Primi solo per servire gli ultimi

Perché serviti da Gesù che si è fatto ultimo

Omelia per l’ordinazione diaconale di Eugenio Savino, Filippo Rosetti e Matteo Gasperoni

Il vangelo non si smentisce mai. E’ e rimane notizia da capogiro. In verità, come ogni altra, è una notizia datata. Eppure dopo duemila anni conserva la freschezza delle news battute da un’agenzia, in tempo reale. Eccolo, allora, il vangelo, la notizia stupefacente e inossidabile: “Il Figlio dell’uomo è venuto a servire, non a farsi servire” (Mc 10,45). Servire: ma come? non era vincere il verbo inscindibilmente legato al soggetto “Figlio dell’uomo”? Sì, vincere, con tutta la corolla dei suoi ruggenti sinonimi: sconfiggere, trionfare, domare, dominare…

1. Servire. E qui continua la litania delle domande a raffica. Ma non è, Dio, il Padrone dell’universo, il re dei re, il Signore dei signori? E, allora, come mai il suo inviato speciale, il Figlio di Dio, sarebbe venuto al mondo per autocandidarsi al nostro servizio?! Sì, Gesù non è venuto per farsi lavare i piedi da noi, ma per abbassarsi a terra – con tanto di brocca, catino e asciugamano – a lavarci i piedi a noi. Quella della croce è la strada contromano imboccata da Gesù. E’ la logica più illogica, umanamente parlando: Cristo non è venuto per tenerci ai suoi piedi, ma per mettersi lui ai piedi nostri. Non è venuto per accomodarsi a tavola e farsi servire, ma per far accomodare noi e darci da mangiare, addirittura per darsi da mangiare a noi. Questo Gesù di Nazaret è proprio un gran sovversivo! Capovolge la rappresentazione tradizionale di Dio, che circolava al suo tempo, nell’immaginario collettivo. Addirittura rovescia la figura di Dio, presentata dal vecchio catechismo. Ricordiamo – almeno noi più anziani – che alla domanda: perché ci ha creati Dio? si doveva rispondere: “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e poi goderlo nell’altra in Paradiso”. No, dice Gesù. O, meglio, sì: la risposta è giusta, ma viene dopo. Prima viene la prima verità: “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19), e ci ha creati per conoscerci, per amarci e servirci in questa vita. E poi nell’altra ci farà sedere a mensa e passerà lui a servirci. Per Gesù “servire” non è verbo a scadenza: è verbo eterno. Cristo, Servo dei servi di Dio, “è lo stesso ieri e oggi e per sempre!” (Eb 13,8). Questa è la bella notizia del vangelo: notizia vertiginosa, mozzafiato. Noi servi, perché serviti prima da lui, il Signore in persona.
Eppure avevamo immaginato Dio come un sovrano, come il primo di tutti i sovrani, il più maestoso e irraggiungibile. L’abbiamo sognato come un imperatore imponente; l’abbiamo disegnato come un faraone, magari più grande, più potente, più importante. Ma con Gesù di Nazaret questa operazione di “ingrandimento” non è più possibile, perché lui effettua l’operazione esattamente uguale e contraria: si rimpicciolisce e ci obbliga a fare i conti con la diversità di Dio. Un Dio capovolto! Non più l’uomo che serve e muore per Dio, ma un Dio che serve e muore per l’uomo. Questo Dio capovolto Gesù non solo lo ha proclamato, ma lo ha incarnato. Lo ha “detto” e lo ha “fatto”, da… Messia capovolto! Scrive san Paolo: “Da ricco che era, si è fatto povero per noi, per farci diventare ricchi con la sua povertà” (cf 2Cor 8,9). E ancora: Cristo Gesù, “pur essendo nella condizione di Dio (…) svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6s).

