Santità: il volto bello della Chiesa

La cura per l’immagine evangelica

Omelia per la solennità di s. Gaudenzo

 La santità è il volto bello della Chiesa”. Senza santità “la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo”. “La santificazione è un cammino comunitario”, da fare “a due a due”. Sono tre espressioni ‘francescane, seminate dal Papa in alcuni passaggi della sua esortazione apostolica sulla chiamata alla santità (Rallegratevi ed esultate, nn. 9; 58; 141).

1. Purtroppo nell’opinione pubblica è diffusa una immagine di Chiesa che ne oscura l’autentica identità e ne appanna la specifica missione. Di fronte alle nostre parrocchie – per fare un esempio – di fronte alle loro occupazioni ordinarie e preoccupazioni straordinarie, di fronte alle scelte pastorali, al modo di porsi nel quartiere, di fronte a un raduno di preghiera, alle stesse assemblee liturgiche – la comunità cristiana deve sempre domandarsi: quale immagine di sé offre la nostra comunità a ‘quelli di fuori’ o a chi si avvicina casualmente? Ancora: quale immagine di Chiesa presentiamo ai giovani: quella di un palazzo inaccessibile? di un museo di antiquariato? di un arcipelago di ‘isolotti’? di una galleria di nicchie per pochi intimi? O invece mostriamo l’immagine di una Chiesa che non attende, ma va incontro?

Sono domande che non possiamo schivare. Certo, lo choc dello scandalo o dello sconcerto è previsto dal Vangelo del missionario, ma per scandalizzare e sconcertare evangelicamente. Cosa possibile nella misura in cui la vita della comunità sia davvero evangelica. Visibilmente evangelica. Per curare questa immagine non occorre una operazione cosmetica. Non occorre che la comunità si metta il trucco per accendersi i riflettori addosso. Il primo dovere non è di piacere, ma di essere. Questo non significa che la comunità cristiana, per essere autenticamente evangelica, debba necessariamente incontrare il rifiuto, esporsi alla derisione, sperimentare la persecuzione. Certo non è peccato suscitare anche il consenso, godere stima e guadagnare la simpatia della gente, come avveniva per la comunità cristiana di Gerusalemme (cf At 2,47; ed. port.).

2. Ma quali sono i criteri per misurare il grado di fedeltà di una parrocchia all’immagine evangelica della Chiesa? Il primo è senz’altro l’insostituibile centralità dell’evangelizzazione e il primato del kerygma, il lieto messaggio di Cristo morto e risorto. Domandiamoci: non rischiamo noi, forse, di passare per gente che crede, sì, al massimo nell’esistenza di una divinità generica, distante e distaccata dai tanti affanni e tormenti che ci affliggono, e di non credere invece nel Dio-Trinità d’Amore e nella risurrezione del suo Figlio morto in croce per salvarci? Purtroppo l’annuncio evangelico che risuona oggi nelle nostre comunità non raramente risulta fiacco e sbiadito. E comunque la reazione nostra e di altri ascoltatori al ‘primo annuncio’ non è, forse, lo sbadiglio annoiato per la nauseata sazietà delle cose dette e ridette, sentite e risapute? Occorre rimettere Gesù Cristo al centro. Al centro della vita, della fede, della preghiera, della missione.

Ma non giriamoci intorno: una comunità che non ‘trasmette’ Gesù Cristo, che parla più di sé che del Vangelo, più del Vaticano che della Chiesa, più della Chiesa che della Parola di Dio è una comunità che rischia seriamente l’elettroencefalogramma piatto’.

Un secondo criterio di autenticità è la fraternità evangelica. La comunità cristiana ha come origine e modello Gesù Cristo. Può perciò diventare un laboratorio dove si sperimenta tangibilmente che il suo amore è capace di costruire fraternità. Una fraternità originata, modellata e misurata sull’amore di Cristo. Un amore gratuito e reciproco, che ogni comunità è chiamata a vivere e a mostrare, se vuole essere segno trasparente di novità evangelica. E di un mondo nuovo che la venuta del Cristo ha inaugurato, secondo il vangelo della lavanda dei piedi: “come io ho amato voi” (Gv 13,34s). Logicamente ci aspetteremmo: Come io ho amato voi, così voi amate me. E invece, no: “Amatevi gli uni gli altri”. E’ amandoci tra fratelli e sorelle che si ricambia l’amore del Padre.

