Sperare si può

Omelia del Vescovo per la solennità di San Gaudenzo

Cosa si sarà portato dietro Gaudenzo da Efeso quando venne a Rimini come primo vescovo della città? Poco o niente. Molto probabilmente solo qualche rotolo o alcune pergamene con qualche brano delle sante Scritture. Ma cosa si sarà portato dentro? L’essenziale: una scintilla di vangelo – la buona notizia di Cristo risorto – che avrebbe acceso la fiamma della speranza. Fiamma che sarebbe poi passata di vescovo in vescovo, di generazione in generazione. Fino ad arrivare a noi, chiamati non solo a scaldarci a quel fuoco, ma anche a consegnarlo alle future generazioni…

1. Sperare si può. Perché Dio è l’Abbà, il Padre che non ci vuole orfani. Che non ci fa vivere solo per farci poi morire. Non ci ha creati per aumentare la propria felicità, ma per parteciparla a noi gratuitamente. Pertanto non siamo in balia di un Fato implacabile né di un Caso volubile e inguaribilmente capriccioso. Il Dio di Israele è un Dio fidato, fedele, pienamente affidabile. Non è il Dio della scommessa, ma della promessa. Nell’AT è la promessa di un compimento, e nel Nuovo è il compimento di una promessa, che a sua volta diventa promessa di un ulteriore compimento: in progress all’infinito. E’ il Dio che lancia il suo sogno di farci felici, e lo rilancia continuamente. Anche in tempo di pandemia. Fino a realizzarlo compiutamente. Fino a quando non ci sarà più né lutto né dolore né pianto, ma imperturbabile pace e incontenibile gioia nello Spirito Santo.

2. Sperare si può. Perché il Crocifisso è risorto. No, non è una ingegnosa favola a lieto fine, né un vago mito anestetico. Neppure un sogno labile. Una evanescente utopia. La nostra speranza non poggia sulle nuvole, ma su un fatto roccioso, affatto friabile. Ma, se Cristo è risorto, il dolore non è l’ultima parola della nostra vita, ma solo la penultima. Dopo la morte, c’è la vita. Dopo il venerdì di passione, c’è la domenica di risurrezione. Ma non solo ‘dopo’, perché la risurrezione è già in corso in questa vita. San Paolo ha detto che se sperassimo qualcosa da Cristo soltanto per questa vita, saremmo da compiangere più di tutti gli uomini. Ma saremmo da commiserare anche se sperassimo in lui soltanto per l’altra vita! Se cioè la risurrezione non ci aiutasse fin d’ora, a vivere nella pace e nell’impegno di far vivere il mondo nella pace. Anche in tempo di pandemia.

3. Sperare si può. Perché con la risurrezione di Gesù il tempo è ‘compiuto’, ma non è ‘finito’. Certo, dopo la sua risurrezione, la terra continua a girare come prima. Nel mondo continua, inesorabile, a regnare la morte, e tutto ciò che la prepara: la violenza, la menzogna, la corruzione, l’egoismo. Ma se scendiamo nella profondità del reale, non è più così: c’è un seme che continua a germogliare, a fiorire, a portare frutto. E’ lo Spirito consolatore, di cui il Risorto ci ha assicurato che “rimarrà con noi per sempre” (Gv 14,16). E’ Gesù Risorto che non si è stancato di mantenere la promessa: “Io sono con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E’ una speranza piena di coraggio, di consolazione, di gioia. Di questa speranza ci possiamo perfino vantare anche nelle tribolazioni, sapendo che “la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,3-5). Anche in tempo di pandemia.

4. Sperare si può. Perché la risurrezione ci fa sperare anche nella prova. Sperare nella prova significa rimanere accanto a chi soffre . A dieci anni di distanza, ricordiamo il film Uomini di Dio. Descrive una piccola comunità di monaci trappisti nell’Algeria degli anni Novanta, che devono affrontare una montante marea di violenza. Devono decidere se restare o andarsene. Uno dei monaci dice ai vicini musulmani: “Siamo come uccelli sul ramo, non sappiamo se andarcene o no”. Ma i musulmani rispondono: “Gli uccelli siamo noi, voi siete i rami. Dove andremo noi se i rami se ne vanno?”. I monaci allora decidono di restare, anche a costo della loro vita. Rimanere è un segno della nostra speranza nel Dio che non se ne andrà mai. Noi rimaniamo con i poveri, con le persone che si sentono sole e abbandonate, con le nostre comunità in crisi, con questa nostra santa Chiesa, così poco santa, perché Dio è con noi e rimane sempre con noi. Anche in tempo di pandemia.

5. Sperare si può. Perché possiamo ancora celebrare l’eucaristia, che ci fa ricordare ciò che Gesù fece la notte prima di morire. Il paradosso cristiano è qui particolarmente evidente: ogni domenica la comunità si riunisce per ricordare quando si è dispersa. La memoria che le dà speranza è, apparentemente, quella del momento della disperazione. In effetti Gesù ci ha lasciato qualcosa da compiere in sua memoria. La notte prima della sua morte è stato il momento più buio di tutta la storia umana. Uno dei suoi amici era andato a tradirlo. Il suo caro Pietro, la testa-di-serie, stava per rinnegarlo. Gli altri, pronti tutti a tagliare la corda. Quando tutto sembrava perduto, senza alcun futuro, Gesù compì quel gesto impensato, impensabile: condivise con i suoi il pane spezzato e la coppa di vino. E ci chiese di fare così anche noi. Quando l’unico futuro sembrava essere la croce, Gesù fece quel gesto folle, traboccante d’amore. Ecco la base della nostra speranza. Ogni domenica noi torniamo a quel momento buio e a quell’inaudito dono di futuro.

L’ultima cena sembrava la fine, il pasto d’addio. Fu invece l’inizio, la prima eucaristia. Come questa che stiamo celebrando. Mentre siamo ancora in tempo di pandemia. Mentre ci arde in cuore la speranza che questo crudo tempo di pandemia sia vero tempo di vera speranza.

Rimini, Basilica Cattedrale, 13 ottobre 2020

+ Francesco Lambiasi