi. Ha visto la necessità dello spogliamento spirituale, al di là della morte dei sensi. Ma ha indubbiamente mancato il suo scopo. Senza il ‘pieno’ della carità, nessuno realizzerà mai il ‘vuoto’ del distacco. Senza il sì, che può essere soltanto una risposta, non è possibile pronunciare definitivamente il no indispensabile” (Aspetti del Buddismo).


3. Le strutture dell’evento cristiano


La contemplazione dell’Evento ci porta a fissare alcune “leggi” che regolano la sua struttura, e che devono essere tenute ben presenti per la risposta della fede alla “lieta notizia” di Gesù. Ne richiamo quattro, in particolare.


La prima è la gratuità, o più semplicemente la grazia. Nella sua magistrale Introduzione al cristianesimo, consegnata alle stampe esattamente quaranta anni fa, nell’estate del 1968, una delle più inquiete e roventi del secolo scorso, Joseph Ratzinger scriveva:

“L’uomo non raggiunge veramente se stesso tramite ciò che fa, bensì tramite ciò che riceve. Egli è tenuto ad attendere il dono dell’amore, e non può accogliere l’amore che sotto forma di gratuita elargizione. Non si può ‘far l’amore’ da soli, senza l’altro; bisogna invece attenderselo, farselo dare. E non si può divenire integralmente uomini fuorché venendo amati, lasciandosi amare”.


Tante volte si mette in guardia dal pericolo dell’orizzontalismo: il cristianesimo – si dice – non si può ridurre al comandamento dell’amore del prossimo, ed è giusto: prima viene il comandamento dell’amore per Dio. Ma prima ancora del primo comandamento, viene l’evento: Dio ci ha amati per primo! E’ vero: la dimensione verticale precede e fonda quella orizzontale, ma si tratta di una verticalità discendente: non siamo stati noi a salire verso Dio, ma è Dio che si è abbassato fino a noi. La fede è un dono che viene dall’alto: come si nasce dall’alto, e non da carne e sangue ma dall’acqua e dallo Spirito, così all’origine della nostra risposta c’è Dio Padre che ci ama e ci chiama. E come nessuno si può autogenerare, così nessuno si può autochiamare o autobattezzare.

La seconda legge, strettamente legata alla precedente, si potrebbe definire la legge dell’indicativo. Nella vita cristiana l’indicativo precede l’imperativo: sei amato e dunque amerai! La fede fonda la carità; la chiamata precede la risposta; il kerygma genera l’etica. Lo diceva un maestro del sospetto, ma in questo diceva il vero: “Bisogna aver conosciuto l’amore, prima della morale; altrimenti è lo strazio” (Sartre).

La terza legge la potremmo formulare così: Dio sceglie un popolo (Israele), ma per portare la luce a tutti i popoli. Convoca la Chiesa, ma come segno e strumento di salvezza per tutta l’umanità. Sceglie una persona, ma per la crescita di tutto il corpo di Cristo. Il suo infatti è un amore elettivo, ma non selettivo, discriminante, perché l’amore non può mai fare preferenza di persone. Ogni cristiano quindi è messo di fronte alla sua responsabilità: deve sapere e deve ricordarsi sempre che Dio lo ha scelto per farne uno strumento di salvezza a favore di “molti”. Nel momento in cui il chiamato dimenticasse di essere un povero strumento – di per sé assolutamente inadatto e inadeguato – e si illudesse di essere lui la causa o il protagonista della propria e altrui salvezza, finirebbe per distruggere ogni possibilità di autentica realizzazione di sé e di vera grazia per altri.

La quarta legge della fede è la croce: come per Cristo, così per ogni cristiano, rispondere alla chiamata del Padre significa scegliere di perdere la vita per amore. Non si può seguire la via crucis, se non si è sinceramente, concretamente, definitivamente disposti a rinnegare il proprio io e ad inchiodarlo sulla croce. Altrimenti – mi capita di ripetere spesso – prima o poi ci inchioderemo qualcun altro… La fede cristiana è tutta questione d’amore.


