Il volto del Dio capovolto

I gesti della Misericordia nell’ultima cena

Omelia del Vescovo nella Messa in Cena Domini

Gesù non solo ha previsto la sua morte, ma ne ha anche centrato il significato più pieno e lo ha raccontato con gesti plastici e con parole trasparenti. Per il profeta di Nazaret la croce non è tanto l’epilogo cronologico della propria vicenda, e neppure semplicemente lo sbocco logico, inevitabile e prevedibile di ciò che egli aveva detto e fatto, l’esito ultimo delle reazioni violente che aveva provocato. Gesù vede la morte e la interpreta come l’espressione inequivocabile di una ostinata fedeltà, senza se e senza ma, al disegno dell’amore di Dio, il quale vuole essere sempre tenacemente disponibile alla salvezza dei suoi figli, anche a fronte della loro più brutale malvagità.

1. Per documentare queste affermazioni, decisivi risultano due racconti, ambedue ambientati nel cenacolo, nel clima intimo dell’ultima cena: la lavanda dei piedi e l’istituzione dell’eucaristia.

Il gesto di Gesù che lava i piedi ai discepoli svolge nella trama del quarto vangelo un ruolo simile a quello dell’eucaristia nei vangeli sinottici: rivelare il senso della passione imminente e tracciare una traiettoria per il futuro cammino della Chiesa nella storia. La nota introduttiva è quanto mai efficace: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”. Vi si specchia un Gesù pienamente consapevole non solo dell’imminenza della passione, ma anche del suo pieno significato: la morte non è il capolinea del suo percorso, ma lo svincolo determinante per imboccare il rettilineo di ritorno nella casa del Padre. E’ il “passaggio” definitivo: una vera “pasqua”. Nell’ora suprema Gesù supera se stesso, arrivando ad amare i suoi “fino alla fine”, non solo fino all’ultimo respiro, ma fino al massimo compimento, fino a una straripante pienezza. La misura dell’amore di Gesù è un amore senza misura.

Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli: sembrano gesti raccontati alla moviola. Esprimono un sentimento di umiltà? Certamente: nessun rabbi quella sera a Gerusalemme avrà compiuto un atto del genere nei confronti dei discepoli. Un buon esempio, allora? Senza dubbio: Gesù stesso usa questo termine: “Vi ho dato un esempio”. Ma il termine greco – upodeigma – può significare anche dimostrazione e rivelazione. Con il suo gesto insolito e sconcertante Gesù visibilizza la logica che ha ispirato tutta la sua vita: una logica che parla l’alfabeto dell’amore, scrive la grammatica del servizio, declina la sintassi del sacrificio di sé. Ma così Gesù si mostra come la piena trasparenza della logica del Padre, quella di un Dio capovolto; che non mette i suoi figli – e neppure i suoi nemici! – a sgabello sotto i suoi piedi, ma si abbassa ai loro piedi per lavarli e accarezzarli con struggente tenerezza. E’ lo stile di Gesù: afferma la sua grandezza non facendosi servire, ma mettendosi, lui, il Maestro e il Signore, a servire i discepoli. Però non compie questo servizio nonostante la consapevolezza della sua dignità, ma proprio perché ne è lucidamente consapevole.

2. L’altro gesto-segno compiuto da Gesù durante la cena è anch’esso scandito quasi al rallentatore: prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede. Per circa tre anni Gesù non si era mai chiuso alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. E aveva instancabilmente operato perché gli uomini riscoprissero Dio come Padre di tutti: dei poveri, dei discriminati, dei peccatori, dei nemici, di quelli che soffrono e di quelli che fanno soffrire. Per rivelare il volto misericordioso di Dio, ha contestato il sistema religioso vigente e si è esposto alla morte. Ora fa della morte il compimento del suo servizio; va incontro ad essa in atteggiamento di solidarietà verso tutti, compresi i suoi persecutori; e così rimane fedele al suo Dio, compie la sua volontà e a lui si abbandona fiducioso, perché il regno di Dio venga, come vittoria definitiva dell’amore e della vita, come nuova ed eterna alleanza, per Israele e per l’umanità intera.

L’eucaristia viene istituita dal Maestro fra l’amara costatazione del tradimento di Giuda e l’infallibile profezia dell’abbandono dei discepoli. Il dono supremo di Gesù avviene nella notte in cui veniva tradito. E’ dunque un dono che scaturisce dal perdono. Gesù si è liberamente e spontaneamente “donato”, cioè consegnato, mentre veniva “tradito”, cioè consegnato. E’ proprio qui la chiave della passione, nel verbo consegnare, un verbo bidirezionale: dice sia la consegna “verticale” che il Padre, in generosa, irreversibile gratuità, fa del Figlio misericordioso nelle nostre mani, sia la consegna “orizzontale” che il Figlio fa di sé lasciandosi passare, di mano in mano, da Giuda ai sommi sacerdoti, da questi a Pilato e da Pilato ai soldati, fino alla sua autoconsegna finale e definitiva al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito“. Il “consegnato” da Dio per misericordia e dagli uomini per miseria e malvagità è in realtà colui che si consegna!

Le prime comunità cristiane non celebravano l’eucaristia senza evocare l’ombra del traditore che si era allungata quella sera, sulla tavola del pane spezzato e della coppa di vino rosso, il sangue versato. Nello stridente contrasto fra il Gesù – soggetto – che liberamente si dona consegnandosi e il Gesù – oggetto – consegnato e vigliaccamente tradito dagli uomini, la Chiesa ha colto la grandezza della misericordia di Gesù, la sua ostinata gratuità, la sua infrangibile solidità.

Questa vicenda racchiude anche un duplice messaggio per la Chiesa. La comunità è invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato. Viene così delegittimato alla radice ogni motivo per dire: Questa non è più la Chiesa amata da Gesù! Contemporaneamente emerge l’invito a non cullarsi in false sicurezze e a non presumere delle proprie fragilissime forze. Il peccato è sempre dietro l’angolo. La comunità è invitata a vigilare.

Ma c’è un messaggio ancora più importante, ed è espresso da san Paolo con tonalità accorate: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6-8).

Affidiamoci ora a un altro passo di s. Paolo, il celebre inno cristologico della Lettera ai Filippesi, che è un po’ come l’antifona o motivo continuamente ripetuto quasi come un ritornello di questi santi giorni:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.
Egli era come Dio,
ma non conservò gelosamente
il suo essere uguale a Dio.
Rinunciò a tutto:
diventò come un servo,
fu uomo tra gli uomini.
e visse conosciuto come uno di loro.
Abbassò se stesso,
fu obbediente fino alla morte,
e alla morte di croce.

Rimini, Basilica Cattedrale, 24 marzo 2016

+ Francesco Lambiasi