L’Eucaristia fa la Chiesa. E la Chiesa fa l’Eucaristia

Meditazione del Vescovo in occasione dei quaresimali 2014

Non è né un gioco di parole né un circolo vizioso e nemmeno un lambiccato calembour, un ingarbugliato bisticcio teologico. Il rinomato e spesso ripetuto aforisma coniato dal teologo Henri de Lubac (+1991) e testualmente riportato nel titolo, enuncia una verità limpida, preziosa, irrinunciabile. In negativo, dice che non c’è Eucaristia senza Chiesa e non c’è Chiesa senza Eucaristia. In positivo, afferma che l’Eucaristia rivela, edifica e plasma la Chiesa, mentre la Chiesa celebra, attualizza e vive l’Eucaristia. Facendo l’Eucaristia, la Chiesa realizza se stessa. L’Eucaristia rende la Chiesa eucaristica; la Chiesa rende l’Eucaristia ecclesiale. Proviamo ad argomentare l’enunciato del compianto teologo-cardinale, cominciando dal secondo membro.

1. La Chiesa fa l’Eucaristia

         Il Messale precedente – quello di s. Pio V – iniziava con questa rubrica: “Quando il sacerdote, dopo aver indossato i paramenti, si avvia all’altare…”. L’attuale Messale si esprime invece in questi termini: “Quando il popolo è radunato, mentre il sacerdote fa il suo ingresso con il diacono e i ministri, si inizia il canto d’ingresso…”. Si mette subito in evidenza che la celebrazione eucaristica è azione di tutta la comunità cristiana, resa presente dall’assemblea celebrante. Il vero soggetto della liturgia è la Chiesa costituita da Cristo capo e dal suo corpo, la santa assemblea dei battezzati. La liturgia è opera divino-umana, è culmine e fonte della vita della Chiesa; perciò richiede la partecipazione piena, consapevole e attiva del popolo che celebra e prega.

         Secondo il Nuovo Testamento tutta l’ecclesia, quale popolo redento da Cristo, celebra la cena del Signore. Gli stessi racconti dell’istituzione riflettono alle spalle le prime due comunità cristiane: Matteo e Marco riportano la tradizione della Chiesa di Gerusalemme, mentre Paolo e Luca rimandano alla tradizione della Chiesa di Antiochia. Senza nulla togliere alla tesi che gli apostoli nell’ultima cena furono ordinati sacerdoti, essi in quella circostanza costituivano una comunità conviviale radunata da Cristo e rappresentavano il primo nucleo ecclesiale, e a loro, come a tutte le assemblee eucaristiche e all’intera ecclesia, Cristo affidava il suo dono o il suo gesto simbolico da ripetere in sua memoria. La testimonianza dell’Eucaristia celebrata nella comunità di Corinto non è tanto quella di un ministro – l’apostolo – che fa l’eucaristia associando a sé l’assemblea, ma piuttosto quella di una ecclesia quale corpo di Cristo che fa l’Eucaristia. Anzi l’azione eucaristica ha per soggetto Cristo stesso, percepito come presente e vivente: è lui che presiede ogni cena celebrata in sua memoria. Il ministero non è certamente escluso, perché come dice Paolo, Cristo ha stabilito nella Chiesa per primi gli apostoli (1Cor 12,28), ma i ministeri nel Nuovo Testamento sono visti più in rapporto con la comunità ecclesiale che in rapporto con l’Eucaristia. Si ha una presidenza nel segno della successione apostolica nell’assemblea eucaristica – segno di Cristo – perché si ha una presidenza o una guida nelle singole Chiese locali. Insomma l’apostolo o il suo successore presiede l’eucaristia, in quanto prima di tutto presiede la Chiesa, e non viceversa. Pertanto è l’intera ecclesia riunita che celebra. Questa idea dell’ecclesia soggetto celebrante, in una prospettiva fortemente unitaria e globale, è vivissima nella coscienza della Chiesa antica: basti ricordare le testimonianze patristiche, da Giustino ad Agostino. Basti pensare anche alle testimonianze liturgiche, come la nota frase del canone romano: “di tutti presenti i quali ti offrono“, cambiata – ma solo a partire dal secolo IX – in “per i quali noi ti offriamo“. Si tenga anche presente che in quasi tutto il primo millennio si registra una vasta e variegata ministerialità diffusa: si veda il ministero del lettore, considerato assai prezioso a fronte di un analfabetismo diffuso, o il ministero del catechista nelle scuole catecumenali del III secolo, o i diaconi e le ‘diaconesse’ nella carità, giù giù fino ai ‘fossori’ che preparavano le sepolture. Sarà l’epoca carolingia a provocare una concentrazione gerarchica, riservando il ministero a vescovi e preti dotati di potere sacro. Nasce una nuova prospettiva ecclesiologica che pone l’accento sulla potestas dei ministri ordinati sull’Eucaristia e, in particolare, una potestas del ‘capo’ rispetto al ‘corpo’. La reazione della Controriforma alla Riforma protestante contribuirà a concentrare l’attenzione sul sacerdozio gerarchico, visto come la parte più eccellente e spesso isolata della Chiesa, e condurrà all’interpretazione metaforica del sacerdozio dei fedeli. Il sacerdote è colui che ‘dice’ la messa, e i fedeli vi ‘assistono’.

