Osare la fraternità

Discorso alle Autorità e alla Città

Distinte Autorità, vengo a voi in quest’anno di pandemia con una sola parola: quella di Francesco, il vescovo di Roma: Fratelli tutti.

Fraternità è parola alta e altra, ma esiliata dal sentire comune e dal parlare corrente. Osarla, si deve. Ma si può? Secondo papa Francesco, sì, si deve e si può. Vedi la sua recente enciclica, dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale, dal titolo squillante e coinvolgente: Fratelli tutti. Lo ha preso in prestito da san Francesco d’Assisi, citato in apertura per aver dichiarato beato colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui” (FF 175).

Ma prima di andare avanti nel discorso, devo subito dare spazio a due legittime domande che potrebbero venire da alcuni settori dell’opinione pubblica. “Ma non lo sa il Vescovo che il nostro Paese è laico e multireligioso da lungo tempo? E allora, come si permette di sconfinare dall’ambito che gli è proprio – quello religioso – e di parlare alla nostra Città con tanto di enciclica papale alla mano? Vuole forse propinarci un discorso strettamente confessionale?”.

Una dichiarazione disarmante
A domanda rispondo: il Papa stesso deve aver previsto questa obiezione e fin dalle prime righe si è premurato di sgomberare il terreno da ogni rischio di equivoco con una dichiarazione disarmata e disarmante: “Pur avendo scritto questa enciclica a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo, in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà” (n. 5). E confessa di essersi sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale, in data 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, aveva sottoscritto il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Per ricordare che “Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro”. Per questo l’enciclica è dedicata a tutte le persone di buona volontà.

‘Fraternité’ è parola laica o cristiana?
Forse qui scatta un’altra domanda, ma di segno opposto. “Fraternità – si dice – non è (più) parola cristiana, bensì laica e rivoluzionaria. Perché ora la Chiesa se la (ri)annette indebitamente fino a (ri)‘battezzarla’?”. In verità, più che di appropriazione indebita, probabilmente si dovrebbe parlare di condivisione appropriata. In effetti Liberté – Egalité – Fraternité formano il trionfale trinomio della Rivoluzione Francese. A pensarci bene, ritengo queste tre parole tutt’e tre, insieme, cristiane, laiche e rivoluzionarie. Cristiane, perché vengono dal linguaggio del Nuovo Testamento. Laiche, perché sono parole del comune linguaggio dell’umano. Rivoluzionarie, perché provengono dal linguaggio sovversivo e contestatore della guerra, della disumanità, di una cattiva economia e di una politica boriosa, tracotante e disastrosa.
Purtroppo però il celebre trinomio del tricolore francese è stato usato male. La libertà è stata ‘ristretta’ alla distruttiva (dis)illusione di un individualismo radicale e ripiegato. L’uguaglianza è stata equivocata e male interpretata come un “fare parti uguali tra disuguali, ma questa è somma ingiustizia” (Don L. Milani). Anche la fraternità è stata piegata a una interpretazione distorta. Perché tutti siamo fratelli, e tutti lo dimentichiamo. Ma un po’ di più noi cristiani. Così come le altre fedi religiose, quando hanno tradito il disegno del Creatore, insanguinando la vita e conculcando i diritti delle minoranze.

Non c’è fraternità senza prossimità
La fraternità non è una parola semplice. Perché le fraternità sono molte, e non sono tutte buone o cristiane. Ci sono sempre state persone e comunità che in nome delle loro fraternità hanno scartato e umiliato donne e uomini che non rientravano in quella loro fraternità, e che per denominare alcuni ‘fratelli’ hanno offeso e ucciso i non fratelli. Il grande racconto di Caino ci dice che la fraternità del sangue non garantisce nessuna amicizia, e che il fratello può essere il primo assassino. Altre fraternità non hanno visto né voluto le donne, e le hanno eliminate in nome di una fraternità parziale e sbagliata. Molto raramente i fratelli hanno incluso tutti i fratelli, ancora più raramente tutte le sorelle.

Basta essere consanguinei o vicini per essere fratelli?
In Fratelli tutti papa Francesco ci dice ‘papale-papale’ quale sia la sua fraternità. E ce lo dice scegliendo la parabola del Buon Samaritano come principale e in certo senso unico impianto teologico ed etico del suo discorso. Scegliendo questa parabola ha fatto una forte scelta di campo: partigiana e parziale. Ci ha voluto dire che la sua è fraternità universale centrata sulla vittima.
La parabola del samaritano non parla di fratelli di sangue: c’è una vittima, ci sono due individui separati che passano oltre, e c’è un terzo, il samaritano, che si china e si prende cura di quella vittima. La parabola del Buon Samaritano è essenziale per annunciare oggi una fraternità incentrata sul contrasto tra prossimità e vicinanza. A chinarsi e a soccorrere l’uomo mezzo morto imbattutosi nei briganti non furono i due passanti, oggettivamente i più vicini alla vittima. In effetti il levita ed il sacerdote erano, come la vittima, giudei, e per di più addetti alla cura in quella società, essendo funzionari del tempio. Erano i più vicini, ma non sono diventati prossimi. Per la semplice ragione che non si sono realmente avvicinati. Hanno bypassato la vittima. Sono passati oltre.

