La ‘onnimpotenza’ della Croce

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della santa Eucaristia per la Domenica delle Palme

La croce è “vangelo”, lieta notizia, anzi la più bella, lieta notizia: è il luogo in cui l’amore di Dio si è mostrato più forte del nostro peccato. Eppure è una notizia scandalosa, la più sconcertante e sconvolgente: se Dio è amore e se l’amore di Dio è onnipotente, perché troppe volte nella vita e nella storia il bene lo si sperimenta sconfitto dal male, la verità infangata dalla menzogna, la libertà tradita dalla violenza? Ma la fede è l’unica strada che, senza farci bypassare il buio, freddo tunnel dello scandalo della croce, ce lo fa attraversare senza scorciatoie e ci permette di superarlo tutto intero, facendoci ritrovare all’uscita il lampo di una inconfutabile verità: Gesù ha salvato gli altri – tutti! – proprio rinunciando a salvare se stesso. L’amore del Crocifisso per noi ha fatto diventare la sua morte sorgente di vita per tutti noi.

1. Di questa notizia strabiliante e insieme consolante, Luca è narratore fedele e interprete penetrante e originale. Il suo racconto scorre parallelo a quello degli altri evangelisti, ma Luca è l’unico ad affrescare tre scene che ci permettono di “renderci conto della solidità” della nostra fede (cfr Lc 1,4). Queste scene corrispondono ad altrettanti ritratti che finiscono col delineare efficacemente la figura di Gesù.

La prima scena che si trova solo nel suo vangelo è quella di Gesù di fronte a Erode. Il tetrarca della Galilea è un personaggio corrotto e dissoluto, un soggetto cinico e meschino e, per giunta, un tipo terribilmente superficiale. Ha sentito parlare di Gesù e cerca di vederlo, per il piacere di assistere a qualche suo prodigio “in diretta”. Fa molte domande a Gesù, ma non cerca la verità di Gesù: vuole solo soddisfare la propria frivola, pruriginosa curiosità. Ma Gesù non gli risponde nulla, non per indifferenza o superiorità, ma per misericordia. Gesù tace per non condannare, come tra poco morirà per non uccidere. Per Erode la religione è solo spettacolo, e così l’incontro con quel Galideo – per lui un po’ strano e un po’ esaltato – si riduce a volgare sceneggiata. Erode tratta Gesù come re da burla, e non sa di essere lui una burla di re. Gesù è la luce che splende nelle tenebre; le tenebre, l’ambiguità, la menzogna hanno cercato di sopraffare la luce della verità, ma non l’hanno vinta. Erode beffeggia (lett. “nientifica”) Gesù, lo annulla, lo azzera: gli fa indossare la veste “candida”, e non si rende conto che così sta ‘candidando’ il re dell’universo, il sovrano dotato della vera libertà, quella che consiste nell’amare e nel servire per amore i propri sudditi, fino a dare la vita per tutti, sulla croce. L’onnipotenza divina si abbassa fino all’impotenza umana e diventa onnimpotenza: di questa ‘conversione’ è capace solo la folle, scandalosa regalità del Figlio di Dio fatto uomo.

2. La seconda scena, anch’essa tipicamente lucana, è quella dell’incontro di Gesù con le donne di Gerusalemme. Noi le chiamiamo pie donne, e l’espressione devota ha finito per suonare leziosa e sdolcinata. In realtà si tratta di autentiche “madri coraggio”. Per i giustiziati erano proibiti i lamenti funebri tenuti in pubblico, perché il giustiziato era considerato una maledizione( Dt 21,27-28). Le donne che seguono Gesù dimostrano con il loro audace contegno che egli non è un malfattore, ma un profeta che sta subendo la sorte di tutti i profeti: il martirio. Ed è appunto come profeta e con il linguaggio dei profeti che Gesù si rivolge a loro: le sue parole provengono dal profeta Osea, e sono parole di giudizio, che però non vogliono essere di condanna, ma di pressante appello alla conversione. Non è sulla sua morte che bisogna piangere, ma sulla sorte della città. Gesù non vuole la compassione; chiede la conversione. Gesù è il legno verde che brucia al posto di quello secco. E’ la misericordia di Dio fatta carne e carne crocifissa, che offre perdono anticipato a tutti, perché tutti possano convertirsi ed essere salvi. E’ la giustizia di Dio, non quella giustiziera, ma la giustizia ‘giusti-ficatrice’ (che ‘rende giusti’). Gesù non è dispiaciuto per sé, ma per chi lo rifiuta, per il male che si fa chi lo crocifigge. “Piangete su di voi” significa: “Nel mio male che patisco per voi riconoscete il vostro male, e nel mio dolore riconoscete il mio amore per voi”.

3. La terza scena è quella del buon ladrone, un ossimoro che dice una conversione quasi a tempo scaduto. Il primo malfattore rimane irremovibile nel suo giudizio o, meglio, nel suo incallito pre-giudizio: un sedicente Messia che muore e non salva se stesso né quelli che hanno lottato per la sua stessa causa, rappresenta una insolubile, accecante contraddizione. Merita soltanto scherno e disprezzo. Diversamente dal primo, il secondo brigante confessa senza attenuanti la propria colpa, riconosce l’innocenza di Gesù e a lui si affida, con quella preghiera struggente che attraversa tutta la storia e che nell’ora della nostra morte ognuno di noi vorrebbe far propria: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Il secondo malfattore invoca Gesù, chiamandolo per nome, ed è l’unica volta in tutto il NT in cui il nome ‘Gesù’ viene implorato in assoluto, senza ulteriore specificazione. Così il ladrone si conferma per quello che è: un ladro matricolato, che sa bene come impossessarsi di ciò che non è suo. E ottiene il paradiso senza pagare per entrarvi. Come faremo noi tutti. E Gesù si conferma per quanto dice il suo nome proprio: “Dio salva”.

Con questa domenica entriamo nella settimana santa. Che in questi giorni sacri possiamo sperimentare la gioia della misericordia. “La misericordia di Dio – ha detto papa Francesco, nel suo primo Angelus – cambia tutto, cambia il mondo e lo rende meno freddo e più giusto”. Di questa misericordia e del suo frutto più squisito, la gioia, abbiamo un lancinante, sconfinato bisogno. Tutti.

Rimini, Basilica Cattedrale, 24 marzo 2013

         + Francesco Lambiasi