         Ora sarebbe di estremo interesse ripercorrere il breve, ma intenso cammino dai primi documenti del concilio ai più recenti libri liturgici per constatare il totale ed esaltante ricupero dell’assemblea quale popolo sacerdotale e soggetto celebrante dell’intera azione eucaristica, e del sacerdote quale presidente dell’assemblea con finalità dichiaratamente pastorale. Limitiamoci, per ovvie ragioni, a qualche esemplificazione. Nella Sacrosantum concilium: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa: la manifestano e la implicano; i singoli membri vi sono interessati , in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e dell’attuale partecipazione” (n. 26); “Ogni volta che i riti comportano (…) una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi” (n. 27); “Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere soltanto quello (…) che a lui spetta” (n. 28); “Le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti” (n. 33)

         Riassumendo possiamo dire che il senso attuale dell’espressione – “la Chiesa fa l’Eucaristia” – è quello espresso dal magistero e in particolare dal Catechismo della Chiesa cattolica: “E’ tutta la comunità, il corpo di Cristo unito al suo Capo, che celebra (tota communitas (…) celebrat” (CCC 1140); cf anche 1141), anzi “tutta l’assemblea è ‘liturga’ (tota congregatio ‘liturgus’ est” (CCC 1144). Tuttavia nell’assemblea ciascuno ha “la propria funzione” (CCC 1144). E in essa il presbitero è espressione sacramentale di Cristo capo “come ‘icona’ di Cristo sacerdote” (CCC 1142 e i ricordati nn. 1548-9). Come interpretare tale “iconicità” del presbitero? Nel senso che lui solo e non altri pone i gesti di Cristo: “Prese il pane. Rese grazie, lo spezzò, lo diede”, con quanto tali gesti presuppongono di rimando al “mistero”. E’ per esprimere questo che si deve oggi usare l’espressione in persona Christi riservandola a chi è icona di Cristo Capo e presidente dell’assemblea, cioè il vescovo in primo luogo e poi il presbitero. In questo senso l’assemblea non celebra in persona Christi.

         Di partecipazione dei credenti alla liturgia si era parlato già prima del Vaticano II, anche in documenti del magistero ecclesiastico: intendendola, per lo più, in termini di partecipazione “interiore/spirituale” e, per così dire, “occasionata” dal rito, più che mediata da esso. Con il Concilio, efficacemente preparato dal movimento liturgico, la preoccupazione per la “partecipazione attiva” assume una fisionomia nuova, perché viene strettamente legata ai “riti e preghiere”, ossia alla celebrazione liturgica in quanto tale. E’ celebrando che si partecipa o, in altre parole, la partecipazione – che certo non può essere ridotta a mero attivismo – non può prescindere dall’azione liturgica nella quale tutto il popolo di Dio viene coinvolto in varie forme e secondo diversi ministeri. Ricondurre la partecipazione, come ancora da qualche parte si vorrebbe, a un puro atto di ‘interiorità’, non corrisponde all’intento dei padri conciliari, intento che fonda poi anche la riforma liturgica avviata dal Concilio stesso.

