Si è offerto in espiazione

Il sacrificio di Cristo come purificazione
Omelia del Vescovo nell’azione liturgica del venerdì santo

Il nostro vocabolario cristiano – biblico, liturgico, ascetico – contiene non poche parole sulle quali si è depositata una spessa patina di equivoci e di dolorose incomprensioni. Sono parole che si trascinano immagini distorte e che pertanto hanno urgente bisogno di una energica ‘raschiatura’ e di una delicata opera di restauro, per comunicare il loro significato genuino e tornare a brillare nel loro originario splendore. Due di queste parole sono quelle classiche, usate – e purtroppo abusate – in passato per veicolare il messaggio del venerdì santo: sacrificio ed espiazione. Con la sua passione e morte – si dice – Gesù ha compiuto un sacrificio di espiazione. Eppure, anche se destano una diffusa allergia e per questo risultano esiliate dal linguaggio corrente, queste parole continuano ad essere tuttora “in corso” nella liturgia odierna.

1. Per quanto riguarda la parola sacrificio, basterà ricordare che, mentre nell’accezione comune questo termine ha assunto un senso negativo in quanto evoca l’immagine di una dolorosa privazione, di per sé è un vocabolo positivo del linguaggio religioso, così come indica la sua etimologia. Infatti sacrificare è un verbo di azione, che significa “rendere sacro”, così come “semplificare” significa “rendere semplice” e “purificare”, “rendere puro”.

         Pieghiamoci ora sull’altra parola: espiazione. Nel linguaggio corrente, anche il verbo “espiare” ha acquisito una accezione negativa, nel senso di “subire una pena”, e poco importa se il reo accetti o meno la sentenza di condanna: se subisce la pena, espia. Invece l’idea biblica di ‘espiare’ è quella di “portare rimedio al male”. Nella prima lettera di Giovanni si legge: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10), ma sarebbe più esatto rendere “vittima di espiazione” con “strumento di perdono”. Ecco, espiazione è da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo e sacrificio “in risarcimento” del dolo e del danno arrecato con il peccato. Gesù non è stato condannato da Dio al posto nostro, anche se ha sofferto al posto nostro e a vantaggio nostro. L’amore del Padre ha fatto del Figlio in croce lo strumento di purificazione dei nostri peccati, il ponte di riconciliazione con noi peccatori.

         La morte del Crocifisso è stata un vero radicale gesto di purificazione: quando nell’Antico Testamento il popolo offriva un sacrificio di riconciliazione, veniva prima asperso con il sangue della vittima per essere purificato dai peccati e riabilitato a rendere culto a Dio. Quindi il sacrificio non agiva su Dio, ma sul peccatore; è Dio che purifica dal peccato, ristabilendo la comunione e la pace con il suo popolo. Il sangue era considerato sede della vita e perciò simbolo divino, atto a produrre qualcosa di sacro e di sovrumano: non è un dono fatto dal popolo a Dio, ma un dono fatto da Dio al popolo. Questo significato veniva espresso dal rito dell’aspersione: la vita di Dio torna a circolare in quella comunità con cui Dio stesso ristabilisce l’alleanza. Certo, nella Bibbia si sviluppa anche il tema dell’ira di Dio, ma la collera di Dio è solo la tristezza del Padre nel constatare il male che i suoi figli si sono fatti con il peccato. Afferma s. Tommaso: “Si dice che Dio si placa non nel senso che egli riprenderebbe di nuovo ad amare, ma nel senso che dall’uomo viene allontanata la causa dell’odio, cioè il peccato”. E’ chiaro quindi che non è stato l’uomo a riconciliarsi con Dio, ma “Dio ha riconciliato a sé il mondo”: non è il peccatore che si propizia Dio offrendogli un rimborso per il peccato commesso, ma è Dio che si rende propizio l’uomo donandogli un sangue nuovo, cioè la sua stessa vita divina.

