La gioia di essere cristiani e preti

Omelia del Vescovo nel corso della Messa Crismale

E’ festa. Oggi è la festa regale del nostro sacerdozio battesimale, carissimi fratelli e sorelle, qui convocati in segno della comune dignità di popolo fatto tutto di re, di profeti e sacerdoti, “stirpe eletta, nazione santa, popolo scelto da Dio per annunciare le sue meraviglie” (1Pt 2,9). Ma è anche la splendida festa del nostro sacerdozio ministeriale, carissimi fratelli presbiteri: oggi la Chiesa celebra la memoria annuale del giorno in cui Cristo Signore partecipò agli apostoli e, attraverso di loro, a noi presbiteri il suo sacerdozio santo e santificante. Ricorre il nostro compleanno: che lo Spirito del Crocifisso risorto ci aiuti a festeggiare e a vivere questa messa come il giorno della nostra ordinazione sacerdotale, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù (…) il sommo sacerdote misericordioso e degno di fede” (Eb 12,2; 2,17).

1. La gioia di essere cristiani

Sono anni e anni che ascoltiamo i brani della liturgia in corso, e ormai li conosciamo quasi a memoria. Rischiamo l’assuefazione, il narcotico soporifero che anestetizza ogni brivido di innocente stupore. Per non cadere nella sensazione di annoiata sazietà dovuta alle cose troppe volte ascoltate, non ci basta rileggere le letture bibliche: ci occorre scrutare le Scritture, esplorarle tra le righe e le pieghe della pagina sacra, quasi spremendo ogni parola, lasciandoci sorprendere da ogni sprazzo di luce. Ho provato a fare così, e ho incrociato quel versetto che ritorna per ben due volte in questa liturgia: prima nel rotolo del profeta Isaia come promessa, poi, come compimento, nel racconto di Luca. “(Lo Spirito del Signore) mi ha mandato ad evangelizzare i poveri”. In quel verbo – evangelizzare, lett. “annunciare un messaggio di gioia” – ho rivisto occhieggiare, come fosse la prima volta, le lettere fragranti della parola ‘gioia’, voce bilingue che sa di cielo e di terra, una di quelle parole maiuscole che appartengono al dizionario divino-umano, umano-divino. “Al solo sentirla nominare, tutti si drizzano e ti guardano, per così dire, nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro struggente bisogno” (s. Agostino).

         La parola gioia veicola due domande: si può essere felici senza Dio? si può essere felici con Dio? Quasi in risposta alla prima domanda, degli atei inglesi qualche anno fa hanno promosso una campagna pubblicitaria, facendo apparire sugli autobus la scritta: “Probabilmente Dio non esiste. Smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Ma le cose stanno davvero così? A guardare bene, bisogna onestamente riconoscere che la tristezza aleggia nelle case, l’ansia e la paura vanno a braccetto per le nostre strade, la depressione e l’angoscia mietono sempre più vittime nella nostra società, impietosamente autodefinitasi “sciapa e infelice” (Censis, 2013).

         Quanto alla seconda domanda – si può essere felici con Dio? – possiamo francamente ammettere che, pur dovendo attraversare nebbie e controllare ipertensioni, pur dovendo registrare fatiche, slanci e ricadute, siamo al corrente di numerose testimonianze che autorizzano una risposta positiva.

         Sì, si può essere felici con Dio, ci insegna Gesù. Il Dio secondo Gesù di Nazaret è Padre: non padre-padrone, ma Padre-Abbà. La ricaduta di questa verità è che, se “io-sono”, allora è segno che io-sono pensato da Lui e che da Lui io-sono immensamente amato. “Amor, ergo sum” (Sono amato, dunque sono), si potrebbe dire parafrasando Cartesio. Non c’è gioia più grande di questa: sentirsi amati dall’Amore. Non esiste felicità più solida e infrangibile della stupefacente meraviglia di piacere all’Artista che ci ha sognati e plasmati e di potergli gridare stupiti e commossi: “Tu mi hai fatto, mio Dio, come un prodigio. Sono stupende le tue opere!”. Fratello, sorella, per quello che sei, per quello che hai, per quello che puoi e che vali, tu sei opera delle sue mani, tutto hai ricevuto da Lui: tu puoi stimarti in quanto sei amato da Lui, in modo unico, singolare e irripetibile. Nessuno di noi è uno scarabocchio, destinato al cestino della carta straccia. Nessuno di noi è uno qualunque, ma è un tipo speciale, un fuori-serie, non duplicato né duplicabile da alcun clone, perché Dio Padre ci conta perfino i capelli del capo, uno ad uno, e ci ama come non è stato amato, non è e non sarà amato nessun altro nella sterminata storia dei viventi. Non puoi avere dubbi: per il tuo Signore tu sei importante; sei prezioso ai suoi occhi. Del resto basta che ti soffermi a rileggere la storia ingarbugliata della tua vita, e la vedrai come una storia di salvezza: quante volte Dio Padre ha mandato suo Figlio a ripescarti da naufragi e tracolli, a recuperarti da sbandate e paurosi infortuni…

         Scrive papa Francesco: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (EG 1). Popolo di Dio che è in Rimini, canta il Magnificat per il tuo sacerdozio battesimale e respingi la tentazione della tristezza come la tentazione più subdola e impura.

