Noi, pastori in solido Non come padroni, ma come modelli del gregge

Omelia tenuta nel corso della celebrazione eucaristica nella festa di s. Gaudenzo

Non l’attivismo, ma la fraternità: ecco il dono numero uno che i presbiteri devono fare alla Chiesa e al mondo. Ogni sacerdote ha nel suo DNA di essere segno e servo della comunione. Ma la comunione si può servire solo in… comune! Come sacerdoti ordinati, “tutti là siamo nati”, in quel momento incancellabile in cui, dopo il vescovo, tutti i concelebranti impongono le mani sul nuovo ordinato “in ragione dello stesso Spirito comune” (Ippolito, Trad. Ap.). Il dono dello Spirito non può essere considerato come un “possesso individuale”, come un monopolio esclusivo, gelosamente riservato al singolo presbitero (EV 7/1338).

1. Come sappiamo, è l’eucaristia che fonda la comunione. S. Ignazio di Antiochia scrive una sorta di “raccomandata”, che è indirizzata anche a noi:

“Cercate di celebrare un’unica eucaristia, poiché non vi è che una sola carne di nostro Signore Gesù Cristo, e un solo calice per unirci al suo sangue; non vi è che un solo altare e un solo vescovo che sia in rapporto con il presbiterio e i diaconi” (Fil 4).

Il fatto che sia l’eucaristia a fondare e a far crescere la Chiesa, rivela che la comunione non è una realtà da inventare o da produrre, ma da accogliere: è una realtà già data. Non è né il credente né il presbitero che la creano. Essi la incontrano.

Dedicare l’anno sacerdotale al tema della comunione non è pertanto un abbinamento forzato o convenzionale, escogitato artificiosamente per tenere stretti due temi disparati e distanti. Infatti comunione e sacerdozio sono come i due fuochi di una ellissi o come i due archi di una stessa volta: o stanno insieme o insieme cadono.

Oggi, festa di s. Gaudenzo, primo pastore della nostra Diocesi, vogliamo contemplare Cristo, il pastore bello, buono e vero, ricordando quel tipico servizio pastorale che è il radunare il gregge e il tenerlo unito. Questa è la promessa che Dio, pastore di Israele, fa per bocca del profeta Ezechiele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Così dice il Signore Dio: Io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine” (Ez 34,13). La promessa comincia a compiersi con il ritorno degli esuli da Babilonia: “Come un pastore egli (Dio) fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11). Ma è nel vangelo secondo Giovanni che la promessa del Signore raggiunge il massimo del compimento. A differenza del lupo che divide il gregge e lo disperde, a differenza del mercenario che abbandona le pecore e fugge, Gesù – il pastore bello, buono e vero – oltre a proteggere, guidare e nutrire le sue pecorelle, dà la vita per loro, le raduna nell’ovile, le tiene unite, e così alla fine si farà “un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16).

2. Il messaggio che se ne ricava è che non si può essere presbiteri ed esercitare il ministero da soli. Il sacerdote non è un battitore libero, un libero professionista, un accanito lavoratore in proprio, un ciclopico esploratore solitario. Sia l’isolamento che il protagonismo sono due “influenze” ad alto rischio, da cui ogni presbitero deve premurosamente vaccinarsi. E invece l’invito alla collaborazione concorde e corresponsabile rischia talvolta di venire letto come una inutile complicazione; la raccomandazione di puntare a una “pastorale integrata”, come una frustrante perdita di tempo; i ministeri laicali, come indebita invasione di campo, e il prezioso servizio di coordinamento, come impaccio soffocante e crudele mortificazione della propria personale creatività.

In questo “anno sacerdotale”, dedicato nella nostra Diocesi all’impegnativo tema della comunione, noi pastori siamo chiamati a rimetterci in ascolto del mandato esaltante ed esigente, consegnatoci dal “Pastore grande delle pecore”: “… e di Me sarete testimoni”. Noi saremo tangibilmente testimoni di Lui, se saremo messaggeri credibili e persuasivi della comunione con Lui e tra di noi, secondo quanto afferma s. Agostino, l’insuperabile cantore della comunione: “Tutti i buoni pastori si identificano con la persona di uno solo, sono una sola cosa (in uno sunt, unum sunt)” (Disc. 46). La conseguenza inesorabile di questo dato teologico la possiamo esprimere con una domanda retorica: come faremmo noi pastori a partecipare affettivamente ed effettivamente all’amore di Gesù per il suo gregge, se prima ancora ognuno di noi non avesse amore per gli altri pastori? Lo sperimentiamo continuamente: possiamo contribuire a fare di “mille voci, un solo coro”, se innanzitutto ci sintonizziamo ogni volta con il diapason del maestro di coro, il Capo dei pastori rappresentato dal vescovo; e poi se di continuo accordiamo all’unisono le nostre voci per fare da base musicale alla sinfonia dell’unico coro, formato dalla grande famiglia diocesana.