2. Il pane dell’Eucaristia – Il Sacramento

La veglia pasquale, dopo la liturgia della parola e la rinnovazione delle promesse battesimali, culmina nella liturgia eucaristica. Noi facciamo Pasqua, celebrando il memoriale del Signore Gesù, obbedienti al suo comando: “Fate questo in memoria di me”. Così noi annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta.

Scrive s. Gregorio Nisseno:

“Tre sono gli elementi che manifestano e distinguono la vita del cristiano: l’azione, la parola e il pensiero. Primo fra questi è il pensiero; poi viene la parola che dischiude  e  manifesta con vocaboli ciò che è stato concepito con la mente; quindi, in terzo luogo, si colloca l’azione che traduce nei fatti quello che uno ha pensato. La perfezione della vita cristiana consiste nell’assimilarsi a Cristo in modo pieno, prima nell’ambito interiore del cuore, poi in quello esteriore dell’azione” (PG 46,283s).


La contemplazione è la via obbligata per passare dalla comunione con Cristo nella Messa, alla conformazione a Cristo nella vita. Come perciò si parla di una universale chiamata alla santità di tutti i battezzati, allo stesso modo si deve parlare di una universale chiamata di tutti i battezzati alla contemplazione, che è lo stesso che dire alla unione mistica con Dio (cfr. CCC 2014). Pertanto la via della santità va dalla celebrazione dei santi misteri (e perciò si chiama “mistica”) alla contemplazione, e dalla contemplazione all’azione. Si dà dunque un “primato della contemplazione sull’azione” non in senso qualitativo o sostanziale, ma genetico: non si vuole dire che la contemplazione è “più importante” dell’azione – come non ricordare che saremo giudicati sulle “opere” concrete dell’amore? –  ma che viene “prima”, ne è la sorgente. Scriveva J. Maritain:

“Ciò che importa in modo specialissimo e forse prima di tutto per la nostra epoca, la via di orazione e di unione con Dio vissuta nel mondo, non solo dalle nuove famiglie religiose, ma anche da quelli che sono chiamati a questa vita nel mondo stesso con tutta l’agitazione, i rischi e il fardello del temporale. Sono meno rari di quanto si creda e sarebbero più numerosi se non ne fossero distolti, sia perché considerati incapaci, sia perché si ha della contemplazione una ignoranza e una disistima ugualmente profonde e imperdonabili, sia perché si giudica più urgente impegnare tutti i laici di buona volontà nell’efficacia affascinante dell’azione collettiva per quanto possibile tecnicizzata” (Il contadino della Garonna).


Si dà uno stretto legame tra eucaristia e contemplazione. La celebrazione eucaristica consiste essenzialmente nel “fare-memoria” di Gesù, non nel senso di “commemorare” e di “rappresentare” la sua cena e la sua Pasqua, ma di rendere presente Lui, morto e risorto, nella nostra assemblea. Noi chiediamo al Padre di ricordarsi del sacrificio di Gesù, e il Padre si ricorda realmente e concretamente – affettivamente ed effettivamente – rendendolo presente nel sacramento. E anche noi ci ricordiamo di Gesù e del suo sacrificio chiedendo al Padre di renderci presenti a suo Figlio ora nella liturgia, e subito dopo nella vita.

Ricordare viene dal latino recordari e significa, alla lettera, far salire di nuovo (re-) al cuore (cor): ricordare è guardare con gli occhi del cuore, come faceva Maria la quale “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria è perciò il modello più perfetto di ciò che si intende per contemplazione eucaristica: così deve essere il cristiano che ha appena ricevuto il copro di Cristo: anche lui deve accogliere (con-cepire) Cristo nel suo cuore, dopo averlo accolto nel suo corpo, per poterlo “partorire” nella sua vita.

