Una Chiesa tutta in uscita

Alla scuola di san Gaudenzo

Omelia del Vescovo nel corso della santa eucaristia per la festa del Patrono

La storia di san Gaudenzo intriga. E intriga parecchio proprio perché – paradossalmente – del nostro patrono, è più quello che non sappiamo di quello che sappiamo. E’ vero: il gruzzolo del minimo comun denominatore che si ricava dalle diverse tradizioni sulla sua figura appare piuttosto scarso e precario. Gaudenzo vi è indicato come un cristiano proveniente da Efeso. Intorno al IV secolo venne inviato dal papa a Rimini per annunciarvi il Vangelo. Divenuto vescovo della città – probabilmente il proto-vescovo – Gaudenzo continuò nella sua opera di evangelizzazione e, secondo la tradizione attestata dal culto, morì martire.

1. Missionario, pastore, martire: tre tratti, un solo ritratto. Depurata da particolari aneddotici e incerti, questa storia ci riconsegna l’essenziale per una comunità cristiana, mentre a me vescovo restituisce l’indispensabile per il mio ministero pastorale. E questo mi basta. Mi deve e ci deve bastare uno zoom sul concentrato “essenziale-indispensabile” della storia di san Gaudenzo. Nel profilo del nostro patrono i tre aspetti appena evidenziati consentono di cogliere il DNA della fede cristiana allo stato nascente, aiutano a riscoprire la freschezza delle nostre origini, contagiano una simpatia per il nostro passato e il nostro presente, e ci trasmettono una invincibile fiducia per il nostro futuro. Insomma la succinta storia di Gaudenzo ci autorizza a parlare tranquillamente della Chiesa riminese come di una “novità antica“: un ossimoro, questo, che esprime appunto la sorprendente combinazione tra l’originalità iniziale e il suo perdurare nel tempo. Vorrei allora guardare, sì, indietro alle lontane origini della nostra storia, ma, tutt’altro che con l’interesse passatista dell’archeologo, strizzando invece l’occhio alla nostra situazione ecclesiale e culturale di oggi. In effetti, quando si parla di cristianesimo, affiorano sempre, latenti e intriganti due domande ineludibili: se Gesù si ripresentasse oggi, dopo duemila anni, si riconoscerebbe ancora in coloro che sostengono di essere fedeli custodi della sua persona e del suo messaggio? E se san Gaudenzo tornasse oggi nella nostra città, riconoscerebbe me vescovo come suo fedele successore, scoprirebbe voi sacerdoti come generosi “con-presbiteri” del vescovo, certificherebbe voi consacrate/i come autentici testimoni della radicalità evangelica, identificherebbe voi laici come sacerdoti, re e profeti del mondo nuovo?

2. Non per schivare, ma proprio per aggredire di petto queste domande, dobbiamo porcene un’altra, preliminare e imprescindibile: come si è diffuso il cristianesimo nella nostra città e nel territorio circostante? Certamente non c’era alcun “braccio secolare” che lo appoggiasse; senza alcun dubbio le conversioni non erano determinate da vantaggi esterni, da interessi economici, da privilegi sociali o culturali. Inoltre essere cristiani non rappresentava una consuetudine o una moda seducente e fascinosa, ma una scelta controcorrente, spesso a rischio della vita. Per certi versi, la situazione è tornata a crearsi oggi in diverse parti del mondo, e per alcuni aspetti sembra riprodursi anche dalle nostre parti. Anche da noi oggi non si può più essere cristiani per convenzione, ma solo per convinzione e per scelta personale. Certo, per noi, la conversione ad una vita cristiana seria non espone più al rischio di persecuzione fisica, eppure essere cristiani è tornato a costare. Ma questo, per la fede e per la Chiesa, non è affatto una perdita; rappresenta piuttosto un cospicuo guadagno.

Resta la domanda: quali furono le ragioni del trionfo del cristianesimo? Un messaggio nato in un oscura e disprezzata periferia dell’impero, tra persone semplici, senza cultura e senza potere, in meno di tre secoli si estende a tutto il mondo allora conosciuto, sorpassando la raffinatissima cultura dei Greci e bypassando la potenza imperiale di Roma! Tra le diverse ragioni del successo, qualcuno insiste sull’amore cristiano e sull’esercizio attivo della carità, tanto da indurre, più tardi, l’imperatore Giuliano l’Apostata a dotare il paganesimo di analoghe opere caritative per contrastare tale successo. Qualche altro storico individua le ragioni del prevalere della fede cristiana nel suo spirito “cattolico”, ossia nella sua capacità di conciliare in sé le opposte tendenze e i diversi valori presenti nelle religioni e nella cultura del tempo. Ancora, tra gli storici delle origini cristiane c’è chi dà importanza ad alcuni fattori “strutturali”, come ad esempio le grandi arterie stradali dall’impero sapientemente sfruttate dalla strategia missionaria dei cristiani che puntavano sui grandi centri urbani, per poi diffondersi nei dintorni e nell’entroterra.

