Omelia in occasione degli anniversari di professione religiosa

Umiltà e gratuità

Umiltà e gratuità: due parole oscure e minuscole, eppure maiuscole e luminose, che formano come, l’una, la trama e, l’altra, l’ordito del ‘testo’ o ‘tessuto’ della pagina evangelica, appena proclamata. Umiltà: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto”. Gratuità: “Quando offri un pranzo, non invitare parenti, amici, fratelli, vicini”. Due parole dolci e ardenti, ordinarie e rivoluzionarie.

1. Dunque, primo: umiltà: “Vai a metterti all’ultimo posto, perché chi si esalta sarà umiliato; chi si umilia, sarà esaltato”. Una parola che rovescia classifiche, ribalta primati, capovolge gerarchie. E’ la logica ‘in-logica’ del Vangelo. Tutto il contrario della logica del mondo, con i suoi verbi inflessibili: correre, concorrere, competere, confliggere. Sgomitare per arrivare primi al traguardo. Scatenarsi per salire sul podio del vincitore. Scalmanarsi per strappare la medaglia d’oro della finalissima. E’ la cultura dell’immagine, che rincorre la passerella, insegue l’audience, sogna il successo, agogna l’applauso. Per questa sindrome del ‘primo posto’ è stato coniato un nuovo vocabolo: ‘rampantismo’. Che fa rima baciata con ‘arrivismo’.

Ma perché scegliere l’ultimo posto?  Non certo per una smania compulsiva di rinunce e di privazioni ascetiche o di penose mortificazioni. Non per una questione di accanito masochismo. Nemmeno per un punto di vista semplicemente morale, ma squisitamente evangelico e ‘teologico’. Insomma è in gioco non tanto uno stile di comportamento umano, ma l’immagine stessa di Dio, quale ci è stata rivelata da Gesù. L’ultimo posto va scelto dal discepolo del Vangelo per un motivo esattamente e perfettamente evangelico: perché quello lì è proprio il posto di Gesù, il quale “era come Dio, ma non considerò un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6s). Gesù “non è venuto per farsi servire, ma per servire” (Mc 10,45). E’ vero e puro Vangelo, questo: è la “bella notizia” della perfetta letizia. E’ il messaggio del “Dio capovolto”, che trova la sua gloria nel farsi piccolo per fare grandi noi, suoi figli.

2. Seconda parola vertiginosa: gratuità. Ancora una volta si verifica la legge evangelica del ‘capovolgimento’. Gli ordinamenti fabbricati dall’egoismo e dall’ambizione vengono rovesciati dalla logica del regno di Dio, che è completamente diversa da quella del regno dell’Io.

Ci è chiesto di amare anche quelli che non ci amano. Se no, non facciamo come i pagani?

Ci è chiesto di fare del bene anche a coloro che ci hanno fatto del male. Solo così possiamo rassomigliare al Padre dei cieli, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi (cf. Mt 6,43ss).

Ci è chiesto di rifiutare la ‘partita doppia’ del dare e dell’avere: “tanto ti do, tanto mi devi”.

Ci è chiesto di rinunciare ai verbi del potere: acquistare, conquistare, padroneggiare e… spadroneggiare.

Ci è chiesto di esiliare i verbi malefici, e quindi maledetti, perché fanno del male a tutti: agli altri, ma anche a noi. E sono i verbi dell’orgoglio possessivo e aggressivo: prendere, salire, dominare. Per dare spazio ai verbi, opposti, dell’umiltà e della gratuità: dare, scendere, servire.

Ci è chiesto di imparare a perdere. Sì, per poter amare, occorre imparare a perdere. A perdere la faccia, la ricchezza, la sicurezza. A perdere la salute, la tranquillità, perfino l’equilibrio. Perfino la vita, come ci ha insegnato il nostro Maestro: “chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Mc 8,35)

Ci è chiesto di amare. Amare umilmente, gratuitamente. Amare silenziosamente, disinteressatamente. Senza accendersi i riflettori addosso. Senza farsi pubblicità. Senza mettere la firma personale di proprietà. Senza dirlo neppure a se stessi.

Questo è l’amore evangelico: tenero come il bocciolo di un fiore, tenace come il filo di un cavo d’acciaio.

3. Ora vengo a voi, Sorelle carissime che ricordate l’anniversario della vostra professione. Mi è stato detto che questa giornata si colloca tra l’anniversario della erezione canonica della vostra Congregazione e quello della prima professione di Madre Elisabetta e compagne. C’è da chiederci, con domanda retorica: ci poteva essere una data più significativa per ricordare la vostra consacrazione?

La grazia che ci sentiamo di implorare oggi per voi è quella di “tornare al primo amore” (cf. Apoc 2.4). Più o meno diversi anni fa voi avete sperimentato un amore irresistibile che vi ha incendiato il cuore. Un amore umile e gratuito, quale è e non può non essere l’amore del Vangelo. Vi siete innamorate di Gesù e della sua Chiesa, dei poveri e dei piccoli. Vi siete dimenticate di voi stesse. E quel giorno avete conosciuto l’amore. E avete trovato l’indirizzo della felicità.

In conclusione, un appello e un augurio.

L’appello. Lo prendo a prestito da un brano della Lettera ai Colossesi, al quale mi permetto di cambiare la desinenza dei vari vocaboli, passando dal maschile al femminile:

“Scelte da Dio, sante e amate, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi le une le altre, se qualcuna avesse di che lamentarsi nei riguardi di un’altra. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie! (Col 3,12-16).

L’augurio. Lo formulo con viva, cordiale gratitudine per quello che già siete e che già fate. Che il profumo dell’umiltà e della gratuità, unito all’aroma del crisma della santa carità fraterna e della perfetta letizia si spanda per tutta la vostra casa. Impregni perfino le vostre vesti. Inondi tutta la vostra vita.

Rimini, Casa delle Maestre Pie dell’Addolorata, 27 agosto 2022

+ Francesco Lambiasi