2. La gioia di essere preti

Anche noi pastori ci portiamo dentro un desiderio sconfinato di felicità, e anche a noi è stata promessa una gioia straripante, corrisposta con un tasso di interesse centuplicato, versata in caparra con una misura pigiata, scossa e traboccante.

         La gioia di essere preti è la gioia di essere scelti. Lui, Gesù, è fatto così. Un giorno è passato per la mia strada, ha gettato gli occhi su un mucchio di pietre scartate, ha scelto quel ciottolo sporco e opaco che ero io, e mi ha reso il grande onore di potergli servire nella costruzione della sua casa. Non mi ha scelto perché ero – di mio – utile e prezioso, ma mi ha reso prezioso e utile perché mi ha guardato con commovente tenerezza.

         E’ la gioia di essere peccatori perdonati e messaggeri di perdono. Lui, il buon Pastore, è fatto così. Non affida il ministero della misericordia ad esseri angelici e immacolati che si possono permettere il lusso di sentirsi perfetti. Consegna la sua tenerezza alle mani di poveri peccatori, per far loro provare la gioia di poter dire ad altri peccatori, anch’essi assetati di felicità, dove insieme potranno dissetarsi: alla fontana della divina misericordia.

         E’ la gioia di servire alla gioia dei fratelli. Lui, il grande sacerdote, è fatto così: guarda dei poveretti come noi e ci sceglie per una missione da compiere nella vita: quella di un intera esistenza donata per amore. E’ la gioia di spendersi a fondo perduto, che non si lascia incrinare dall’ingratitudine, né si lascia frenare dagli scarsi risultati, né spegnere dal gelido vento dell’indifferenza.

         E’ la gioia di una vita vissuta nella povertà, abbracciata per amore di Cristo povero e dei suoi vicari, i piccoli e i poveri, nella certezza che ogni bene e perfino i beni di Dio non possono mai oscurare Dio come unico bene della nostra povera vita. Nella castità di un cuore indiviso, che ha smesso di pensare a se stesso, che non offre corsie preferenziali per qualcuno – se non per i poveri – e non pianta cartelli con “divieto di accesso” per nessuno. Nell’obbedienza alla volontà di Dio, manifestata dal vescovo e serenamente abbracciata, senza condizioni e senza riserve. Senza programmarsi il futuro, senza puntare sulla propria realizzazione, senza monopolizzare la propria libertà, sapendo che per ardere senza bruciarsi, non basta spendersi: occorre donarsi.

         E’ la gioia della Pasqua, la perfetta letizia, la gioia non ‘nonostante’ ma ‘attraverso’ il dolore, vissuto con un po’ di fede e con un pieno di amore. La fede che dà la forza di fidarsi più dell’Amore invisibile ma eterno che della sofferenza tangibile ma temporanea.

         Per mantenere viva la fiamma della gioia, vale la pena ricordare alcune ‘perle’ della sapienza tradizionale, che hanno aiutato molti in passato e possono tornarci utili ancora oggi. La prima: a noi è offerta la gioia di seminare, ma non è sempre garantita la gioia di raccogliere. La seconda: è il vangelo della vita fraterna che permette all’acqua viva della gioia di zampillare e rinfrescare anche il deserto spesso arido e torrido della quotidianità. Un’ultima perla: solo chi coltiva la rara pianta della gioia dentro di sé, ne può condividere i frutti con gli altri; solo chi ha imparato a ridere umilmente di sé, è in grado di far sorridere anche gli altri.

         Fratelli presbiteri, siamo chiamati ad essere preti in un mondo che non riesce più a trovare l’indirizzo di casa della gioia. D’altro canto è la gioia l’unico segnale di vangelo che anche i non credenti sono ancora in grado di decodificare e che può metterli seriamente in crisi. Papa Francesco ci scuote: “Non lasciamoci rubare la gioia! Un cristiano non può mai essere triste”.

         E a voi fedeli tutti, noi, presbiterio di Rimini, oggi qui convocato in seduta plenaria, diciamo forte, con la solennità di un giuramento e con tutta la grinta che lo Spirito del Risorto ci mette in corpo: “Noi non intendiamo fare da padroni della vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24).

Rimini, Basilica Cattedrale, 16 aprile 2014

+ Francesco Lambiasi