Per operare questa trasformazione esistenziale della nostra vita nella vita di Cristo (“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”), è indispensabile la trasformazione del nostro cuore, che avviene appunto per mezzo della contemplazione dell’amore del Signore, quale si rende presente nella santa eucaristia:

“Poiché l’amore per Cristo nasce dai pensieri che hanno per oggetto il Cristo e il suo amore per gli uomini, giova molto conservare tali pensieri nella memoria, rivolgerli nell’anima e non darsi mai vacanza da questa occupazione. E’ utile, inoltre, tentare di rendere continuo tale esercizio, senza lasciarsi interrompere da nulla, possibilmente per tutto il corso della vita, o almeno molto spesso; sicché questi pensieri si imprimano nell’anima e occupino totalmente il cuore. Come il fuoco non può agire per nulla sugli oggetti che tocca se il contatto non è continuo, così un pensiero intermittente non può disporre il cuore a nessuna passione; occorre un certo tempo, lungo e continuo” (N. CABASILAS, Vita in Cristo, VI,4).


In concreto ciò avviene in modo particolarmente intenso nella adorazione eucaristica. Valgono a proposito, in modo particolare, le parole dell’apostolo Paolo: “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18). La contemplazione silenziosa e prolungata del Signore presente in modo “transustanziale” nell’eucaristia attraverso la “conversione sostanziale” delle specie del pane e del vino, opera la trasformazione o “conversione esistenziale” della nostra vita nella sua.

Ecco cosa scriveva al riguardo il nostro beato A. Marvelli nel suo Diario:

“Gesù mi ha avvolto con la sua luce, mi ha circondato, non vedo più che Lui, non penso che a Lui, tutto il mondo attorno sparisce, si resta soli con Lui, Lo si prega che sempre prolunghi quegli attimi, che mai sparisca dal nostro sguardo, che sempre ci sia presente a ricordarci il nostro dovere… Infine mi inoltro nel pensiero infinito di Dio, come un povero cieco desideroso di luce”.


Ma questo “povero cieco” era un contemplativo d.o.c. che riusciva a “vedere il volto di Dio accanto a noi, nella vita, nelle opere, nelle attività fino alla fine della vita, per poi contemplarlo nell’eternità”.

Nel libro dell’Esodo leggiamo che “quando Mosè scese dal monte Sinai, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” (Es 34,29). Mosè non sapeva e neppure noi sappiamo, ma forse capiterà anche a noi che, tornando tra i fratelli dopo l’adorazione eucaristica, qualcuno vedrà che il nostro viso è diventato raggiante, poiché abbiamo contemplato il Signore. E sarà questo il dono più bello che potremo fare loro.


3. La strada della Carità – Il Comandamento


1. Dalla santa eucaristia alla carità

La veglia pasquale si conclude con il mandato: “Andate a portare a tutti la lieta notizia del Cristo risorto, Alleluia!”. La Messa non finisce, ma si prolunga nella vita. L’eucaristia si traduce in carità.

Nessuno separi ciò che Dio ha unito: eucaristia e carità non sono due realtà diverse; e sono molto di più che due facce della stessa realtà. Propriamente parlando, sono la stessa “cosa” (che, ovviamente, non è una… cosa!). San Tommaso si esprimeva al riguardo con una espressione di una semplicità disarmante: la santa eucaristia non è né più né meno che il “sacramento della carità”. Cosa è infatti l’eucaristia se non la carità celebrata? E cosa è la carità se non l’eucaristia vissuta?

Papa Benedetto, nella esortazione apostolica dedicata all’eucaristia e intitolata appunto Sacramentum caritatis, scrive nelle primissime righe, con la sua solita, magistrale chiarezza:

“Sacramento della carità, la santissima eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo. In questo mirabile sacramento si manifesta l’amore ‘più grande’, quello che spinge a ‘dare la vita per i propri amici’ (Gv 15,13). Gesù, infatti, ‘li amò sino alla fine’ (Gv 13,1). Allo stesso modo, Gesù nel sacramento eucaristico, continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue”.


Chi ha approfondito in lungo e in largo – e in alto! – il legame indissociabile eucaristia-carità è stato s. Agostino. Rivolgendosi a coloro che si sono accostati al banchetto eucaristico, dichiara: “Compaginati nel suo corpo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”. Comunicando con il corpo di Cristo che è l’eucaristia, i fedeli diventano sempre più pienamente il corpo ecclesiale di Cristo. Per questo, guardando il Cristo eucaristico che si assimila la Chiesa come suo corpo, Agostino può esclamare: “O sacramento della pietà! O segno di unità! O vincolo di carità”, ed esorta: “Conservate l’unità! Avete appena mangiato il vincolo che vi unisce”.