2. In questo senso, è da rigettare energicamente l’idea del Crocifisso come il capro espiatorio del nostro peccato. Quando nell’antico Israele si celebrava la liturgia del grande giorno dell’espiazione, descritta nel cap. 16 del libro del Levitico, due erano i capri che venivano presentati al sommo sacerdote: uno era il “capro per Azazel” (il capo dei demoni), sul quale il sacerdote imponeva le mani per scaricarvi i peccati del popolo, e che poi veniva mandato a morire nel deserto, il luogo dei demoni. L’altro era il “capro per JHWH” che veniva immolato come vittima sacrificale a Dio. Nel Nuovo Testamento, quando si parla del sacrificio di Cristo, non si fa mai allusione al rito del capro espiatorio, ma sempre e solo all’agnello pasquale (cfr 1Cor 5,7). Cristo non è il parafulmine sul quale un Dio indignato scaricherebbe la sua incontenibile ira. Il sangue dell’agnello non serviva a “placare Dio”, ma a segnare i suoi eletti. Inoltre l’immolazione della vittima non va intesa come punizione che l’uomo ha meritato col peccato e che in qualche modo subisce nella vittima, uccisa al suo posto. L’immolazione è piuttosto oblazione a Dio per esprimere l’offerta di sé; significa che per il peccatore non si dà ritorno a Dio se egli prima non muore a se stesso.

         La croce perciò non è un sacrificio offerto a una divinità vendicativa, quasi Dio vedesse nel proprio Figlio il colpevole del peccato del mondo e il maledetto su cui esercitare il rigore spietato di una inflessibile giustizia. Nella sua carne martoriata, nel suo volto straziato, Cristo è l’immagine plastica del peccato degli uomini: solidale con un mondo incancrenito dal peccato, egli cade vittima dell’epidemia che cura a proprio rischio e pericolo. Si verifica così lo scambio meraviglioso: tra la sua ricchezza e la nostra povertà; tra la sua forza e la nostra debolezza; addirittura tra la sua giustizia e il nostro peccato.

         Morendo in croce, per solidarietà con i peccatori, Gesù condivide la maledizione comminata ai trasgressori della Legge ebraica, perché questa era l’infamia che colpiva chi veniva appeso alla forca. Nella prospettiva della Legge, Gesù, confitto al patibolo, appare maledetto, ma nella prospettiva della fede, egli è l’origine della benedizione di Dio ai credenti. L’amore di Cristo per noi è stato tale da indurlo ad accettare di essere maledetto agli occhi della Legge; in cambio egli ci comunica la benedizione stessa di Dio. Una retta comprensione di questo messaggio farà evitare la lettura in “cortocircuito” della relazione tra il Figlio e il Padre, e susciterà uno scoppio di ammirazione: “Dolce scambio, opera imperscrutabile, benefici insospettati! L’ingiustizia di molti viene riparata da un solo giusto e la giustizia di uno solo rende giusti molti criminali!”.

         La redenzione è stata resa possibile non tanto dal dolore sofferto da Gesù, quanto dal suo amore offerto al Padre per noi peccatori. Gesù ama soffrendo e soffre amando. Il suo sacrificio non è consistito tanto nella morte, ma nella “morte della morte”, attraverso il fuoco dell’amore. E’ la trasfigurazione di una morte da scomunicato in mezzo di comunione; è la trasformazione del suo sangue innocente, criminalmente versato, in sangue di alleanza e di riconciliazione. “L’offesa è cancellata solo dall’amore” (s. Tommaso d’Aquino).

3. Davanti a Gesù crocifisso, oggi noi vogliamo contemplare l’incredibile amore del Padre, che mentre il Figlio patisce, egli ‘con-patisce’. “Come avrebbe potuto il Figlio patire, senza che il Padre compatisse?” (Tertulliano). Non possiamo allora più ripetere la frase che “l’uomo soffre, e Dio no”! A noi che oggi passiamo davanti alla croce, la liturgia ci permette di ascoltare il lamento di Dio Padre: “O tu che passi per la via della croce, fermati almeno un istante e domandati se c’è un dolore simile al dolore di Dio”.

         E noi possiamo rivolgerci al Padre di ogni bontà e di sconfinata misericordia, e dirgli con cuore stupito e commosso: “Quanto ci hai amato, Padre buono, che non ti sei risparmiato il tuo unico Figlio, ma lo hai consegnato per noi empi! Quanto ci hai amato!”.

Rimini, Basilica Cattedrale, 18 aprile 2014

+ Francesco Lambiasi