Io offro la mia vita per le pecore

Omelia tenuta dal Vescovo nella festa del Patrono

Vescovo e martire: sono questi i due attributi salienti che figurano nella ‘carta d’identità’ di san Gaudenzo. Ed è sul secondo tratto distintivo – il martirio – che ora vorrei soffermarmi. Prima però dobbiamo puntare e tenere lo sguardo fisso sul primo martire, che a rigor di logica evangelica – più che santo Stefano protomartire – è stato Gesù, il primo martire, in assoluto. Non solo testa di serie di tutti i martiri, ma il martire fuori-serie. Come abbiamo ascoltato dal vangelo appena proclamato, in quel tempo, in quel giorno Gesù a Gerusalemme, presso la Porta delle Pecore, ha solennemente rivelato: “Io offro la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-17). Con questa affermazione Gesù supera di un balzo tutto l’Antico Testamento. Il profeta Ezechiele – come risulta dalla prima lettura – era arrivato fino al punto di dire che Dio stesso avrebbe fatto da pastore per Israele, suo gregge. E sarebbe andato in cerca della pecora perduta, avrebbe fasciato quella ferita e curato quella malata (Ez 34,16). Ma Gesù ha fatto quello che nessun pastore al mondo riesce a fare: dare la propria vita per salvare le sue pecorelle. Così ha fatto anche il nostro san Gaudenzo, vescovo e martire: ha offerto la propria vita per amore di Cristo e della sua e nostra Chiesa riminese.

1. Ma chi è il martire? Non è il kamikaze, il quale si uccide per uccidere. Il martire cristiano non uccide nessuno, ma si lascia uccidere e sacrifica la propria vita non solo per amore dei fratelli, ma addirittura anche dei suoi uccisori. Il martire cristiano non è il gladiatore che in un macabro gioco al massacro lotta contro un altro gladiatore, cercando di togliergli la vita prima che l’altro la tolga a lui. La violenza è un coltello: chi sta dalla parte del manico vince se chi sta dalla parte della lama non riesce a strappargli l’impugnatura. Ne nasce un mondo di carnefici e di vittime. Certo, anche il martire deve calarsi nella vasta arena del mondo, ma lì trova lo Spirito Santo a fargli da “allenatore” e da sostenitore (Tertulliano). Per questo egli riesce ad operare la scelta del buon Pastore: offre la sua vita. Si noti bene per dire “offrire la vita” il vangelo di Giovanni usa un verbo che ha la triplice valenza di ‘esporre-disporre-deporre’ la propria vita, per amore dei fratelli e dei nemici. Per questo non si può concepire un martire né possiamo pensare al vescovo Gaudenzo come martire di Cristo, che non abbia perdonato i suoi carnefici, come ha fatto lo stesso Cristo. Il perdono non è un’appendice formale del martirio, ma la sua più vera e intima sostanza.

In questo anno dedicato al Giubileo della divina misericordia, noi non possiamo sciupare una felice occasione come la festa del nostro patrono, vescovo e – insisto – martire, ossia testimone della misericordia del Signore. Non possiamo far finta di non aver sentito o di non aver capito. Abbiamo ascoltato nella seconda lettura (2Cor 4,1-7) san Paolo che si è presentato con parole che ricalcano in pieno la figura di san Gaudenzo: “Avendo (ricevuto) questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo”. Ecco, san Gaudenzo ha creduto fino in fondo nella misericordia del Signore. E’ un apostolo-pastore che gratuitamente ha ricevuto misericordia da Dio Padre e, a sua volta, ha gratuitamente donato misericordia ai fratelli nella fede, alla prima generazione di cristiani della nostra Chiesa riminese. Credere nella misericordia, infatti, significa credere che Dio è Padre misericordioso, non un padre-padrone né un mostruoso tiranno dal volto arcigno e ostile. Per questo il Papa non si stanca di ripeterci che in questo Giubileo noi credenti dobbiamo fare un’opera di restauro dell’immagine di Dio che ci portiamo dentro e che, consapevolmente o inconsciamente contagiamo agli altri. E’ un restauro che consiste in un lavoro previo di ‘raschiatura’ dell’immagine di Dio, che spesso – paradossale, ma vero! – proprio in noi credenti risulta distorta e deviata. Basti vedere: quali sensazioni provoca in noi quel versetto del Padre nostro, dove preghiamo: “Sia fatta la tua volontà”. Non è forse vero che spesso rischiamo di pensare che la volontà divina preveda per noi castighi, sciagure, brutti incidenti e acerbi malanni?