Carità come unità, ma – come già in s. Paolo e negli Atti degli Apostoli – l’assemblea eucaristica è inseparabile dal perdono fraterno e dalla condivisione dei beni verso chi è nel bisogno. Ricordiamo la Didachè:

“Riuniti nel giorno del Signore, spezzate il pane e rendete grazie quando avete confessato i vostri peccati, perché sia puro il vostro sacrificio. Chi è in lite con il suo amico, non si unisca a voi, prima che si siano riappacificati per modo che non sia profanato il vostro sacrificio”.


San Giustino, verso il 150, ricorda la prassi della colletta prima della distribuzione dei doni consacrati:

“I ricchi e quelli che lo vogliono, ciascuno a sua scelta, offre quello che intende dare e, quanto si raccoglie, viene consegnato a chi presiede, ed egli soccorre gli orfani e le vedove, i malati, i bisognosi, come pure i carcerati, i pellegrini, gli ospiti…”.


E’ ugualmente in questo ambito che la Didascalia degli Apostoli considera il giorno del Signore, la domenica, come il giorno della riconciliazione: durante la settimana, a cominciare dal lunedì, si chiariscono le vertenze sorte tra i cristiani, ma la domenica si deve essere pienamente riconciliati, per potere celebrare autenticamente l’eucaristia. Non ci si può infatti chiamare fratelli se non si è in pace, e se non si è in pace non si può celebrare l’eucaristia.

Le citazioni potrebbero continuare a pioggia. Ma ci fermiamo qua. Ciò che mi preme evidenziare in questo anno dedicato dalla nostra diocesi alla contemplazione del volto del Signore è un obiettivo antico e sempre nuovo, ed assolutamente irrinunciabile: fare delle nostre parrocchie delle vere comunità eucaristiche, che – se sta quanto detto sopra – è lo stesso che dire: comunità di carità.

Per questo è indispensabile che ci sottoponiamo tutti ad una sorta di check-up e verifichiamo quanto la nostra prassi eucaristica non sia intaccata da due patologie contrarie ma ugualmente “mortali”. La prima è quella del ritualismo: ridurre l’eucaristia a rito vuoto, magari eseguito puntigliosamente, ma separandolo dalla vita. Non c’è da meravigliarsi allora se la celebrazione diventa una ripetizione meccanica di gesti e parole, che ha ben poco a vedere con la capacità dell’eucaristia di plasmare l’esistenza credente sul modello e con la grazia della carità di Cristo. Ci dovremo perciò domandare: come reinserire il mistero dell’eucaristia nel movimento profondo del vissuto della comunità e dei suoi componenti, in modo tale che esso sia effettivamente modellato e realmente riplasmato dal-e-sul mistero eucaristico, e il “grande sacramento” sia davvero il centro, la sorgente e il culmine della vita cristiana come esistenza di carità?

L’altro pericolo mortale è quello opposto del secolarismo, che riduce l’evento eucaristico a mero simbolo dell’aspirazione umana alla libertà e alla solidarietà, sganciandolo dalla Pasqua di Gesù Cristo. Infatti il progetto di carità inaugurato dalla morte e risurrezione del Signore non è un “dato” di mera filantropia umana, seppure da imitare o da ricopiare. L’eucaristia, come sacramento della Pasqua, non è la rappresentazione mimica del nostro volerci bene, ma la celebrazione sacramentale che ri-presenta (nel senso che “rende presente”)  l’amore gratuito e salvante del Signore che, a sua volta, genera e si prolunga nella carità fraterna e nel servizio ai poveri.  Insomma, come ci ricorda Paolo, noi non mangiamo lo stesso pane perché siamo (già) fratelli, ma diventiamo fratelli perché mangiamo lo stesso Pane (cfr. 1Corinzi 14,17).

