Prese il pane e rese grazie

Il sacrificio di Cristo come “benedizione”
Omelia tenuta dal Vescovo durante la celebrazione “in coena Domini”

1. Gerusalemme, una sera dei primi di aprile dell’anno 30. Era il primo giorno della grande festa degli Azzimi. Gesù di Nazaret aveva radunato i suoi discepoli nella sala superiore di una casa messagli a disposizione, tutta addobbata a festa per la cena pasquale. Sarebbe stata l’ultima volta che il Maestro sedeva a mensa con il gruppo dei Dodici. Ad un tratto sulla tavola si allungò l’ombra del traditore. Gesù, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Prima volle ostinatamente lavare loro i piedi. Poi, dopo aver consegnato il suo testamento – “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” – raccontano Marco e Matteo, “prese il pane, benedisse, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli…”. Occhio al verbo ‘benedire’: era la preghiera di benedizione (la beraqah) che il capofamiglia recitava sul pane azzimo prima di distribuirlo ai commensali: “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane”, ma in quel pane quella sera Gesù consegnò il suo corpo, offerto in sacrificio per noi.

         Antiochia, anno 40 circa. Da qualche tempo il vangelo è arrivato in questa grande città e per la prima volta nella comunità cristiana sono entrati anche dei pagani di lingua greca. Quando si celebra l’eucaristia, si riprendono i quattro verbi sul pane – prendere, benedire, spezzare, dare – solo che il vocabolo ‘benedire’ viene reso in greco con il verbo eucharistein, che letteralmente significa “rendere grazie”. La liturgia latina, sia nel canone romano che nella III preghiera eucaristica III fonde i due verbi – benedire e rendere grazie – con questi termini: “(Gesù) rese grazie con la preghiera di benedizione”.

         Occhio ora a questa espressione: “rendere grazie con la preghiera di benedizione”. Che cosa significa? Gesù sa bene che è giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. E’ l’ora dell’addio ai discepoli. E’ l’ora della catastrofe. Gesù ha obbedito alla missione che il Padre gli ha affidato. Ma ora questa missione sta per registrare il fallimento totale: la morte in croce. Nell’ultima cena Gesù affronta consapevolmente questa situazione estremamente avversa. Il suo ministero di dedizione a Dio e ai fratelli, esercitato con la generosità più completa, sta per essere brutalmente interrotto da un tradimento: la colpa più odiosa e più contraria al dinamismo di alleanza. Qual è la sua reazione? Quale sarebbe la reazione da aspettarsi in una situazione così ingiusta e drammatica?

2. Una situazione analoga l’aveva già vissuta Geremia: avvisato dal Signore di un complotto tramato contro di lui, Geremia non compie la propria vendetta ricorrendo alla violenza, ma affida la sua vendetta a Dio. Il cuore del giovane profeta di Anatot è colmo di livore e Geremia scaglia invettive implacabili contro i suoi nemici: chiede a Dio di sterminarli, di rendere le loro donne vedove e senza figli: “Ora, Signore degli eserciti, giusto giudice, che scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa” (Ger 11,20).

         La vittoria di Gesù è incomparabilmente più radicale e positiva. Nonostante sia infinitamente più innocente di Geremia e la sua sorte sia drammaticamente peggiore, il cuore di Gesù non conosce la minima traccia di odio, non brama alcuna spietata rivalsa, ma è stracolmo di gratitudine, di tenerissima misericordia e di gratuito perdono. Gesù supera lo sconforto e spinge il suo amore oblativo fino al massimo: al posto della spirale perversa della violenza che produce violenza, Gesù percorre la strada dell’amore. Anticipa la propria morte, rendendola presente nel pane spezzato che trasforma nel suo corpo, nel vino che diventa il suo sangue versato, e così tramuta la propria morte in sacrificio di alleanza per il bene di tutti. Davvero non c’è amore più grande di questo: dare la vita per le persone che si amano. Così l’amore stravince sull’odio e il perdono disarma la vendetta.