2. Non c’è Eucaristia senza Chiesa

         Come non è possibile una Chiesa senza Eucaristia, così non è possibile una Eucaristia senza Chiesa. Non basta mangiare il corpo di Cristo: bisogna diventare il corpo di Cristo che è la Chiesa. E’ necessario lasciarsi plasmare dalle leggi di comunione che l’Eucaristia fonda ed esige. “Eucaristie parallele”, disarticolate dall’intera comunità ecclesiale che crede e confessa il suo Signore, non rientrano nella logica ecclesiale, specialmente nel giorno del Signore: si perde il senso del popolo di Dio, si strumentalizza la liturgia per gratificare i propri progetti, si settorializza la propria esperienza prendendo le distanze dall’esperienza autentica dell’assemblea domenicale. Ogni celebrazione richiama ed esige l’integralità della comunità ecclesiale.

         La tradizione della Chiesa, fin dai primissimi tempi, è chiara ed eloquente riguardo al nesso inscindibile “Eucaristia-Chiesa”, come esplicitamente attesta la Didascalia degli apostoli: “Insegna al popolo, con precetti ed esortazioni, a frequentare l’assemblea e a non mancarvi mai; che essi siano sempre presenti, che non diminuiscano la Chiesa con la loro assenza, e che non privino la Chiesa di uno dei suoi membri… Poiché il nostro capo, Cristo, secondo la sua promessa, si rende presente ed entra in comunione con voi, non disprezzate voi stessi e non private il Salvatore dei suoi membri; non lacerate, non disperdete il suo corpo” (II, 59, 1-2).

3. L’Eucaristia fa la Chiesa

         In primo luogo, l’Eucaristia fa la Chiesa come comunità di fede. Per anni è stata trasmessa una fede fondata più sulla paura che sull’amore, e così – senza generalizzare – di fatto è passata nella gente l’immagine di un Dio giudice vendicativo, più che padre misericordioso. Si è diffusa l’idea di una fede fatta di riti e di regole, e per tanti la messa domenicale è diventata una ‘tassa’ da pagare, un obbligo da assolvere, un precetto da soddisfare. Più che come una festa – non tanto una festa tra di noi: la domenica è la festa che Dio fa al mondo! – il giorno del Signore è stato vissuto come un ‘guastafeste’: un fastidio barboso e insopportabile che rovina la domenica e sciupa il weekend. Invece credere è sempre questione di incontro, e l’Eucaristia è il sacramento dell’incontro più vero e reale con il Signore: toccando il corpo di Cristo, il discepolo esclama: “Mio Signore e mio Dio!”.

         La disaffezione all’Eucaristia, che continua a contagiare un numero sempre più grande di battezzati, va ricondotta alla crisi della risposta di fede e del senso di appartenenza alla comunità e alla sua missione. Per questo, compito permanente della evangelizzazione – della nuova evangelizzazione! – è quello di riproporre la centralità dell’Eucaristia nella vita del cristiano e della comunità, mostrando come in essa confluisce e da essa parte ogni realtà e ogni impegno nella Chiesa e tra gli uomini.

         Accade talvolta che la ragione umana con le sue ‘ragioni’ voglia imporre al cristiano di lasciare Cristo per essere fedele alla sua verità. Ma se il fedele si nutre del pane eucaristico sa bene che c’è una Verità ancora più profonda: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Le luci possono spegnersi, ma resta la comunione, come un’ancora che non si può strappare dal cuore senza ferirsi mortalmente. Una carmelitana di Lisieux, al processo sulle virtù di Teresa di Gesù Bambino, fece questa deposizione: “Suor Teresa mi fece una confidenza che mi sorprese enormemente: Se sapeste  – mi disse – in quali tenebre sono immersa! Non credo più alla vita eterna! Mi sembra che dopo questa vita mortale non ci sia più nulla, tutto è scomparso per me. Non mi resta che l’amore”. Non le restava altra prova che la prova assoluta: Colui di cui viveva. Poiché amava, credeva. Contro la comunione nessun argomento può valere. E così Teresa morirà, dicendo: “Oh, mio Dio: tu hai superato ogni mia attesa! Mio Dio… ti amo!”.

