Misericordia Io voglio

“Voglio l’amore, non i sacrifici”

Omelia del Vescovo nella festa della Presentazione del Signore

Giorno dopo giorno, festa dopo festa, continua a scorrere il Giubileo straordinario della Misericordia, avviato da papa Francesco l’8 dicembre scorso e aperto da noi la domenica seguente, proprio qui in cattedrale. Il tema della misericordia fa da grandangolo alla festa odierna della Presentazione del Signore. E’ una festa, che, senza forzature, si può a ragione denominare come festa di Gesù “sommo sacerdote misericordioso e degno di fede”, secondo il passo della Lettera agli Ebrei (2,14-18), proclamato poco fa come prima lettura. Dal brano evangelico che è stato ritagliato dal primo dei due volumi di san Luca, selezioniamo un’altra parola: “sacrificio“. Ricorre a proposito di Maria e Giuseppe che si recano al tempio di Gerusalemme “per offrire in sacrificio una coppia di tortore” – era l’offerta dei poveri – secondo la Legge del Signore. Queste due parole, misericordia e sacrificio, ricorrono abbinate ma in netta contrapposizione nel vangelo di Matteo per ben due volte – cosa rarissima in un vangelo! – secondo la formula: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (cfr Mt 9,13 = 12,7).

1. Quest’ultima espressione mi accende una scintilla per tracciare una riflessione, che mi piacerebbe risultasse solida e agile, ma non pesante né banale. L’espressione appena citata deriva pari pari dal rotolo del profeta Osea (6,6), dal quale viene così formulata: “Voglio l’amore e non il sacrificio”. Ma ora siamo invitati a fare una scoperta illuminante. Nel profeta il detto va compreso come pronunciato da Dio, il quale si rivolge ad Israele ed è come se dicesse: “Io da voi mi aspetto amore e non sacrifici rituali e olocausti di animali”. Nel vangelo di Matteo, invece, il detto ricorre in bocca a Gesù e si riferisce a Dio. Quindi è come se Dio, per bocca di Gesù, dicesse: “Io voglio usarvi misericordia, non voglio il sacrificio, cioè non voglio sacrificarvi”. In fondo è lo stesso oracolo veicolato dai profeti, unanimi e severi su questo punto. Come si legge nel profeta Ezechiele (33,11): “Non voglio la morte del peccatore – dice il Signore – ma che si converta e viva”. In sintesi Dio non vuole sacrificare le sue creature; le vuole salvare. La giustizia di Dio non è come quella dei tribunali umani: è trasfigurata dalla misericordia, e porterà il Figlio di Dio a sacrificarsi per noi sulla croce. Con Gesù finisce la religione intesa come sacrificio dell’uomo a Dio, e comincia la rivelazione del sacrificio di Dio per l’uomo.

Ecco il Dio a cui vi siete consacrati, Fratelli e Sorelle: ha il volto e il cuore di Gesù di Nazaret, il “sommo sacerdote misericordioso”. La sua è una misericordia divina – non benché o malgrado sia anche umana – ma proprio perché, umana, lo è pienamente, irreversibilmente. Ma va pure detto che la misericordia di Cristo non è una sorta di brivido a pelle; è piuttosto una intima e solidale condivisione della miserabile sorte di noi suoi simili, che “non si vergogna di chiamare fratelli” (Eb 2,11). L’autore della Lettera agli Ebrei ci vuole dire che per poter con-patire“, Cristo ha dovuto imparare a patire-con noi e a patire-per noi e per tutti. Per Gesù la con-passione non è un’autoimposizione masochistica né una scelta triste e afflittiva. Cristo non può non compatire perché è stato provato in tutto come noi: “tutta la sua vita fu croce e martirio”, ma ha vissuto sempre e in tutto l’amore spinto all’estremo, fino alla morte. E “mediante la morte ha potuto liberare quelli che per paura della morte vivevano sempre come schiavi” (Eb 2,14s).

2. Dio aveva già rivelato la sua misericordia nell’AT, ma nessuno poteva immaginare fin dove potesse spingersi questa divina, umanissima misericordia. Anzi l’opposizione di Dio al peccato aveva conosciuto pagine di inaudita, spietata violenza. Nel libro dell’Esodo si narra che il popolo si era lasciato andare all’idolatria del vitello d’oro. Sceso dal Sinai, Mosè chiama a sé i Leviti e ordina loro: “Dice il Signore, il Dio d’Israele: ciascuno di voi tenga la spada al fianco; passate, ripassate nell’accampamento da una parte all’altra, uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente”. I Leviti eseguono un ordine tanto crudele, e uccidono circa 3mila persone. Allora Mosè dichiara loro che così hanno ottenuto il sacerdozio: “Avete ricevuto oggi la consacrazione sacerdotale per il Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio, contro suo fratello, perché oggi Dio vi accordasse una benedizione” (Es 32,29). Non così Cristo è stato reso sommo sacerdote: non denunciando il peccato e punendo i peccatori, ma accogliendo i peccatori e perdonando il peccato. Ecco la missione che ci viene affidata: propagare la bella, buona, lieta notizia. Questa: abbiamo un sommo sacerdote capace di compatire le nostre debolezze, desideroso fino allo spasimo di aiutarci, perdonarci e di salvarci.