In questo anno pastorale 2008-’09, dedicato alla contemplazione del volto del Signore, vogliamo implorare una grazia grande – la più grande! – che adorando il santo mistero di Gesù che si dona corpo e sangue per la vita del mondo, il volto della nostra Chiesa diocesana diventi sempre più come un grande ostensorio che lasci trasparire lo stesso volto “eucaristico” del suo Signore: il volto della carità.

2. Dalla contemplazione alla missione

Ora torniamo a domandarci: l’annuncio evangelico che risuona nelle nostre chiese e nelle nostre comunità è ancora lieto annuncio di salvezza o piuttosto – e non raramente – è diventato un messaggio incolore, inodore e insapore, capace solo di provocare l’annoiata sazietà delle cose trite e ritrite? Ma un annuncio che perde la freschezza e la sbalordita sorpresa di una “lieta notizia” è ancora vangelo? La fede non nasce da uno sbadiglio, ma dallo stupore. E la prima domanda che dovrebbe porsi spontaneamente chi viene raggiunto dalla storia di Gesù, non è: cosa devo fare? bensì: ma è proprio vero?

Oltre che scolorita dalla noia, la lieta notizia di Gesù oggi risulta minacciata da quella che papa Benedetto XVI ha chiamato “la dittatura del relativismo” per cui tutte le religioni sono buone e vere, come doveva avvenire nella nostra Ariminum, al tempo in cui Agostino dibatteva con Simmaco.

Su questo punto dobbiamo soffermarci con calma, mettendoci, insieme al Papa, alla scuola di s. Paolo. “Vi faccio notare, fratelli, che il messaggio di salvezza da me annunziato non viene dagli uomini. Nessun uomo me l’ha trasmesso o insegnato. È Gesù Cristo che me l’ha rivelato”: così s. Paolo si rivolgeva ai cristiani della Galazia (Gal 1,11-12). Da queste parole emerge nitida e ferma da parte dell’Apostolo la consapevolezza della superiorità, anzi dell’unicità dellevangelo: il messaggio cristiano non può mai essere ridotto ad un prodotto umano, ma è l’unica parola che salva. Con questa certezza granitica sta o cade tutto l’edificio della fede. E questo è l’annuncio che dal giorno di Pentecoste ha cominciato ad incendiare” il mondo intero: “Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza; infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci” (At 4,12). Una fede debole non può né vincere né convincere il pensiero debole. Una fede incerta e confusa non può recare al mondo l’unica bella notizia della salvezza: “se la tromba emette soltanto un suono confuso, chi si preparerà a combattere?” (1Cor 14,8).

Il dialogo con le altre religioni – a meno di ridurlo a trattativa diplomatica – richiede una limpida e solida “coscienza di verità”: Gesù non può essere equiparato al livello di Budda o di Maometto. Se questi grandi maestri potessero parlare oggi, direbbero come il Battista: “Non sono io il Cristo” (Gv 1,20).

Dalla contemplazione del volto veramente e perfettamente umano e, insieme, veramente e perfettamente divino di Gesù di Nazaret, deriva la necessità, anzi l’urgenza della missione. Cristo infatti è l’unico salvatore di tutti gli uomini, anche di quelli che non lo conoscono; è la sorgente originaria dei valori che già possiedono; è la meta nascosta a cui inconsapevolmente tendono, perché tutti sono creati in lui e orientati alla comunione con lui. Certo, è vero che i non cristiani di buona volontà sono già aperti al suo amore, in modo da poter ricevere la salvezza, ma questo orientamento non costituisce una valida obiezione alla legittimità e alla impreteribile necessità della missione; è piuttosto una ragione in più perché quei fratelli conoscano il nome di Cristo e riconoscano il suo santo volto, e vivano consapevolmente e pienamente il rapporto con lui.

Le religioni contengono, certo, preziose verità, come germi del Verbo divino pronti a ulteriori sviluppi, ma contengono pure errori, lacune e non poche deviazioni. Solo l’incontro esplicito, pieno e cosciente con Cristo nella sua Chiesa – poiché è l’unico incontro integralmente liberante – afferma e conferma i valori e gli elementi positivi delle varie religioni, purificandoli dalle incrostazioni dell’errore e del peccato, e portandoli a piena maturazione.