         Questa fede è luminosa. Non è un salto nel buio: è un salto nella luce, tra le braccia dell’Amato. Non è un velo, come potrebbe far pensare l’espressione “il velo della fede”, ma una rivelazione nella semioscurità, una luce filtrata attraverso la condizione terrestre, dove c’è troppa luce per i nostri occhi, limitati e malati, del nostro povero cuore che è in comunione con l’Amore: “Possa egli illuminare gli occhi del vostro cuore!” (Ef 1,18). E’ il vertice dell’incontro di Emmaus: “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero… nello spezzare il pane” (Lc 24,31.35).

         Inoltre l’Eucaristia fa la Chiesa come comunità di speranza. L’Eucaristia non è solo il memoriale della Pasqua di Gesù: è anche la presenza anticipata del dono finale, “nell’attesa della sua venuta”. E’ una comunione con il Veniente, “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,17). E’ l’irrompere del futuro, già arrivato, anche se non ancora pienamente goduto. Dalla mensa del Signore, dall’esperienza dell’avvenire, si alza il grido: “Marana tha!”. La speranza salpa verso una riva dove ha già gettato l’ancora (cfr Eb 6,19). Nata dalla risurrezione di Cristo, la speranza spicca il volo verso questa stessa risurrezione, verso il Giorno del Signore: va dalla Presenza alla Presenza, dalla comunione alla comunione.

         Nell’Eucaristia la Chiesa raccoglie la speranza dell’umanità. La storia è un intreccio continuo di bene e di male, è luogo di scontro fra l’azione del maligno e la potenza dello Spirito, ma non va per questo demonizzata, va vissuta come “lotta nella speranza”. L’Eucaristia, vertice della liturgia, svela il senso della storia perché lo contiene: è forza per attraversarla coraggiosamente, per riconciliarla e consacrarla a Dio. Così la Chiesa, plasmata dall’Eucaristia, diventa una Chiesa della speranza: è il sacramento del sangue della nuova alleanza, versato per la remissione dei peccati, che invita e incoraggia i peccatori: “lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20).

         Pertanto l’Eucaristia non isola dal mondo e dalla storia, ma immerge profondamente in essi per ricomporli e salvarli in Cristo. In essa l’uomo non solo è proteso verso il domani, ma accoglie Dio per l’oggi: per questo, ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, siamo interpellati dalla storia. “Quello che abbiamo visto e contemplato con i nostri occhi, che abbiamo toccato con le nostre mani, che abbiamo mangiato con la nostra bocca, non solo dobbiamo annunciarlo, ma viverlo, rendendo ‘eucaristia’ tutti i nostri rapporti con il mondo, fino alla testimonianza del martirio, al quale Cristo ci chiama per essergli somiglianti”, avevano scritto i vescovi italiani, nella prima edizione del Catechismo degli Adulti.

         L’Eucaristia è, in questo senso, speranza vissuta e inaugurazione anticipata dei tempi futuri, e ci educa a leggere il tempo vivendolo in funzione dell’eternità. Anzi nell’Eucaristia tempo ed eternità si ritrovano e si richiamano, soprattutto in riferimento alla Chiesa, che è la comunità del “già e non ancora”. Noi possiamo perciò pregare il Risorto: “Signore, vieni ora, mentre siamo riuniti per la tua cena. Vieni ora e sempre. E vieni nell’ultima ora della nostra vita e della storia del mondo. Vieni a compiere il tuo regno!”.

         In terzo luogo, l’Eucaristia fa la Chiesa come comunità di carità. Cristo offre nel suo sacramento ciò che nessun amante potrebbe dare alla persona amata: di diventare uno stesso corpo, condividendo ciò che si ha di più personale: la morte e la nascita. Non solo l’invisibile si rende visibile, ma ciò che è più indivisibile, diventa pienamente condivisibile. Nozze così uni-ficanti sono quelle di un amore assoluto, perfetto, appartengono al mondo “altro e oltre”. La Chiesa le celebra nel tempo della storia con il Signore della storia, l’unico che può vincere le barriere dello spazio e del tempo, perché la sua Sposa si lasci avvincere nell’istante estatico dell’amore.