Segni e frutti di questo amore gratuito e reciproco sono: l’unanimità: “Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rm 12,16); l’accoglienza reciproca: “Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi” (Rm 15,7); la correzione fraterna: “Correggetevi l’un l’altro” (Rm 15,14); il saluto cordiale:“Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16); il servizio vicendevole: “Siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13). La lista delle ricorrenze si potrebbe allungare a dismisura. Riprendo solo due verbi: “Sopportatevi a vicenda e perdonatevi gli uni gli altri” (Col 3,13). Sono verbi ruvidi. Eppure concreti e tenerissimi. Ma tutt’altro che teneroni.

Ma non giriamoci intorno: una comunità in cui non si alimenta insieme il fuoco della carità fraterna, fa correre ai suoi membri il serio rischio di mordersi e divorarsi a vicenda (cf Gal 5,15).

3. Un terzo criterio è quello della cosiddetta missionarietà. Preferisco parlare di ‘apertura’. Una comunità ripiegata e rannicchiata, devota della “dea lamentela” e sempre occupata a leccarsi le piaghe, è una comunità malata. Anzi a rischio-collasso. Le nostre comunità devono trovare il coraggio di non lasciarsi sommergere dalle proprie emergenze, anche se numerose e assillanti. Oggi la parrocchia non è più la parrocchia di tutti, ma non può rinunciare a diventare la parrocchia per tutti. E’ la costante attenzione a ‘quelli di fuori’ che fa crescere e maturare ‘quelli di dentro’. L’uscire da sé, quasi dimenticandosi, è una forma del ‘perdersi per ritrovarsi’ del Vangelo. Vale non solo per i singoli cristiani, ma anche per tutte le comunità cristiane. E’ una scelta ineludibile. Ma è possibile e praticabile, se usciremo per andare incontro ai poveri e ci lasceremo evangelizzare dai poveri. Penso a tutti i poveri: poveri di pane e di cultura, poveri di salute e di lavoro, poveri di affetto e di speranza. E soprattutto poveri di fede. E’ con i nostri fratelli poveri che potremo dire a quelli che stanno ‘dentro’: “Usciamo”. E a quelli che stanno ‘fuori’: “Entriamo”.

Ma non giriamoci intorno: una comunità che non si apre a ‘quelli di fuori’ è una comunità in cui si rischia di soffocare per troppo caldo dentro, e fuori di morire assiderati per troppo freddo.

Ora permettetemi una ultimissima parola sullo stile che deve caratterizzare la nostra presenza nel mondo. Ce lo ha richiamato Gesù nel vangelo, con le due immagini, trasparenti e stuzzicanti, del sale e della luce. Ci ricordano che la missione deve essere pubblica, ma non pubblicitaria. Concreta, ma non ostentata. Pertanto siamo chiamati a dire un doppio no. No alla reticenza di chi fa opere buone, e mimetizza l’ispirazione evangelica e l’appartenenza cattolica. No anche all’esibizionismo di chi spende la sua appartenenza alla Chiesa non come adesione che genera solidarietà e servizio, ma come merito che produce boria e vanagloria.

Infine lasciatemi rivolgere direttamente al nostro santo patrono. San Gaudenzo, adesso tu non stare a guardare da qualche oblò del Paradiso come andrà a finire la “divina commedia” di questa tua e nostra Chiesa. Andrà a finire benissimo se, come te, anche noi sapremo rispondere alla chiamata alla santità di Gesù, nostro insuperabile Pastore. Ma dai, dacci una mano!

Rimini. Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2018

+ Francesco Lambiasi