Perché amo questa Chiesa

Perché è la vigna innestata sulla vera vite, Cristo

Omelia sul vangelo della 27.a Domenica (Anno A) tenuta dal Vescovo in occasione della candidatura agli ordini sacri dei seminaristi Stefano Battarra, Daniele Leoni, Andrea Scognamiglio e  dell’aspirante al diaconato permanente, Mauro Vanni

         Una sola immagine, la vigna, dipinta con le pennellate di tre diversi generi letterari: un cantico, ritagliato dal rotolo del grande Isaia, che abbiamo ascoltato nella 1.a lettura; un salmo, il n. 79, che abbiamo recitato con il versetto responsoriale: “La vigna del Signore è la casa d’Israele”; una storia, la parabola dei vignaioli omicidi, riportata dal vangelo appena proclamato. Lamento ardente di un innamorato deluso e tradito, il celebre canto della vigna del profeta Isaia racconta lo sfogo amaro di Dio nei confronti del popolo eletto, descritto come “la sua piantagione preferita”. L’implacabile collera divina raggiunge l’apice dello sdegno nella strofa finale del canto, che, per riprodurre la sonorità del testo ebraico, si potrebbe rendere così: Dio “si aspettava il diritto / ed ecco il delitto; // attendeva giustizia, / ed ecco invece nequizia”. Nel salmo responsoriale non è più Dio a scagliare l’invettiva contro il popolo, ma è il popolo a indirizzare una supplica angosciata a Dio per l’umiliante degrado della vigna, devastata e ridotta a una landa di ululati solitari: “Dio degli eserciti, ritorna! / Guarda dal cielo e vedi / e visita questa vigna, / proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, / il germoglio che ti sei coltivato”.

 

1. Quando Dio viene colpito al cuore

Nella parabola dei vignaioli omicidi l’evangelista Matteo, come già aveva fatto Marco, ricostruisce il racconto di Gesù sulla falsariga del cantico del profeta. Ma a un certo punto se ne distacca: il compimento della profezia non è mai la sua fotocopia esatta per filo e per segno. Nell’allegoria di Isaia il padrone della vigna si aspettava uva pregiata, e si è ritrovato invece uva scadente. Nella parabola Gesù non fa questione di frutti buoni o cattivi, ma di rifiuto dei diritti del proprietario. I contadini non vogliono riconoscere il padrone come tale: fanno e disfanno come se la vigna fosse di loro proprietà. Ecco il peccato di Israele: non consiste in una generica disobbedienza del popolo al suo Signore, ma in una colpa ben più grave: Israele ha caparbiamente rispedito i portavoce di Dio – i profeti – al loro mittente e, alla fine, ha fatto fuori addirittura il suo inviato speciale, il Messia.

Da una parte sta dunque il tenace amore di Dio per Israele, dall’altra parte sta l’altrettanto ostinato rifiuto da parte di Israele del suo Dio, un rifiuto testardo e accanito che di fronte al figlio ereditario si fa livido, perfido, fino ad arrivare alla spietata violenza estrema: “Uccidiamolo e avremo la sua eredità”. C’è dunque un motivo in più per disfarsi del figlio: è la sua identità di figlio. “Lo gettarono fuori della vigna e lo uccisero”. Il confronto con la versione di Marco ci consente una osservazione di notevole interesse: mentre là si legge che prima lo uccisero e poi lo gettarono fuori della vigna (12,8), qui in Matteo la successione è invertita. Probabilmente non si tratta di un dettaglio fortuito, ma di un ritocco calcolato, intenzionalmente costruito dall’evangelista per offrire ai suoi lettori una trasparente allusione a quanto sta per succedere a Gesù. “Conduci quel bestemmiatore fuori dall’accampamento – si legge nel Levitico (24,14) – e tutta la comunità lo lapiderà”. Venire uccisi dopo essere stati trascinati fuori dall’accampamento o dalla città è la sorte dei bestemmiatori e degli adulteri. Anche il martire Stefano fu trascinato fuori dalla città e poi lapidato. Così pure Gesù, come si legge in un suggestivo passo della Lettera agli Ebrei (13,12): “per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città.