         La Chiesa comunica a Cristo nella morte alla ‘carne’, quella carne che caratterizza l’uomo nei suoi limiti e nel ripiegamento su di sé: l’Eucaristia inscrive nel cuore di chi la riceve la condanna di ogni egoismo. I fedeli mangiano “il farmaco di immortalità” (s. Ignazio Antiocheno) e bevono “il vino nuovo nel regno di Dio” (Mc 14,25), quel vino che è lo Spirito Santo, lo Spirito d’amore che regna sovranamente nella casa del Padre.

         Comunicando alla Pasqua di Cristo, quelli che ricevono l’Eucaristia, vengono uniti “in un solo corpo, in un solo Spirito”, saldati nella morte a se stessi, stretti e vincolati nell’amore nato dal cuore trafitto del Crocifisso-Risorto. E così viene reso possibile l’amore che viene comandato: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. E la preghiera di Gesù si compie: “Padre, che tutti siano una cosa sola!”. I fedeli amano in primo luogo coloro che partecipano alla stessa mensa, come è scritto: “Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede” (Gal 6,10). Ma la comunità eucaristica deve preoccuparsi di chiunque può avere bisogno del suo aiuto; cerca di giungere fino ai più lontani attraverso la “preghiera universale” e un amore attivo che si fa “tutto a tutti”. La potenza dello Spirito che convoca e concentra la Chiesa su un solo punto del mondo e del tempo – sul copro di Cristo – la apre e la universalizza nello spazio e nel tempo: “fino ai confini della terra”, “fino alla fine del mondo” (cfr Mc 16,15; Mt 28,20).

         Le tre virtù sorelle – la fede, la speranza, la carità – non possono vivere separate; nessuna di esse potrà essere abolita; insieme “rimangono” per sempre, ma “la più grande di tutte è la carità!” (1Cor 13,13). Nell’Eucaristia si annuncia il giorno in cui, delle tre virtù, si nominerà la virtù sovrana e uni-ficante, perché essa “tutto crede, tutto spera” (1Cor 13,7). L’Eucaristia è il test della perfetta unità: l’unità della fede e della speranza nell’unica carità.

4. Non c’è Chiesa senza Eucaristia

         L’Eucaristia fa la Chiesa educando a… fare Chiesa. Innanzitutto l’Eucaristia educa all’accoglienza. Quando il popolo si raduna in una determinata chiesa, l’assemblea non viene costituita semplicemente dalle persone che si sommano l’una all’altra; l’assemblea liturgica non è il frutto dell’umano stare insieme. L’unità che si stabilisce tra i fedeli non è puramente di tipo psicologico. La Chiesa è comunione nello Spirito Santo, che riunisce i figli di Dio dispersi. Pertanto ogni celebrazione deve evidenziare quella unità “pneumatica” – appunto, nello Spirito” – che è il riflesso sulla terra della comunione trinitaria. Tale comunione esclude ogni orizzontalismo sociologico, poiché ha la forza di abbattere ogni divisione e di ristabilire il circuito dell’amore nell’unico corpo di Cristo. Nell’assemblea eucaristica ogni fedele viene accolto, specie se povero ed emarginato, sotto il segno della gratuità. Si traduce così in atto l’invito dell’apostolo: “Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio” (Rm 15,7). I riti di ingresso hanno appunto lo scopo di “dare inizio alla celebrazione, favorire l’unione dei fedeli riuniti (…) mentre il sacerdote fa il suo ingresso con il diacono e i ministri” (IGMR 47-48). E’ appena il caso di sottolineare “il diacono e i ministri”: quindi, almeno un diacono e più ministri (almeno un lettore, un salmista, un accolito)! Fatto il segno di croce, “il sacerdote con il saluto annuncia alla comunità riunita la presenza del Signore. Il saluto del sacerdote e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata” (IGMR 49). Ma poiché il peccato è la sorgente di ogni divisione, i ‘convitati’ avvertono che la comunione con Cristo e con i fratelli è offuscata e compromessa dai loro tradimenti. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza della conversione e della riconciliazione che si esprimono nell’atto penitenziale: il rapporto infranto si ricompone.