Ma tutti questi fattori dimenticano una cosa semplicissima, che si rischia anche di trascurare in tanti approcci attuali e mediatici, quando si parla di nuova evangelizzazione. Si rischia cioè di dare più importanza al soggetto che all’oggetto della missione, più agli evangelizzatori e alle condizioni in cui essa si svolge che al suo contenuto, più ai seminatori e al terreno in cui si semina che al seme stesso. Gesù aveva dato in anticipo una spiegazione del diffondersi sorprendente e prodigioso del suo Vangelo. Aveva detto: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,26-27).

3. Chi ha colto con lucidità la priorità del Vangelo sugli evangelizzatori- o, se si vuole, la precedenza, sul soggetto che annuncia, dell’oggetto che si annuncia – è l’apostolo Paolo: “Io – scrive ai Corinti – ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere”. Sembra un commento alla parabola di Gesù, appena citata. Non si tratta di tre operazioni della stessa filiera; l’apostolo aggiunge infatti: “Ora, né chi pianta né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere” (1Cor 3,6-7). E’ da ricordare che l’apostolo ha subito una serie di smacchi cocenti e di vistosi fallimenti. Si pensi al rigetto, diplomatico ma non troppo, incassato dall’apostolo all’Areopago da parte dell’intellighenzia di Atene. Si tenga inoltre presente un’altra costante nella strategia missionaria di Paolo: ogni volta che arrivava in una città, si recava sistematicamente alla sinagoga degli ebrei e sembrava lo facesse apposta a sfidare l’opposizione dei suoi ex-correligionari. Ma le bordate di fischi, la collezione di fiaschi non hanno mai minimamente scalfito la sua fiducia nel messaggio. Abbiamo ascoltato poco fa nella seconda lettura: “Non ci perdiamo d’animo. Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,1-7).

4. Prima di concludere, vorrei accennare a un altro fattore determinante per la diffusione dei primi germi di cristianesimo anche a Rimini e dintorni. Al tempo delle persecuzioni, quando i primi cristiani non potevano costruire i loro luoghi di culto e di incontro pubblici, la struttura delle comunità cristiane continuava ad essere quella registrata negli scritti del NT: i battezzati si riunivano a gruppi di poche decine nelle case più grandi, messe a disposizione sempre più stabilmente da qualche famiglia. San Paolo parla più volte di “chiesa riunita nelle case di…”, ad esempio, di Priscilla e Aquila, a Roma o ad Efeso o a Laodicea (Rm 16,5.23; 1Cor 16,19; Col 4,15; cfr anche Fm 2). Nel secondo-terzo secolo il raduno delle comunità avveniva in una casa, che ormai però non era più una casa privata, bensì un luogo ‘semi-pubblico’: era la “casa della comunità”, in latino domus ecclesiae. In una “casa-chiesa” la comunità cristiana cresceva attorno ai sacramenti, alla parola, alla fraternità. Vi si celebrava il battesimo e l’eucaristia; vi si proclamava la parola di Dio e si trasmetteva la fede; vi si coltivava la carità sia all’interno che nei confronti dei bisognosi. Era insomma una esperienza di “piccola chiesa”, vissuta a misura di “casa-famiglia”. Quando san Gaudenzo è venuto a Rimini, avrà molto probabilmente già trovato qualche piccola comunità o comunque ne avrà certamente aperte altre.

Anche questa strutturazione della comunità cristiana di una città in piccole comunità è un fattore che dobbiamo tenere presente non solo per rivitalizzare il tessuto friabile delle nostre parrocchie, ma anche per recuperare grinta ed entusiasmo nell’evangelizzazione. Senza ammalarci di nostalgia, senza rincorrere sbiadite ‘riproduzioni’ dei tempi che furono, senza cadere in una sorta di ‘strabismo’ storico, con un occhio sul passato e uno sul presente, che finirebbe per farci tradire sia il presente che il passato… l’avvio delle piccole comunità intracomunitarie – nelle forme più varie: comunità di vicinato o di ambiente, di associazione o di movimento – permetteranno alla pastorale integrata di evitare il rischio di ridursi ad una mera operazione aggregativa. E ci consentiranno di imboccare lo svincolo che, con l’aiuto del Signore, ci porterà a percorrere la strada di parrocchie integrate non soltanto tra di loro, a livello interparrocchiale, ma anche a livello intraparrocchiale, al loro interno. Solo così potranno diventare “piccole chiese in uscita missionaria”.

Fratelli e sorelle, la festa di san Gaudenzo ci pianti nella mente e nel cuore questo chiodo fisso: il nostro è tempo di semina, e seminare il Vangelo si deve e si può. Papa Francesco grida forte e ci sgrida: “Usciamo, usciamo a portare a tutti la vita di Gesù Risorto!” (EG 49).

Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2014

+ Francesco Lambiasi