2. Perché amo questa Chiesa

Ritorniamo alla vigna. Nell’immaginario tradizionale questa metafora intensa e altamente espressiva veniva abitualmente collegata alle vocazioni di speciale consacrazione, di quanti come sacerdoti o religiosi e religiose si consideravano chiamati a lavorare appunto “nella vigna del Signore”. Ma Giovanni Paolo II ha esplicitamente ha allargato questa immagine ai cristiani laici, quando ha dedicato loro l’appello di Gesù: “Andate anche voi a lavorare nella mia vigna”. Questa lettura “a banda larga” dell’immagine della vigna mi offre lo spunto per espormi al pungolo di una domanda provocante: perché amo la Chiesa e ci rimango? Nella risposta vorrei intercettare l’onda lunga di papa Benedetto che, recentemente, durante il volo diretto in Germania ha dichiarato ai giornalisti che si può “capire” come, di fronte a crimini quali gli abusi sui minori commessi da sacerdoti, uno dica: “Questa non è la mia Chiesa”. Allo stesso tempo tuttavia “è importante stare nella Chiesa, che è la rete del Signore” e così “imparare a sopportare anche gli scandali e a combattere questi abusi”.

Allora, perché amo la Chiesa? Amo la Chiesa perché Cristo l’ha amata, non perché l’abbia trovata amabile, ma l’ha resa amabile perché l’ha amata. Ha dato se stesso per renderla santa e immacolata, e non perché già lo fosse. Amo questa Chiesa e ci rimango, perché Cristo ci rimane e non se ne separa, al punto da formare con lei un solo corpo, un solo spirito. Amo questa Chiesa e mi auguro di restarci fino all’ultimo istante della mia povera vita, quando spero di morire come umile suo figlio. Amo questa Chiesa e non mi è mai neanche lontanamente passato per la testa di lasciarla, perché so per certo che Dio non ripudierà più la sua vigna e non ci sarà mai un “terzo Israele” dopo il popolo ebraico e quello cristiano.

Amo questa Chiesa e non mi straccio le vesti per la sporcizia che scopro in lei, dal momento che è pure la mia. Amo questa Chiesa e non mi risulta duro sopportarne infedeltà e lentezze, dal momento che anch’essa sopporta me, con i miei insopportabili ritardi e le mie stucchevoli, incresciose stupidaggini. Amo questa Chiesa perché in essa faccio l’esperienza rigenerante di essere perdonato dai miei peccati. Infatti “nulla può rimettere la Chiesa senza Cristo, ma Cristo non vuole rimettere nulla senza la Chiesa” (Isacco della Stella).

Amo questa Chiesa, perché le miserie di ogni ordine e grado che l’hanno afflitta e che l’affliggono anche oggi, se lette in ottica di fede, paradossalmente ne esaltano la credibilità, perché sono come le ombre che dimostrano la presenza del sole. Le tenebre più dense non hanno mai spento la luce della verità che la Chiesa porta in sé. E le umiliazioni più cocenti, procuratele dai suoi avversari o provocate dai suoi stessi peccati, possono provvidenzialmente diventare, grazie all’amore geloso ed esigente del suo Sposo, la via stretta e ripida perché da umiliata la Sposa diventi più umile e più credibile.

Amo questa Chiesa e preferisco navigare il mare della vita sulla sua barca fragile e fuori moda, perché – come ho fatto incidere nel mio stemma episcopale – è il grande pesce, Cristo, che la sorregge, è lo Spirito che gonfia le sue vele, è il Padre che la spinge verso il porto finale, è Maria la stella polare che le traccia la rotta. Sì, preferisco questa umile imbarcazione alle micidiali corazzate da guerra che seminano distruzione e morte. La preferisco pure alle superaccessoriate navi da crociera, che vanno e vanno, ma da dove e verso dove più non sanno.

 

3. A voi candidati al diaconato e al presbiterato

         Ma ora, prima di concludere questi pensieri, debbo onorare un debito contratto con voi, Daniele, Stefano, Andrea, Marco nel momento di accettare il vostro proposito. Voi sapete che il rito di ammissione tra i candidati al diaconato e al presbiterato manifesta pubblicamente l’orientamento vocazionale di coloro che aspirano agli ordini sacri. Mi ispiro pertanto ancora una volta al vangelo della vigna, che interpreto ora “a banda stretta”, per consegnarvi un messaggio, rivolto specificamente a voi, carissimi. E’ un augurio che spero non dimenticherete mai nel proseguire il vostro cammino formativo. Vi auguro di non farvi mai contagiare dalla “sindrome dei padroni” della vigna, ma di prepararvi ad essere legali rappresentanti del suo unico proprietario e Signore, umili grati lieti collaboratori del suo Figlio diletto, fedeli amministratori della porzione di vigna che un giorno a Dio piacendo vi verrà affidata.

Santa Maria del cammino vi guardi, vi custodisca e vi dedichi uno dei suoi più dolci e teneri sorrisi.