         L’Eucaristia educa al dialogo. La liturgia della Parola ci pone in ascolto di Dio Padre che parla ai suoi figli. I fedeli rispondono anzitutto con il salmo, nella convinzione espressa da Pascal: “solo Dio parla bene a Dio”. Rispondono poi con il Credo e, dopo l’omelia, “il popolo, esercitando la sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini” (IGMR, 45). Siamo così educati a superare l’egoismo anche nella preghiera, e a dimenticare i nostri ristretti interessi personali per aprirci ai grandi orizzonti del regno di Dio. Il dialogo, che si compie nel rito, è poi chiamato ad esprimersi e a prolungarsi in tutta la vita. La Chiesa, entrando nel dialogo iniziato da Dio nella storia della salvezza, nelle sue caratteristiche di gratuità, di accoglienza, di apertura universale e di rispetto per ogni uomo, impara a dialogare con il mondo, al cui servizio pone la sua missione di portare il lieto annuncio.

         L’Eucaristia educa al martirio. Come attualizzazione del mistero della Pasqua, l’Eucaristia stimola e favorisce la partecipazione esistenziale alla ‘pro-esistenza’ di Cristo, alla sua vita completamente donata e spesa per gli altri. Dicendo: “Fate questo in memoria di me”, Cristo non ha chiesto la pura ripetizione di un gesto rituale. Ha chiesto di farlo come l’ha fatto lui, assumendo i sentimenti che furono i suoi. L’Eucaristia è perciò il momento in cui tutta la vita della Chiesa riceve l’amore oblativo di Cristo e poi lo ‘trasfonde’ – ne fa la ‘trasfusione’ – nelle arterie del mondo. E’ l’amore che pensa più a dare che a ricevere. Questo lo esprime attraverso i suoi martiri di ieri e di oggi. Come non pensare a quanti sono stati immolati proprio mentre presiedevano o partecipavano alla celebrazione eucaristica, come Oscar Romero? C’è poi tutta la schiera dei “campioni della carità”, dal diacono Lorenzo a Madre Teresa di Calcutta. Anche il volontariato più alto, che si esprime in una scelta stabile di vita, vissuta come vocazione al servizio, affonda le sue radici in questo stesso amore evangelico.

         L’Eucaristia educa al servizio. Nella liturgia i segni ‘parlano’: il pane non è fatto solo per essere mangiato. Esige anche di essere condiviso. Come si può partecipare al pane eucaristico e non condividere poi il pane quotidiano? I riti di comunione sono parte essenziale del rito conviviale. La comunione sacramentale è anche pieno inserimento nel corpo mistico del Signore, in cui vige la legge della piena comunione di vita tra le membra. L’Eucaristia sostiene l’impegno quotidiano di condivisione dei convitati con ogni forma di miseria. Dall’Eucaristia procede la ‘diaconia’. Forse per questo l’evangelista Luca collega al racconto della cena l’esortazione del Maestro al servizio. E il Gesù della cena, nel racconto di Giovanni, è in atteggiamento essenzialmente ‘diaconale’: è per questo che l’evangelista ‘sostituisce’ il racconto dell’istituzione eucaristica con quello della lavanda dei piedi?

         L’Eucaristia educa alla missione. La celebrazione eucaristica si conclude con il congedo dell’assemblea, un rito che non deve essere banalizzato come semplice avvertimento che tutto è finito. E’ piuttosto l’invito ad iniziare un’altra celebrazione, in cui è impegnata tutta la vita. L’assemblea si scioglie solo per disperdersi nelle strade del mondo e portare a tutti l’annuncio del Cristo risorto. Ecco la missione: non si va a portare qualcosa di proprio, ma a comunicare il dono ricevuto. Più che una cosa da fare, la missione è un modo di essere. La Chiesa è ‘Chiesa’, proprio perché è mandata, e la missione è missione proprio perché affonda le sue radici nell’Eucaristia, nella comunione ricevuta e vissuta con Cristo, il missionario del Padre. In questo senso è vero che la prima missione è la comunione, come il modo più vero e più alto di vivere la comunione è la missione.

Rimini, chiesa di san Agostino, 17 marzo 2014

+ Francesco Lambiasi