Ma ora la domanda non è più retorica: è oggettivamente drammatica. Ce la faremo? Ce la faremo a far percepire il nostro cantus firmus alle nostre comunità, ai poveri, ai sofferenti, ai giovani che non riusciamo più ad incontrare, ai tanti cercatori di Dio, fino a raggiungere i fratelli che ci dovrebbero essere i più cari e sono coloro che non credono? Stiamo sereni: questo risultato è a portata di mano, ma ad una condizione: se riusciremo a superare la tentazione più insidiosa e aggressiva. Non credo sia la tentazione della pigrizia, del disimpegno, della indifferenza, e neppure dell’avarizia o della cupidigia, anche se su questi fronti, come in altri che restano sempre aperti, non possiamo mai ritenerci inattaccabili e confermati in grazia. Vedo infatti in giro, tra le nostre file, per lo più segni palpabili di dedizione generosa e di provato spirito di sacrificio, e ne ringrazio continuamente il Signore e tutti voi.

Io penso che la prima, vera tentazione per noi sacerdoti sia piuttosto quella dello scoraggiamento, a causa della sproporzione tra il molto lavoro nella vigna e il raccolto sempre troppo gramo. E’ anche la tentazione dell’amarezza dovuta alla indifferenza dei “molti”, per cui pure continuiamo a spendere generosamente la vita. Questa mi sembra la prima, nostra tentazione: ha il nome dolente del peccato originale: è la curvitas, l’incurvamento, il ripiegamento morboso che ci rende scuri in volto, tristi nel cuore. Sì, è la tristezza la nostra tentazione più subdola e infida.

Gli anticorpi contro il morbo letale dell’isolamento si chiamano condivisione e reciprocità. Quante volte nel NT risuonano raccomandazioni del tipo: “Perdonatevi gli uni gli altri, Correggetevi gli uni gli altri, Portate gli uni i pesi degli altri, Consolatevi a vicenda, Piangete con chi piange e gioite con chi gioisce…”. Queste esortazioni, prima di “girarle” alle pecorelle affidateci, dobbiamo continuamente riproporle a noi stessi per viverle innanzitutto nella trama delle relazioni reciproche tra noi pastori.


Cari, carissimi fratelli nel sacerdozio, rileggendo la prima biografia del nostro patrono, il santo Curato d’Ars, mi sono imbattuto in questo passaggio dove viene sbalzato un tratto inconfondibile del suo profilo interiore: “Si poteva spremerne il cuore come una spugna, e non ne sarebbe uscita una stilla di amarezza”. Noi conosciamo il segreto di quel buon umore, di tanta serenità e inalterabile fiducia che hanno permesso al santo Curato di esercitare un instancabile ministero di riconciliazione, di incoraggiamento e consolazione. Il segreto era la gioia che erompe dal sussurro anche di una sola delle parole dello Sposo divino. Questa gioia inondava il suo cuore e tracimava nel cuore dei suoi fedeli.

Cari, carissimi fedeli laici, carissime sorelle e fratelli religiosi, in questa omelia mi sono rivolto prevalentemente ai confratelli sacerdoti. A voi tutti chiedo due doni: il dono di una “traduzione simultanea” di questo messaggio nel vostro tipico linguaggio laicale e della vita consacrata. E chiedo pure il dono prezioso della vostra preghiera. Pregate con noi e per noi pastori perché, per intercessione di s. Gaudenzo e di s. Giovanni Maria Vianney, otteniamo da Cristo buon pastore di vedere crescere e irradiarsi sempre di più dal nostro presbiterio il dono contagioso della gioia riservata ai pastori buoni e fedeli. E preghiamo insieme perché la gioia della comunione fraterna cresca di giorno in giorno: oggi più di ieri, domani più di oggi.

Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2009

+ Francesco Lambiasi