3. Care Sorelle, cari Fratelli, voi non siete stati chiamati perché convertiti, ma vi siete convertiti perché chiamati, e siete stati chiamati perché amati, perché il Signore Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori (Mt 9,13). I cristiani non vivono della propria giustizia, ma della misericordia di Dio Padre: poiché “misericordiati” – direbbe papa Francesco – diventano misericordiosi. Ricevono e donano misericordia gli uni verso gli altri (Ef 4,32).

A questo punto possiamo prendere di petto una domanda inevitabile: dobbiamo allora considerare inutile o addirittura antievangelico ogni sacrificio e mortificazione? Dobbiamo rigettare tutto l’armamentario dell’ascesi cristiana per conservare solo la sua anima mistica? No, non dobbiamo buttare l’acqua sporca con tutto il bambino. Certo, con Dio non si fa mercato. Dio non è un bancomat! Non possiamo fare sacrifici e penitenze per comprarci il suo amore e conquistarci i suoi favori. Ma neanche dobbiamo considerare tutta l’ascetica cristiana, come residuo di una mentalità doloristica o giansenista. Allora quali sono i sacrifici graditi a Dio? Un giorno, da rettore di seminario, invitai Don Oreste a parlare ai miei seminaristi del rapporto tra amore e sacrificio. Per rispondere, il Don partì proprio dall’etimologia della parola sacrificio, e spiegò che deriva da due radici latine: sacrum facere – “fare una cosa sacra” – e concluse che solo l’amore può fare del dolore una cosa sacra. Questa risposta si potrebbe rendere con una immagine: l’amore sta al dolore come l’incenso sta ad un braciere ardente. Quando si butta una manciata di incenso su delle braci infuocate, si vedono delle ampie volute di fumo salire in alto e si respira un gradevole profumo: è un sacrificio “di soave odore”. Ecco in che senso la croce è stata un “sacrificio” gradito a Dio e perché Gesù è stato costituito sommo sacerdote misericordioso: perché ha offerto al Padre il suo appassionato dolore profumato di un amore ancora più intenso e appassionato. Ha trasformato una violenza totalmente ingiustificata in una dedizione totalmente incondizionata.

Come si può diventare allora dei consacrati veramente misericordiosi? Fratello, Sorella, “Amore io voglio – ti ripete il Signore – Voglio darti amore e avere amore da te”. Dunque, amerai: è un indicativo e un imperativo. Amerai, e allora spargerai sul braciere del tuo patire l’incenso della preghiera e dell’adorazione… Amerai, e al tuo agire, al tuo frenetico correre e accorrere, riuscirai a garantire sempre l’oltre dell’amore, altrimenti la vita consacrata si ridurrebbe ad una religione delle buone azioni… Amerai, e quindi rinnoverai ogni giorno la scelta di seguire Cristo in una sequela radicale con lo stesso ardore del giorno della professione religiosa, e questa sarà la tua presentazione al tempio, il quotidiano “offertorio” della tua vita… Amerai, e non lascerai che nel tuo cuore si formi la ruggine del rimpianto per l’avanzamento dell’età, l’assottigliamento delle vostre file, la carestia di nuove vocazioni… Amerai, e con i fratelli e le sorelle saprete stimarvi, sopportarvi e perdonarvi a vicenda, e non vi metterete mai di traverso sulla strada che porta al rinnovamento del vostro istituto, favorendo invece il ricambio generazionale, facendo un passo indietro quando il Signore fa capire che è il caso di fare posto ad altri… Amerete, e l’unica competizione consentita nella vostra comunità sarà quella di sgomitare per andare a occupare l’ultimo posto…

Sorelle, Fratelli, cosa resterà allora di questo anno dedicato alla vita consacrata? Le celebrazioni passeranno, i festeggiamenti svaniranno, le commemorazioni si dimenticheranno. Ma l’amore – quello sconfinato e colmo di misericordia che il Signore vuole darvi, e l’amore povero ma ricco di ardore e di tenerezza che da voi vuole avere – l’amore resterà. Rallegratevi: l’amore del Signore per voi resterà, ma resterà anche il vostro amore per lui, tra di voi, per i poveri. Sì, anche il vostro amore umile, fragile, tenero e tenace, audace e delicato – rallegratevi e piangete di gioia! – anche il vostro amore resterà…

Rimini, Basilica Cattedrale, 2 febbraio 2016

 + Francesco Lambiasi