“La mia Chiesa”

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della liturgia eucaristica celebrata in occasione del 6° anniversario della morte di Don Giussani – Rimini, Cattedrale, 22 febbraio 2011 –

La parola di Dio è inesauribile. Penso che capiti a me quello che certamente capiterà anche a voi: quando ci si mette davanti alla parola di Dio in atteggiamento di sincera, disarmata apertura a lasciarsi trafiggere da quella spada a doppio taglio, anche quando il brano lo si è già letto e riletto più volte al punto da conoscerlo quasi a memoria, si inciampa sempre in un versetto, in una espressione o addirittura in una sola parola che brilla di luce nuova, come se la leggessimo per la prima volta. Questo avviene perché la parola di Dio è come una fontana a cui ci si può sempre dissetare, ma che nessuno può mai del tutto esaurire. L’immagine viene da un antico padre della Chiesa, il quale si domandava: “Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? E’ molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come degli assetati che bevono a una fonte” (s. Efrem diacono).

1. “Edificherò la mia Chiesa”

Per una singolare coincidenza, l’anniversario del “santo viaggio” di Don Giussani coincide con la festa della cattedra di s. Pietro, ed è per questo che ogni anno ci è dato di leggere nella Messa sempre lo stesso brano: il vangelo della confessione di Pietro. Tenendo presente l’esortazione apostolica Verbum Domini, là dove papa Benedetto raccomanda al predicatore di “lasciarsi interpellare lui per primo dalla parola di Dio che annuncia” (n. 59), quest’anno mi sono soffermato – e vorrei farlo ora anche con voi – sulla parola di Gesù: “Edificherò la mia Chiesa”. E precisamente su quella paroletta: mia.

Quell’aggettivo possessivo dice una verità incontestabile: la Chiesa è sua – del Signore – costitutivamente e irreversibilmente sua. Viene da Gesù Cristo, vive in lui, agisce con lui, opera per lui. Se la Chiesa è un edificio, Cristo ne è insieme la roccia di fondamento – su cui poggia la pietra angolare, Simone Kephas – e insieme l’architetto e il costruttore. Ma se l’edificio ecclesiale registrasse segnali di preoccupante instabilità e presentasse delle crepe irreparabili, allora Cristo ne sarebbe stato un incompetente, irresponsabile progettista, un capomastro goffo e maldestro. Se la Chiesa è il corpo di Cristo, delle due l’una: o Cristo ne è il capo influente e vitale, o la Chiesa sarebbe un tronco umano decapitato, non un corpo vivo ma un inerte, gelido cadavere. Se la Chiesa è la sposa di Cristo, o Cristo ne è lo sposo ardente e appassionato che non si stanca mai di rendere sempre più bella, fresca e radiosa la sua sposa, oppure la sposa sarebbe piuttosto una misera derelitta o una povera vedova triste e inconsolabile. Mentre invece leggiamo nella Lettera agli Efesini: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga né alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,26s). Ecco chi è la Chiesa: è la sposa di Cristo, perché a lui indissolubilmente vincolata, con lui indefettibilmente congiunta, da lui tenacemente purificata, difesa, sostenuta – in una parola – amata. Il sommo Poeta la definisce: “la bella sposa / che (Cristo) s’acquistò con la lancia e co’ clavi” (Paradiso, XXXII, 128s).

Dunque non si può ridurre la Chiesa ad una sorta di cartello stradale, che indica il santuario – fuor di metafora, il regno di Dio – ma che rimane impalato là dove è stato piantato. Così vorrebbe qualche teologo che tempo fa affermava: “Tutto il senso della Chiesa non sta in essa né in ciò che essa è, ma in ciò verso cui si dirige” (H. Kueng). Invece la Chiesa è “sacramento” del Regno: segno visibile e parlante, anticipazione effettiva e presenza efficace del regno di Dio, impersonato in Gesù Cristo.

2. Cristo sì, Chiesa no?

In una meditazione tenuta davanti al santo padre Giovanni Paolo II e ai membri della curia romana, l’allora card. Ratzinger affermava: “Nella teologia moderna si è aperto un abisso tra Gesù e la Chiesa, abisso che non rimane teoria, ma che si traduce in un atteggiamento, espresso nello slogan ben conosciuto: Gesù sì, Chiesa no”.