Per un vero cristiano, innamorato del suo Signore, diventa allora insopportabile il solo pensiero che anche un solo fratello possa vivere tutta la vita senza mai poter conoscere il suo volto e il suo santo nome, senza mai poter entrare in una comunione consapevole e personale con lui.

Dunque è per amore e solo per amore che noi cristiani e cattolici obbediamo al comando di Gesù: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). Noi ci mettiamo sui passi del Maestro, il primo missionario, non solo lavorando per lui e con lui, ma come lui. Non per un trionfalismo esaltato e presuntuoso; non per un  colonialismo ingordo e vorace che riduce gli uomini di altre religioni e culture ad oggetti, buoni solo da saccheggiare; non per un fondamentalismo forsennato che tratta gli altri solo come potenziali proseliti da conquistare o, in caso contrario, come irriducibili condannati all’eterna perdizione.

Per amore, solo per amore: infatti, se il vangelo è un messaggio d’amore, può essere comunicato solo attraverso il linguaggio dell’amore: per mezzo della croce, non della spada.


3. Alcune indicazioni riassuntive

Se dovessi riassumere tutta la parte fondativa di questa riflessione, tenterei tre affermazioni di fondo.

La prima: la missione non è una nostra iniziativa, ma una risposta d’amore all’invito di Gesù Cristo a prendere il largo: Duc in altum! E’ il messaggio della nuova evangelizzazione, con cui l’indimenticabile papa Giovanni Paolo II ha voluto siglare l’apertura del nuovo Millennio. Nella nostra Diocesi quel messaggio ha ispirato la grande missione del popolo al popolo, e nel 2003 il mio amato Predecessore lo ha fatto risuonare con un appello accorato: Chiesa Riminese, apriti alla missione! Sì, la missione è ancora davanti a noi, e lo sarà sempre. Ma per non risultare una parola vuota o un vago desiderio, è indispensabile che ne assicuriamo l’insostituibile fondamento, quello della contemplazione del volto del Signore. Non possiamo mai dimenticare un dato basilare: il  fuoco dell’evangelizzazione ha sempre bisogno del combustibile della comunione, ma, prima ancora, dell’ossigeno della contemplazione. La pastorale si ridurrebbe fatalmente a ricerca accanita di presunte ricette miracolose, di illusorie formule magiche, o a grigia gestione di “cose da fare” se partisse dall’analisi della propria situazione, e non innanzitutto dallo sguardo adorante dell’unico evento che salva: Gesù Cristo, crocifisso e risorto.

La seconda affermazione, collegata alla precedente: il rapporto tra missione e contemplazione è circolare. La contemplazione senza la missione è sterile; la missione senza la contemplazione potrà al massimo risultare efficiente, ma non sarà mai realmente efficace.

La terza affermazione è la seguente: missione non è fare colpo, né fare pubblicità. E’ fare mistero. Questa è la vera testimonianza: è vivere una vita in modo tale che essa non si potrebbe spiegare se Cristo non fosse morto per amore nostro e non fosse realmente risorto.


Ma insomma che cosa dobbiamo fare? In quella che si può chiamare la “carta di navigazione” per la Chiesa del Terzo Millennio, la Novo Millennio Ineunte, Giovanni Paolo II indicava sette priorità pastorali, che ricordo brevemente. 1. Restituire a tutto il cammino pastorale la prospettiva della santità. 2. Fare delle nostre comunità delle autentiche “scuole” di preghiera. 3. Porre il massimo impegno nella celebrazione della domenica. 4. Proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della riconciliazione. 5. Impegnarci con maggior fiducia, nella programmazione che ci attende, ad una pastorale che rispetti fedelmente il primato della grazia. 6. Ripartire da un rinnovato ascolto della parola di Dio, in particolare nella pratica della lectio divina. 7. Assumere con maggiore audacia, fedeltà e fiducia l’impegno della nuova evangelizzazione. Il tutto deve essere permeato dalla spiritualità di comunione e deve essere coerentemente tradotto nell’impegno della carità verso ogni essere umano, in particolare verso i poveri.