2. Gesù è in cammino alla volta di Gerusalemme. Ora si trova a una giornata da Gerico. E tra i Dodici si ripete la solita storia, come qualche giorno prima a Cafarnao, quando, dopo il secondo annuncio della passione, “per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande”. Gesù aveva chiuso la discussione con una sentenza fulminante: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc 9,34-35). Ma non era bastato. Ora, dopo il terzo annuncio della passione – il più drammatico – partono all’attacco i due tremendi “figli del tuono” e chiedono, anzi pretendono che Gesù li faccia sedere: Giacomo a destra e Giovanni a sinistra. Quasi a dire: uno ministro degli esteri e l’altro degli interni. E scoppia di nuovo il conflitto tra i due fratelli da una parte e gli altri dieci, che schiumano di rabbia, dall’altra. Allora Gesù va giù netto a stroncare ogni pericolo di concorrenza, deciso a spegnere ogni libidine di potere. Ma non soffoca la voglia di primato, connaturale in ogni figlio o figlia di Eva. Ne cambia però la prospettiva e l’obiettivo: essere primi in classifica, certo, ma non per essere serviti, ma per servire e “dare la propria vita in riscatto per molti“.
Spendere la propria vita per la liberazione dei fratelli: è l’espressione parallela per tradurre il verbo “servire”. Il termine riscatto indicava il prezzo sborsato per liberare un parente ridotto in schiavitù. Il senso è che il Figlio dell’uomo aiuta tutta l’umanità – i “molti”, le moltitudini – a sottrarsi a questo verdetto, pagando lui, di persona, la somma della cauzione. Non è un prezzo sborsato a un dio fiscale né tantomeno al diavolo. Gesù versa il suo sangue, liberamente e gratuitamente come suprema manifestazione dell’amore infinito del Padre. Il Figlio dell’uomo non è un capro espiatorio sul quale una sdegnata divinità scaricherebbe la propria collera implacabile. E’, invece, l’agnello di Dio che prende su di sé e “toglie il peccato del mondo”. E’ il fratello, l’amico generoso che paga il prezzo per chi non può pagarlo, assumendo la conseguenza estrema di tale scelta, cioè la morte. Nella sua persona si incrociano due dimensioni: la pre-esistenza, per essere lui “presso Dio” prima del tempo, e la pro-esistenza, per essere lui totalmente “uomo per gli altri”. Per Gesù servire significa vivere sentendosi responsabile degli altri. Quando un tuo fratello è in difficoltà, di qualsiasi difficoltà si tratti, tu non puoi far finta di nulla: ciò che gli è successo, ti riguarda. Così si deve vivere: come il Servo di Dio che si mette a servizio dei fratelli fino a spendere la sua vita per la loro salvezza.

3. Cari Matteo, Eugenio e Filippo: state per diventare diaconi, e vivrete sempre da diaconi. Anche se due di voi diventerete presbiteri, mentre tu, Matteo, vivrai da sposato. Inesauribile fantasia dello Spirito Santo!
Avrete sempre a disposizione i tre pani: il pane della Parola, il pane dell’Eucaristia, e il pane della Carità. Tre pani per una sola mensa. Andate in missione, e portatevi sempre nella bisaccia questi tre pani benedetti. Non preoccupatevi se per lavare i piedi degli altri, dovrete sporcarvi i vostri. Ci penserà lui e passerà lui a lavarveli. E se lungo il cammino, portare nella bisaccia anche brocca, catino e asciugamano dovesse risultarvi troppo ingombrante e macchinoso, permettetemi di suggerirvi una grazia da chiedere, oggi e ogni giorno del vostro diaconato, al nostro dolcissimo “Diacono dei diaconi”. Non la grazia dei primi posti in classifica; né quella dei riflettori sempre accesi; neanche quella dei battimani irrefrenabili che fanno impennare l’applausometro. Non chiedete la grazia della parrocchia più ambita, o della comunità o settore più gratificante. Quale grazia, allora? Senz’altro voi avrete visto, nei bagni pubblici o in quelli delle hall negli alberghi, dei grandi asciugamani. Ecco, allora, la grazia da chiedere: quella di essere nel ministero diaconale come uno di quei grandi asciugamani, in cui possano pulirsi la faccia il povero, il peccatore, il carcerato, la prostituta, l’immigrato, il malato, il disabile, il depresso. Perché possano ritrovarsela un po’ più pulita. E poi, quando il vostro servizio sarà concluso e il vostro straccio non servirà più a nulla, stop: lo si butti pure via. Rallegratevi, allora, ed esultate: passerà Gesù a raccoglierlo, e ve lo mostrerà, e voi ci vedrete impresso il suo volto.

Ve lo giuro: non ci sarà gioia più grande!

Rimini, Basilica Cattedrale, 18 ottobre 2015

+ Francesco Lambiasi