Ma la fede della santa Tradizione e della retta ortodossia ci dice che non si dà né Cristo senza Chiesa né Chiesa senza Cristo: Cristo senza la Chiesa sarebbe irreperibile, la Chiesa senza Cristo sarebbe vuota e inconsistente. E’ vero: quando nella Chiesa non si vede più Gesù Cristo è come – fatte le debite proporzioni – quando in Gesù Cristo non si vede più Dio: cosa resta della fede cristiana e cattolica? Di fatto Dio non ha disdegnato i panni dell’uomo Gesù, e Gesù non ha disdegnato i panni di Pietro e dei suoi fratelli.

Nel lontano Medioevo circolava la storiella di quell’ebreo che volendo recarsi a Roma, fu sconsigliato dagli amici cristiani per paura che ne rimanesse disgustato e che invece poi tornò a casa con la certezza che il Vangelo doveva essere necessariamente di origine divina, perché la Chiesa non era ancora riuscita a distruggerlo. Di questa storia si trova traccia nella letteratura italiana, ad es. nel Decamerone. Ma già Dante nella Divina Commedia, rivolgendosi a san Pietro, scrive che “la buona pianta” da lui seminata “ora è fatta pruno”, precisando però che proprio qui risiede il miracolo per cui “‘l mondo si rivolse al cristianesmo” (Paradiso, XXIV 106-111).

Molte delle critiche fatte alla Chiesa di Cristo nascondono purtroppo un duplice deficit di conoscenza: una riguarda Gesù Cristo, l’altra riguarda la Chiesa. Come Gesù non esercitò un ministero senza unire a sé un gruppo di discepoli, così la Chiesa non può esercitare il proprio ministero se non in unione a Gesù. La conseguenza inevitabile è questa: se qualcuno vuole aderire a Cristo prescindendo dalla Chiesa o opponendosi ad essa, in realtà lo fa per una iniziativa tutta propria, senza corrispondere all’intenzione originaria di Gesù. “Se si tratta di un battezzato che, pur pretendendo di volersi dire cristiano, di fatto si estranea dalla Chiesa solo per le molte critiche possibili nei suoi confronti, in realtà questi fa un passo indietro nei confronti di Gesù Cristo” (R. Penna).

3. Uniti attorno alla cattedra di Pietro

Ma ora, prima di avviarmi alla conclusione, vorrei tornare sul titolo della festa odierna: la cattedra di s. Pietro. Sarebbe errato attribuire al termine cattedra il significato più usuale. Viene spontaneo pensare sia al pulpito dal quale un tempo i predicatori si rivolgevano all’assemblea, sia alla cattedra dei professori, detentori di un sapere prestigioso da impartire agli studenti. Per comprendere la “cattedra” di Pietro bisogna far riferimento all’etimologia: cattedra deriva da cathedra: sedia a braccioli. Nella Chiesa primitiva è il simbolo della presenza di un vescovo: dov’è la cattedra, là è il seggio episcopale. Il termine darà origine a quello di cattedrale che è il luogo dove il vescovo presiede all’eucaristia. Si sa che anche il vescovo non saliva mai al pulpito per predicare, ma parlava dal suo seggio episcopale. Da qui è derivata l’espressione, riservata al vescovo di Roma, il papa, capo del collegio episcopale: parlare ex cathedra, cioè parlare con autorità infallibile.

Ed ecco come s. Leone Magno immaginava la venuta di Pietro a Roma: “E’ nell’Urbe che tu vieni, santo apostolo Pietro. Tu entri in questa città che è come una foresta piena di animali feroci. Tu avanzi nelle sue strade come in un oceano in burrasca. E là tu sei più sicuro di te stesso, di quando camminavi sul mare! Sei senza paura davanti a Roma, la padrona del mondo, quando invece avevi tremato di paura di fronte alla serva del sommo sacerdote. Ora ciò che vince la paura è la potenza dell’amore. Tu portavi nella città imperiale la croce di Cristo come un trofeo. Ti lasciavi condurre da lei al tuo posto di autorità e alla gloria del martirio”.

Termino consegnandovi nuovamente le parole che vi disse papa Benedetto nel XXV di riconoscimento della Fraternità di CL: “Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso don Giussani, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un’epoca in cui andava diffondendosi l’opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. (…) Vi invito a continuare su questa strada, con una fede profonda, personalizzata e saldamente radicata nel vivo Corpo di Cristo, la Chiesa, che garantisce la contemporaneità di Gesù con noi”.

Che il Signore vi benedica, vi protegga, vi sostenga. E che Maria vi sorrida e vi accompagni.

Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam!

+Francesco Lambiasi