Ma cosa c’è oltre?
Oltre il dolore del malcapitato, oltre la carne sanguinante dell’uomo ferito, non c’è lo spirito. C’è il nulla. Quel sacerdote, quel levita, con tutto il loro servizio al santo tempio di Gerusalemme, non incontreranno mai Dio. “Percorri l’uomo e raggiungerai Dio”, scrive s. Agostino. Chi si chinò sulla vittima fu invece il più lontano, da ogni punto di vista: religioso, etnico, geografico. Un Samaritano: uno straniero, un extracomunitario di oggi, vede quel malcapitato, ha compassione e si avvicina, si fa prossimo, e in quel prossimo riconosce suo fratello. Fratelli di sangue si nasce, prossimi e fratelli nello spirito si diventa. Da notare che allo scriba che aveva chiesto al Maestro: “E chi è il mio prossimo”: Gesù risponde con una contro-domanda: “Chi ti sembra si sia fatto prossimo al malcapitato?”. La lezione è folgorante: il tuo prossimo non è chi è prossimo a te, ma colui al quale ti fai prossimo tu.
La fraternità di Francesco, che nasce dalla prossimità del Vangelo, si differenzia e si allontana così da tutte le altre fraternità che la storia ha conosciuto e conosce. Pertanto questi fratelli e sorelle non sono i connazionali. Non sono quelli che fanno parte della mia stessa comunità. Non sono i miei simili. Non è la fraternità dei tanti ‘comunitarismi’ e dei tanti ‘noi-e-gli-altri’ che oggi stanno fortemente occupando la scena dei popoli e della Chiesa. Non è la fraternità dei vicini, è la fraternità dei lontani. Non è la fraternità degli uguali, è la fraternità dei diversi.

Non c’è fraternità senza solidarietà
Una fraternità autentica non si può esprimere solo con alcuni gesti sporadici. Fraternità è pensare e agire in termini di comunità e perciò di bene comune, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di pochi. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà: la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È anche assumere in solido la cura della casa comune che è il pianeta. È guardare sempre in una duplice direzione: quella locale e quella universale. Evitando i due estremi: o quello di perdersi in universalismo ideologico e astratto, o l’altro: chiudersi in un localismo ripiegato e difensivo. Come esprime efficacemente l’incisivo slogan: Think global, act local. “Un’adeguata e autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino“. In alcuni quartieri popolari si intessono rapporti di buon vicinato, partendo dal senso di un ‘noi’ di quartiere, con tratti di gratuità, di solidarietà e reciprocità. Sarebbe auspicabile che tale spirito si potesse vivere anche tra paesi vicini.

Non c’è fraternità senza corresponsabilità
Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna e di ogni anziano, con quell’atteggiamento di prossimità del buon samaritano” (n. 79). Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano: sarebbe infantile. “Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite” (n. 77). La crisi della pandemia ci ha fatto e continua a farci capire che non possiamo salvarci da soli.

Non c’è fraternità senza gratuità
Esiste la gratuità. È la capacità di fare il bene solo perché è bene, ma non perché mi procura dei beni. Né per aspettarmi di ricavarne qualche utile strettamente privato. “Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono paesi che pretendono di accogliere solo gli scienziati” (n. 139). Del fratello o con il fratello non si fa mercato. Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Nessuno di noi ha pagato qualcosa per nascere o per ricevere il dono di un nuovo giorno. La vita non può ridursi a un continuo, affannoso commercio. Come non ricordare la “società del gratuito” di don Oreste Benzi?!

Non c’è fraternità senza misericordia
Caino, il fratello fratricida, non poteva essere ucciso a sua volta, pena il venire vendicato ben 7 volte. Un suo discendente, Lamech, aveva innalzato il suo diritto alla vendetta per 77 volte. Pietro aveva chiesto a Gesù se doveva perdonare fino a 7 volte, ma Gesù gli dice di perdonare fino a 70 volte 7. È vero. A volte il conflitto è inevitabile. Ma ci sono tre modi per affrontarlo. Quello di minimizzarlo o quello di esasperarlo: ma sono strade contromano, tutt’e due. Quando la catena si spezza, l’unico modo è quello di farne un anello di ricongiunzione per favorire la riconciliazione tra le parti in conflitto. È chiaro però che “non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Amare un oppressore non significa consentirgli di continuare ad essere tale” (n. 241). In ogni caso mai si deve dimenticare. La Shoah non va dimenticata, come non vanno dimenticati i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Perdonare non è dimenticare. Non è negare, relativizzare, dissimulare. D’accordo. Ma altro è non dimenticare il messaggio di don Oreste: “L’uomo non è il suo errore”.

La politica di cui c’è bisogno

È una politica che non si sottomette alla ‘dittatura’ dell’economia né si assoggetta al paradigma efficientista della tecnocrazia.

È una politica capace di riformare le istituzioni, di coordinarle e dotarle di buone pratiche. È efficace nei processi, tenace negli interventi, audace negli obiettivi.

È una politica che pensa a quelli che verranno, perché la terra è un prestito che ogni generazione riceve da quella precedente e deve trasmettere alla generazione successiva.

È una politica che mira al bene comune, e pertanto dice no sia a populismi che a liberismi di vario genere, poiché minano la nozione stessa di ‘democrazia’.

È una politica che promuove il bene del popolo, garantendo ad ogni persona il lavoro, come dimensione irrinunciabile della dignità personale e della vita sociale.

È una politica che punta a raggiungere un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità che è al cuore di ogni vita sociale sana e aperta.

È una politica che coltiva un amore preferenziale per gli ultimi e si impegna favorire la loro integrazione nella società, alla luce dei principi di sussidiarietà e di solidarietà.

È una politica più capace di avviare processi fecondi, che non accanita nell’inseguire risultati spettacolari, con strategie di potere e tattiche di maquillage mediatico.

È una politica che promuove una cultura di pace, bandisce con ogni mezzo la guerra, e si propone come obiettivo finale l’eliminazione totale delle armi nucleari.

È una politica sensibile all’urgenza di trovare una soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani fondamentali.

Che Dio ci tenga le mani sulla testa e noi teniamo la testa sotto le sue mani.

Rimini, Solennità di san Gaudenzo, Vescovado, 13 ottobre 2020

+ Francesco Lambiasi