         Ritorniamo all’espressione: “rese grazie con la preghiera di benedizione”. E’ come se Gesù dicesse: “Padre buono e santo, Abbà dolce e caro, ti rendo grazie per questo pane, che mi dai in segno della tua bontà, e per questo vino, simbolo del tuo amore, che rallegra il cuore dei miei fratelli. Ti lodo e ti benedico, ti rendo grazie perché per mezzo di questo pane e di questo vino, posso fare dono della mia vita e della mia morte, il dono di tutto me stesso, per comunicare agli uomini la tua vita  e stabilire così la nuova alleanza”. Quindi Gesù prendendo il pane, prende la sua vita tra le mani, la vita che il Padre gli ha donato. Questo significa “prendere rendendo grazie”. Gesù si prende tra le mani, ma non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, non considera la sua natura divina come una preda, non si ripiega morbosamente su di sé, non si chiude in un mutismo amaro e risentito, ma si offre gratuitamente al Padre e si dona generosamente ai fratelli. Adamo invece aveva preso, rubandolo, il frutto della vita, l’aveva mangiato con avidità vorace e con livida invidia, senza riconoscere il dono e senza benedire colui che dona ogni bene. Impadronirsi del dono significa distruggerlo nella sua natura e separarsi dal donatore. Prendere benedicendo, invece, significa ricevere con gratitudine ed entrare in comunione con il donatore. Nella benedizione ogni goccia di vita ritrova la sua sorgente; ogni briciola di realtà rintraccia la sua matrice e ridiventa segno di uno sconfinato amore. Gesù si comporta da Figlio fino alla fine: riceve tutto dal Padre, a cominciare dal suo essere Figlio. Cosa è per Gesù essere Figlio, se non un continuo ricevere tutto dall’amore del Padre? L’amore filiale è necessariamente un amore riconoscente. Gesù si accoglie con gratitudine dal Padre, si lascia dividere, accettando, con umiltà e mitezza, di farsi spezzare come un pane fragrante, e si lascia condividere con i fratelli.

3. Ma vivere l’economia del dono in un mondo inquinato dalla logica del possesso esige il sacrificio di sé. L’amore non corrisposto comporta la morte del donatore, il quale prima che i nemici gli rapiscano la vita, ne fa una consegna libera e generosa. “Il corpo donato (di Gesù), portando su di sé tutta la maledizione del nostro rifiuto, diventa pane spezzato per noi, fonte perenne di ogni benedizione” (S. Fausti).

         Capiamo allora perché noi diciamo – sulla scorta delle Scritture – che la passione di Gesù è stata un sacrificio o che l’eucaristia è un sacrificio. Quando pensiamo a un sacrificio offerto a Dio, noi pensiamo a una rinuncia e a una perdita penosa: ci priviamo di qualcosa per poterla offrire a Dio, pensando così di meritare la sua benevolenza. Ma come ‘purificare’ significa ‘rendere puro’, così ‘sacrificare’ significa ‘rendere sacro’, e non c’è niente di più sacro che l’amore. E’ l’amore, solo l’amore che può rendere sacro anche il dolore, non il ripiegamento autoreferenziale, morboso e ostile, e tantomeno la ricerca masochistica della sofferenza, della croce per la croce. E’ Gesù che dà senso alla croce, non la croce che dà senso a Gesù.

         Il nostro individualismo borghese e narcisista ha dato origine a questo nostro mondo egoista, possessivo e violento, in cui la spinta oblativa nell’orizzonte del dono viene ostinatamente neutralizzata dal mito dell’autorealizzazione, per il quale si vale non per ciò che gratuitamente riceviamo e per ciò che generosamente doniamo, ma solo per quello che riusciamo a realizzare a nostro esclusivo profitto. Ma se io non sono il padre del mio io, se la ‘filialità’ mi sottrae alla presunzione di una illusoria autosufficienza e mi strappa al mito disperante della possessività più rapace, e mi riconsegna alla terra santa della gratuità, allora in ogni occasione – anche nel deserto più arido e riarso – può germogliare il fiore benedetto della gratitudine.

         Allora fare Pasqua significa “offrire se stessi a Dio, come vivi tornati dai morti” (Rm 6,13), e fare eucaristia equivale ad agire come Gesù, il quale “ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). Insomma fare Pasqua e fare eucaristia è vivere come Gesù: come il chicco di grano che dona la vita marcendo.

Rimini, Basilica Cattedrale, 17 aprile 2014

+ Francesco Lambiasi