2. E invece Gesù ci ricorda: “Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”. Sì, togliamoci dalla testa l’idea di un dio magari come essere perfettissimo, ma gelido e indifferente, nostro acerrimo antagonista, come qualcuno ha detto: “Dove nasce Dio, muore l’uomo” (Sartre). Questa è stata l’insinuazione di Satana, quando ha cercato di inoculare il veleno mortale di un’immagine perfida e maligna di Dio nel cuore e nella testa dell’umanità delle prime origini. No, Dio non è il nostro terribile avversario: è piuttosto il nostro più benevolo e potente alleato. Non è un padre-padrone, un giudice implacabile e spietato. E’ un padre-padre, un padre-papà. La sua perfezione consiste nell’essere la misericordia infinita, totalmente gratuita, sconfinata, immensamente generosa e disinteressata. Ma, a questo punto, inesorabilmente rispunta la domanda: e la giustizia dove è andata a finire? A cinque secoli di distanza dobbiamo riconoscere che è stato Lutero ad aiutare la Chiesa di Cristo a riscoprire il senso genuino della giustizia evangelica. Che non è una giustizia punitiva e vendicativa. Con le sue tesi sulla giustificazione – di cui l’anno prossimo ricorderemo il quinto centenario dell’affissione sul portale della cattedrale di Wittemberg – Lutero, sulla scia di sant’Agostino, ci ha ricordato che Dio è giusto in quanto ci rende giusti, e questo lo fa non per i nostri meriti, ma per la sola sua grazia. Quindi la giustizia di Dio non è giustiziera, ma giustificatrice, e perciò coincide con la sua misericordia. Pertanto l’alternativa alla misericordia non è la giustizia, ma la vendetta.

Ma il segno più convincente della nostra fede nella misericordia di Dio è quell’opera di misericordia spirituale che si enuncia con la formula: “perdonare le offese”. Così la grazia del Signore ci fa passare dal dono della misericordia alla misericordia come perdono. Ed è appunto il perdono il segno distintivo e inequivocabile della carta di identità di noi cristiani. Qui, più che tante parole, vale il linguaggio delle testimonianze dei martiri o dei loro fratelli nella fede. Eccone una che viene dagli anni di piombo, e che è stata resa dal figlio di Vittorio Bachelet, in un recente convegno, tenutosi qualche giorno fa a Palermo:

Il mio perdono agli uccisori di papà prescinde dal loro atteggiamento: è a priori, viene dal fatto che io sono stato perdonato e voglio essere perdonato. Questo non toglie, come ho sempre detto, che la giustizia umana debba fare il suo corso. Ma per quello che vale, il mio atteggiamento verso gli uccisori non è di rivincita, o di   attesa di vendetta. Io sono un peccatore e mi rapporto ad altri peccatori senza mettere in conto il torto subito, ma guardando alla comune condizione di bisognosi del perdono”.

         Abbiamo bisogno di tornare ai piedi della Croce. Abbiamo bisogno di chiedere e di domandare perdono. A tutti i livelli: ecclesiale, civile, sociale. In tutti i luoghi: in casa, nel condominio, a scuola, in parrocchia, nelle istituzioni, sul posto di lavoro, della festa, del tempo libero.

Perché allora non prolungare il Giubileo della divina misericordia con una pacifica crociata del perdono?

Rimini, Basilica Cattedrale, San Gaudenzo, 2016

+ Francesco Lambiasi