Mi permetto di fare qualche raccomandazione riassuntiva, a carattere esemplificativo. Si tratta di sette “piccoli passi”, che ogni parroco con il suo consiglio pastorale vedrà come concretizzare.

1. Vorrei richiamare innanzitutto la insostituibilità pratica della parrocchia: è una vera “comunità di base”, nel senso di forma storica privilegiata che dà concretezza alla dimensione territoriale della Chiesa particolare. Essa è – può e deve essere! – la “casa e la scuola” della contemplazione, della comunione e della missione. Né la parrocchia né le associazioni e i movimenti devono cadere nella “trappola” delle esclusioni vicendevoli o delle pericolose alternative, ma collaborino cordialmente per una apertura reciproca e per un impegno condiviso a favore della “svolta missionaria” della parrocchia.

2. Invito ogni parrocchia a favorire – con frequenza possibilmente settimanale – tre “tempi”: il “tempo della contemplazione” con l’adorazione eucaristica; il “tempo dell’ascolto” e di formazione, con la lectio divina (in vista dell’eucaristia domenicale); il “tempo della riconciliazione”, con l’orario programmato e pubblicato per le confessioni. In particolare è indispensabile che ogni parrocchia offra dei “percorsi di formazione cristiana” mirati a rifondare e a nutrire la fede di giovani e adulti.

3. Desidero incoraggiare ogni tentativo per “rilanciare” la bellezza della domenica cristiana: perché non far precedere la celebrazione vespertina (non “pre-festiva”!) della Messa del sabato sera (che per noi è l’inizio della domenica) con la celebrazione del lucernario e dei vespri? perché non celebrare la liturgia delle lodi prima della prima Messa alla domenica mattina? Sarà pure importante curare la celebrazione di ogni eucaristia secondo verità e bellezza, senza dimenticare che la domenica vanno favoriti spazi di incontro, di festa, di servizio e di condivisione con i poveri.     

4. Porre ogni cura perché il territorio della parrocchia sia come “punteggiato” da centri di ascolto del vangelo, condotti da laici formati e preparati.

5. Fare in modo che la benedizione delle case diventi l’occasione per riproporre il “primo annuncio” a tutti, valorizzando la preziosa risorsa di diaconi, accoliti e/o anche fedeli – che con brutta espressione chiamiamo “semplici laici” – i quali sappiano “rendere ragione” della propria fede. Il parroco faccia in modo da visitare tutta la parrocchia se non una volta all’anno, almeno ogni proporzionato numero di anni.

6. Favorire un’alta tensione spirituale in parrocchia attraverso pellegrinaggi, tempi di esercizi spirituali, esperienza delle Quarant’ore, visite a comunità monastiche, incontri con testimoni della fede. A livello diocesano sarà utile prevedere qualche iniziativa che metta il popolo di Dio in comunione di ascolto silenzioso della Parola letta e commentata dal vescovo, in qualche momento particolare dell’anno liturgico.

7. Sulla scorta della NMI (n. 45) raccomando di ridare significato e rilevanza a due organismi che non dovrebbero mai mancare in nessuna parrocchia: il consiglio pastorale e la caritas parrocchiale.


Ora è tempo di chiudere. Invito a farlo con una preghiera breve, ma intensa a Maria, “la faccia che a Cristo più si somiglia” (Dante).


Maria, piccola grande Maria, aiutaci tu a non aver paura di Dio. Accendi in noi il desiderio di donarci al Figlio tuo, totalmente, semplicemente, lietamente, senza calcoli e senza sconti.

Maria, mite audace Maria, datti da fare: prendi tu la nostra povera vita e riconsegnacela trasfigurata nel capolavoro dell’immagine di tuo Figlio.

Maria, tenera forte Maria, dài, facci almeno intravedere, tra le penombre e le fitte nebbie del nostro pellegrinaggio, il Volto di Gesù, il frutto benedetto del tuo grembo, e aiutaci a mostrarlo a tutti, fino a quando lo vedremo anche noi, faccia a faccia, dopo questo esilio terreno.

E sarà gioia senza fine….

Grazie a te, o dolce Vergine Maria!